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Bleed From Within - Zenith
17/04/2025
( 654 letture )
Con una carriera fatta di gavetta, prove, evoluzioni e mutazioni sempre in favore del cambiamento e del miglioramento, i figli di Glasgow Bleed From Within ritornano in scena dopo ben tre anni e mezzo dal discreto Shrine (2022), che aveva seguito a ruota due gemme totali come Era (2018) e Fracture (2020). Concerti su concerti, tour importanti e slot nei festival più importanti del Globo e rieccoci qui freschi di pubblicazione con il novello Zenith, che si mette in mostra fin da subito grazie all’altisonante e fiero titolo e al suo prezioso e oscuro artwork dipinto di nero e oro. Un bel bigliettino da visita per un rientro decisamente armato e convincente, che esalta non poco e -non scevro da qualche episodio sottotono- riporta in auge il sound della band europea, calcando la mano su ogni aspetto e sfaccettatura sonora finora mostrata dal five piece.

Prendiamo gli aspetti migliori di Shrine, i sali-scendi di Fracture ed arricchiamo il tutto con verve, voglia di strafare e un pizzico di sperimentazione. Una poli-ricetta che non guasta con alcuni gusti sorprendenti ed alcune sfumature innovative. In un sottogenere imprevedibile e vastissimo come quello del metal-core, i Bleed From Within sanno benissimo come tenersi stretti i fan più esigenti senza rinunciare all’evoluzione sonora. Da questo punto di vista impossibile non apprezzare Zenith per quello che è: un album di metal infuso nel più buon mix di aromi estremi e non. Ci sono le mazzate veloci che sconquassano e graffiano (Violent Nature), le divagazioni sperimentali bagnate nel prog (Dying Sun), il metal-core agrodolce (A Hope in Hell), così come i rimandi al thrash e al death (God Complex e Chained to Hate rispettivamente). In un album che cerca appositamente di non scrollarsi di dosso tutto il bagaglio di influenze passate, la band si diletta nel comporre e suonare brani tutto sommato lineari, costantemente arricchiti da contrappunti strumentali ineccepibili, tra interessanti ma sporadici lead, melodie cristalline, tastiere e synth e cornamuse.

L’inizio dello zenit inizia con la sferragliante rabbia di Violent Nature, brano potentissimo e iracondo che richiama Era e si presenta come un bel concentrato di aggressione intelligente. Un inizio che suona come un attacco frontale, in netto contrasto con quanto fatto su Shrine. I riff taglienti di Craig Gowans si sposano con i tocchi più groovy di Steven Jones, bilanciando attitudini complementari ma differente che pescano rispettivamente dal passato remoto e dal metal moderno. In un contesto così potenzialmente ricco di sfumature ci pensa il primo singolo In Place of Your Halo a ristabilire lo strapotere della band, capace di scrivere piccole hit dall’appeal commerciale senza voltare le spalle alla potenza metallica. In un richiamo tutto scozzese e tradizionale, In Place of Your Halo si trasforma in una perla groove dal piglio spietato, ma sforna un refrain sporco cantabile e, udite-udite, un bel comparto di cornamusa che vanno ad abbellire il pezzo chiudendolo nel migliore dei modi. Un tocco azzeccato che ci fa pensare a Grave Digger e KoRn, in un mini tributo nazionale che calza a pennello. L’asticella della bontà heavy viene ulteriormente alzata dalla spettacolare title-track e dalla clamorosa God Complex, che suona esattamente magnetica e brutale. In entrambe le composizioni vengono fuori le doti tecniche di Craig Gowans , Steven Jones e il sempreverde Ali Richardson , batterista eccelso che riesce sempre a farsi notare anche con i lavori dei Sylosis. I due brani, quasi a incastro, rappresentano l’epicentro dei “nuovi” Bleed From Within, fieri di portare in campo una versione 2.0 del passato recente. Heavy a iosa che non si lascia intimidire da nulla, il poker d’assi calato nella prima parte di Zenith è da capogiro, così come lo sono le chitarre vorticose di God Complex, che sfociano in una parentesi solista fenomenale. La bolgia viene leggermente stemperata dalla piacevole emotività di A Hope in Hell , con i suoi contrappunti melodici a cura di Steven Jones e il suo piglio (parzialmente) radiofonico, immediatamente brutalizzato dalla stramberia prog/djent di Dying Sun, aperta da una bella e “distante” chitarra solista e da un coro marziale insolito quanto azzeccato. Chitarre possenti a 8 corde irrompono la marcia con cattiveria squadrata per quello che è forse il brano più atipico del lotto, con la struttura dilatata e le melodie sghembe e oblique. Anche la successiva (e non meno interessante) Immortal Desire porta con sé vento di novità, grazie anche all’apporto vocale di mister Brann Dailor che porta un po’ di saggezza targata Mastodon in un brano snello ed elegante che lambisce territori epici durante il grandioso ritornello.

