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Pantheist - O Solitude
03/12/2022
( 1023 letture )
Formati nel 2000 ad Antwerp, in Belgio, dal tastierista greco Kostas Panagiotou, i Pantheist sono tra i più apprezzati rappresentanti della “terza ondata” funeral doom, il sottogenere più estremo del doom metal. Terza ondata poiché l’attività del gruppo ha avuto inizio per l’appunto nel nuovo millennio, dopo i prodromi anni ’80 e soprattutto l’esplosione del genere in certi ambienti nordici europei negli anni ’90. Insieme a nomi oggi meno celebri come Tyranny e Comatose Vigil, Panagiotou è riuscito ad emergere con una proposta sin da subito parecchio peculiare, che ha nella musica ambient e nella tradizione colta radici profondissime. È proprio grazie all’amore per il pianoforte che nasce la prima embrionale forma della band, rappresentata inizialmente dal solo Panagiotou: tra il 2000 e il 2001 il musicista greco registra una prima demo con la quale si cimenta proprio con composizioni ambient, ma alla fine sceglie di non pubblicarla e ancora oggi questo fantomatico disco non ha visto la luce; trascorre poco meno di un anno e al progetto si aggrega il chitarrista Nicola Tambuyser, con il quale invece esce finalmente il primo EP 1000 Years, infine nel 2002 la formazione si completa con Frédéric Caure al basso ed Oscar Strik alla batteria. La musica della band cambia decisamente connotati e si sposta su un doom metal dai fortissimi accenti funeral, dove la componente pianistica viene messa in primo piano insieme ad intermezzi acustici e parentesi ambient. La solennità della proposta sfiora spesso atmosfere liturgiche e sacrali, ma è palese sin da subito che vi è una certa distanza dallo stile dei colossi Skepticism: la formula doom dei belgi è composta, quadrata e sfrutta l’eleganza della musica classica per cesellare partiture di chitarra distorta e una batteria che non di rado si concede momenti più tirati, lontani dal classico approccio funeral.

Tutto quello che è stato appena descritto viene messo a punto a dovere nel primo album del quartetto, intitolato drammaticamente O Solitude. Solo cinque brani di durata elevata per un’ora scarsa di ascolto, che presenta una band ancora da sgrezzare, ma già ben consapevole dei propri mezzi, esaltati –forse non sempre a dovere– da una produzione onesta, anche se invecchiata un po’ ad oggi. Il disco viene registrato nel gennaio 2003 in soli nove giorni, all’interno dei CCR Studios di Zulte, e viene rilasciato dall’etichetta finlandese Firebox Records poco tempo dopo, senza suscitare un grandissimo clamore; ci vorranno ancora un paio d’anni prima che la nicchia funeral doom si accorga dei Pantheist, ma le premesse sono già invitanti: la titletrack infatti introduce l’album in medias res con un amalgama tra chitarre e tastiere che ricorda a tratti la colonna sonora di un film dark fantasy, con l’unica differenza che qui la faccenda è estremamente seria. Kostas Panagiotou può vantare un growl profondo e convincente, che viene dosato bene nel corso del brano e dell’intero disco alternandosi con sezioni corali in clean e voci sussurrate che fanno capolino ogni tanto ad opera del compagno Nicolas Tambuyser. È indubbio che per i primi tre minuti circa non si assista a chissà quale sorpresa, ma è la brusca frenata pianistica che richiama immediatamente l’attenzione, immergendo l’ascoltatore in una fredda cella monastica confortato solamente da un coro dimesso e dai tratti quasi inumani. Si assiste alla prima incursione in territori ambient con le tastiere che rimangono da sole a fornire il proprio supporto ai flebili sussurri di Tambuyser e poi verso il sesto minuto si ripiomba nel funeral doom vero e proprio con il pianoforte ad arricchire le trame tracciate dalla chitarra. Un ultimo colpo di coda arriva sul finale, dove gli accordi stoppati di Tambuyser fanno accelerare il brano fino alla conclusione. Un ottimo biglietto da visita, che lascia poi campo al primo manifesto dell’album: Don’t Mourn. Ancora suoni ambient e tastiere in gran spolvero, esaltate da una sezione ritmica che cala progressivamente i battiti sino a diventare estenuante; i cori guardano ancora ad un mondo simil-gregoriano finché non subentrano gli strumenti acustici suonati dall’ospite Lefteris, che fanno cambiare volto al brano propendendo per una strada etnica a cavallo tra tradizione greca e musica rinascimentale. Il momento dura solo un attimo, purtroppo, ma intorno al settimo minuto ecco un’altra improvvisa accelerazione di stampo heavy parecchio ritmata, dove la chitarra può lasciarsi andare ad un riff dal sapore black metal presto doppiato dal growl di Panagiotou; è l’ultima concessione a suoni pesanti prima di una lunga coda atmosferica estremamente suggestiva. Non si può dire che i brani di O Solitude si assomiglino perché sebbene tutti condividano un approccio compositivo che sfrutta spesso soluzioni identiche fra loro, vi è sempre qualche elemento che differenzia i pezzi nel corso della scaletta, rendendo l’intero disco fruibile e vario. Time ad esempio è forse l’episodio meno brillante dell’album, eppure la partenza con l’organo che cita Celestial Voices dei Pink Floyd inserendo l’armonia del brano originale all’interno di una costruzione romantica, non può non colpire e addirittura emozionare. A questa sezione paradisiaca e tragica si alternano aperture che stavolta sono davvero definibili heavy metal tout court, con caratteristiche epiche che si sfogano infine nel bell’assolo in tapping sul finale. Si torna su coordinate già note con Envy Us che, arrivati a questo punto della scaletta, non fornisce nulla di più all’opera se non un intermezzo pianistico che omaggia sia Chopin che Beethoven ed effettivamente risulta di buon gusto. Un dettaglio non da poco è invece rappresentato dalla presenza dietro il microfono di Stijn Van Cauter, una piccola leggenda dell’underground estremo, che fornisce una prova animalesca capace di donare un po’ di varietà ad un brano che altrimenti sarebbe risultato poco più che un riempitivo. E sarebbe stato un peccato arrivare con un episodio poco convincente all’ultima, lunghissima, suite Curse the Morning Light, la quale in diciotto minuti abbondanti riassume tutto l’album spingendo ancora di più sull’elemento solenne e liturgico. I cori qui sono ancora più potenti e le aperture melodiche virano sul classicismo esplicito, ricordando ora Bach ora –in maniera più barocca– addirittura Monteverdi; la produzione qui svolge ottimamente il proprio dovere, fornendo una dinamica più varia riuscendo a mantenere comunque l’appeal monolitico mostrato nei brani precedenti. Si fanno apprezzare anche in questo caso le sporadiche accelerazioni heavy di stampo epico, ma è l’organo che si prende il ruolo da protagonista soprattutto nella seconda metà della composizione, con un crescendo da brividi che si fa puro rituale catartico prima di tornare a dar spazio ad una batteria minimale che intona una marcetta militare sulla quale Tambuyser recita l’ultimo spoken word dell’album. Anche in questo caso non sarebbe sbagliato ravvisare qualche similitudine con il black metal primigenio, ma il pezzo sfuma prima di poter sviluppare anche questa influenza.

