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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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Bleed From Within - Shrine
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11/06/2022
( 1497 letture )
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Dopo una spasmodica attesa dovuta alla genuina bontà di album come Era (2018) e Fracture (2020) era lecito aspettarsi l’impossibile dal quintetto di Glasgow, Scozia. Novello in Nuclear Blast, il freschissimo Shrine, lucidato ad hoc sin dalla splendida copertina policroma, ci sbatte in faccia l’evoluzione della band scozzese sin dagli esordi deathcore. I singoli avevano anticipato un lavoro clamoroso, in bilico tra groove, metal tecnico e tendenze sinfoniche, coadiuvate dalla presenza di una vera orchestra. Con occhi attenti e orecchie tese ci siamo dunque precipitati all’ascolto di questo nuovo album, curiosi di sapere dove le ottime basi di Fracture (uno dei top album del 2020, senza dubbio) avrebbero portato. Così, dopo esserci accomodati nel salotto del suono con la nostra fidata battle-vest, spegniamo cellulari e inutili orpelli per approcciarci all’ascolto di Shrine.
L’album parte in quinta con il singolo apripista I Am Damnation, apocalittica ed epica fino al midollo, grazie a una veste tutta nuova e a una produzione gigantesca e per nulla artificiosa. Si parte non bene ma benissimo, con il suono degli scozzesi giustamente affilato e mutato in un groove metal orchestrale. Un binomio sicuramente insolito, che poggia su una tecnica invidiabile e una forma smagliante. Ogni membro da il cento per cento e anche la scrittura è di alto livello. Riff tondi si sposano con breakdown spacca-ossa che lambiscono territori djent, mentre i tocchi di viola e violoncello conferiscono dramma e colore. I cori finali sono da brividi e lasciano giustamente spazio alla violenza corrosiva e thrasheggiante di Sovereign, tra mid e up-tempo dove il bravo Scott Kennedy ci stordisce con il suo timbro violento ma sempre comprensibile e le chitarre mordono senza sosta, graziate anche dalla imponente presenza di Vogg, master-mind dei Decapitated e ascia dei Machine Head, che sprigiona potenza e classe solista a go-go. Un uno/due da panico, quindi, con un livello di headbanging fuori controllo. Come non bastasse, la prima parte dell’ascolto si impenna ulteriormente mediante la severa malinconia di Levitate, dove le prestazioni di Craig Gowans e Steven Jones meritano più di un plauso, specialmente per la prova vocale di Jones, che affiancherà Scott Kennedy diverse volte nell’album, risultando non solo credibile ma preziosissimo in fase melodica. Levitate chiama in causa Parkway Drive e Architects per via del groove e della sinfonia, risultando un altro singolo vincente, variegato e ricco di potenza metallica. Il bridge sospeso è da urlo, così come il doppio solo di Gowans, che ci lascia con l’acquolina in bocca prima di piombare nel caos oscuro di Flesh and Stone, il brano migliore del lotto. Il numero 4 in scaletta è detonante e brutale, si appoggia al black metal e sprigiona classe e violenza da tutti i pori. Ali Richardson, clamoroso batterista in seno ai bravissimi Sylosis, eleva la qualità di quasi tutte le composizioni mediante la sua tecnica e il suo gusto violento e progressivo. Flesh and Stone unisce l’anima urticante al nuovo groove del combo di Glasgow , riuscendo nell’ardua impresa con somma classe e delizia. Il refrain , ai limiti del power metal , ne eleva il contenuto al quadrato, dimostrando un raro stato di forma. Con una struttura circolare, il brano si differenza dai precedenti pur continuandone il leitmotiv. Per i primi 20 minuti siamo al sicuro, sballottati tra proiettili invisibili e metallo fumante: poi cosa capita?
Non tutti gli ingranaggi sono oleati alla perfezione e, anzi, durante il proseguo di Shrine , i Bleed From Within -non senza stupore- fanno molta fatica a rimanere a galla. Una scrittura mediocre unità a banalità francamente evitabili (il metal-core frammentato di Invisible Enemy e le melodie di Death Defined sono quantomeno risibili), si affiancano a orpelli inutili (Skye, un intermezzo in crescendo posizionato male in scaletta e francamente mal composto), pilotando il giudizio da 9 della prima parte verso un abisso di punti interrogativi. La foga e arroganza di Era sembra lontana anni luce, ma ancora più distante sembra lo stato di grazia di Fracture, dove ogni elemento era perfettamente bilanciato. Stand Down, l’ultimo singolo, suona perfettamente in linea con le prima 4 tracce e risulta, di fatto, l’ultimo gioiello in scaletta. L’abbondanza del groove, il basso in primo di piano del bravo Davie Provan e gli stacchi precisi di Ali Richardson conferiscono una marcia in più a questo brano eccelso, destinato a fare sfaceli dal vivo grazie a un ritornello grezzo ma cantabile e a un sobbalzante ritmo spezza-clavicola. L’approccio orchestrale di brani come I Am Damnation , Levitate e Flesh and Stone viene completamente dimenticato in favore di un andamento groovy assolutamente prevedibile, dove le svisate soliste vengono curiosamente meno (spesso soffocate da stacchi squadrati non propriamente brillanti) e le idee risultano confuse e ripetute (Killing Time). E mentre Shapeshifter tenta invano di riprende il discorso della splendida Sovereign accelerando sul pedale del death/thrash, la conclusione è affidata alla blanda e prevedibile Paradise, dove le doti canore del duo Scott Kennedy / Steven Jones non bastano per risollevare le sorti di un ‘secondo tempo’ sottotono, non insufficiente ma inficiante per quanto riguarda la prestazione che ci si aspettava
dopo l’incipit bruciante ed esaltante di Shrine, che sarebbe stato un EP con i fiocchi.
La cosa peggiore è finire un ascolto sgonfiati dall’entusiasmo iniziale. Non credo esista una sensazione simile, specialmente quando si tratta di grandi band con doti tecniche importanti, buone idee compositive e grande attitudine. Sebbene gli scozzesi siano un’arma vincente in sede live e sebbene il novello Shrine ci regali dosi abbondanti di metallo pressofuso, cori intriganti, sinfonie e riff a iosa, il verdetto non può che essere tiepido. In conclusione, un album che sarebbe potuto volare tra i migliori se avesse continuato a distruggere ogni cosa come nella prima parte ma che, in definitiva, si auto-elimina partorendo troppi brani di mestiere che vorrebbero osare ma sanno di filler. Peccato, occasione parzialmente sfumata.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. I Am Damnation 2. Sovereign 3. Levitate 4. Flesh and Stone 5. Invisible Enemy 6. Skye (intro) 7. Stand Down 8. Death Defined 9. Shapeshifter 10. Temple of Lunacy 11. Killing Time 12. Paradise
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Line Up
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Scott Kennedy (Voce) Craig ‘Goonzi’ Gowans (Chitarra) Steven Jones (Chitarra, Voce) Davie Provan (Basso) Ali Richardson (Batteria)
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