Anche se non sempre i riff funzionano a dovere (e alcuni momenti sono un po’ troppo auto-citazionistici), Zenith funziona molto bene e lo dimostra anche nel corso della fatidica seconda parte del viaggio, che storicamente stronca molti album potenzialmente virtuosi e interessanti. Dopo le parentesi naif di Dying Sun, tocca al death/thrash di Chained to Hate riportare la violenza nell’arena, grazie a uno spietato arsenale di riff, batteria e il magnetico Scott Kennedy, che riesce a dare sempre interessanti sfumature ai suoi growl, scream e harsh. La potenza deflagrante della traccia numero 8 si detona ancora di più grazie all’apporto ultra-tecnico di Wes Hauch , chitarrista degli Alluvial (ex - The Faceless) , e collaboratore d’eccezione di Devin Townsend e Marty Friedman, tra i vari. Il suo talento disumano -che spazia dal prog al tech death- impreziosisce il brano con assoli fulminei e un tocco abrasivo che ci piace parecchio. E verso il Gran Finale compare anche il grandissimo Josh Middleton che, durante la gradevole Hands of Sin, ricompatta due-quarti dei Sylosis insieme al compare Ali Richardson , creando un brano non dissimile da A Sign Of Things To Come.

E mentre la horrorifica Known by No Name esalta per la sua atmosfera quasi black e il ritornello power/barocco, la chiusura è affidata all’atmosferica Edge of Infinity , impreziosita dai soli di Rabea Massaad. Brano leggermente più lungo e disteso, si apre in modo ineccepibile con acustiche e lead melliflui. Una bella cornice cinematografica accompagna gli ultimi 5 minuti di Zenith richiamando alcune atmosfere di Levitate, prima di una prova delicata di Steven Jones, che si distingue anche dietro al microfono convincendoci appieno. Il nocciolo groove ritorna e ribalta il concetto di verso/ritornello, donando ulteriore profondità a Edge of Infinity, chiusura perfetta di un album che suona quasi sempre convincente e a fuoco.
I Bleed From Within si riconfermano superando quanto fatto tre anni fa in studio e, complice la costante attività dal vivo, confezionano un bellissimo LP dai tocchi inusuali che gioca in casa quanto fuori, sperimentando il giusto e colpendoci in faccia con il consueto (qui evoluto) muro sonoro.

Pure Scottish Metal.



VOTO RECENSORE
79
VOTO LETTORI
70.27 su 11 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2025
Nuclear Blast
Metal Core
Tracklist
1. Violent Nature
2. In Place of Your Halo
3. Zenith
4. God Complex
5. A Hope in Hell
6. Dying Sun
7. Immortal Desire
8. Chained to Hate
9. Known by No Name
10. Hands of Sin
11. Edge of Inifinity
Line Up
Scott Kennedy (Voce)
Craig ‘Goonzi’ Gowans (Chitarra)
Steven Jones (Chitarra, Voce)
Davie Provan (Basso)
Ali Richardson (Batteria)

Musicisti Ospiti:
Brann Dailor (Voce Traccia 7)
Josh Middleton (Voce Traccia 10)
Wes Hauch (Chitarra Traccia 8)
Rabea Massaad (Chitarra Traccia 11)
 
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