O Solitude non è un album semplice da ascoltare e per certi versi può essere persino difficile entrare in sintonia con questo disco, sebbene rimanga ascrivibile al funeral doom metal e ne presenti numerosi clichés. Eppure la sontuosità monastica di certi passaggi vocali e l’estrema compostezza del songwriting rendono il disco più vicino ad un’opera classica piuttosto che ad una raccolta di brani metal. Certo, parliamo più che altro di sensazioni ed atmosfera, perché sulla carta questo è un lavoro metal senza alcun dubbio, ma i Pantheist mettono in campo un approccio peculiare, che verrà rifinito ancora meglio negli anni con alcuni traguardi ottimi –Journey Through Lands Unknown (2008)– e qualche leggera caduta –Pantheist (2011)– per portare avanti una carriera che prosegue tuttora con buonissimi risultati, come testimoniato dall’ultimo album Closer to God dell’anno scorso. Negli anni si è poi rivalutato il peso di O Solitude, che per moltissimi fan non solo del gruppo ma del genere di riferimento stesso è diventato una piccola pietra miliare, con buona ragione d’esserlo. Giusto quindi valutare questo primo passo di Kostas Panagiotou sia alla luce dei giorni odierni sia in quanto prodotto vecchio ormai di vent’anni, che ha ancora la capacità di creare un alone di mistero e suggestione intorno a sé e intorno a chi lo ascolta. Da riscoprire per farvi accompagnare nel freddo dell’inverno.



VOTO RECENSORE
82
VOTO LETTORI
82.83 su 6 voti [ VOTA]
Spirit Of The Forest
Giovedì 24 Ottobre 2024, 21.40.37
3
Assolutamente affascinante,con un pianoforte perfettamente funzionale,alternato a vari spunti tra il sacrale e il profano. Oscuro,dolente,ricco di sfumature,tra ambient,rimandi catacombali e onirici.
LUCIO 77
Giovedì 15 Dicembre 2022, 14.03.47
2
Album che ho apprezzato fin dal primo ascolto, ma che dal Mio punto di vista, con la presenza di maggiori melodie provenienti dalla Musica Greca, avrebbe avuto una marcia in più.. Comunque bello!
Kroky78
Sabato 10 Dicembre 2022, 13.31.12
1
A mio avviso il loro mogliore. Solenne e molto pesante allo stesso tempo. Voto giusto
INFORMAZIONI
2003
Firebox Records
Funeral Doom
Tracklist
1. O Solitude
2. Don’t Mourn
3. Time
4. Envy Us
5. Curse the Morning Light
Line Up
Kostas Panagiotou (Voce, Tastiera)
Nicolas Tambuyser (Voce, Chitarra)
Frédéric Caure (Basso)
Oscar Strik (Batteria)

Musicisti Ospiti:
Stijn Van Cauter (Voce su traccia 4)
Hans (Contrabbasso su traccia 1)
Lefteris (Chitarra, Oud, Baglama su traccia 2)
 
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