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Pantheist - Pantheist
( 3634 letture )
Ok, c’è qualcosa che non “torna”. O che semplicemente non “torna” al sottoscritto.

Sono un grandissimo fan dei Pantheist. Conosco la loro discografia a menadito e ho un buon rapporto con tutte le sperimentazioni di cui si sono fatti carico. Ma sono anche un extreme doomster e da poco, con la pubblicazione di Barock, mi ero concesso il sogno di un rientro robusto e pesante nella vena dei fantasmagorici esordi, quando l’allora formazione godeva ancora dei servigi (per lo più chitarristici ed in sede live) di Stijn Van Cauter. Barock ha solo pochi mesi di vita ed inizialmente si credeva fosse l’apripista di questo omonimo, quarto full-lenght, onde poi scoprirne l’inaspettata esclusione: essa è dunque reperibile solo mettendo mano alla compilation Unveiling The Signs, operazione che la presenta assieme ad altri side-project di Kostas Panagiotou – mente e fulcro della band. Ce l’avete presente? Stupenda, ha un sapore amaro, una mise solenne, nuance torbide. È insomma uno di quei pezzi che rimangono impressi nella mente di pubblico e addetti ai lavori, così come lo furono Envy Us, Apologeia e The Loss Of Innocence, tanto per citare qualche esempio celebre.

Ma come vi dicevo qualcosa non mi “torna”. O forse semplicemente non mi “torna” completamente.

Basterebbe ascoltare il primo brano diffuso sul myspace ufficiale, Broken Statue, per capire che i Pantheist vogliono ora affrontare la materia in modo diverso – diciamolo – molto più “commerciale” e rockeggiante di quanto desiderassi. Già, ma io il promozionale ce l’ho da tempo e questa prima, cercata ostentazione non l’ho vissuta. Anzi, nell’economia di Pantheist, l’overture – affidata a One Of This Funerals – sembra voler confermare le aspettative post Barock, dispiegando un benvenuto tipicamente pant(h)eistico: soffio dell’organo, doppia cassa e basso a scandire le ottave parti di un intervallo bradicardio, chitarra costretta nel solito gain grezzo ed opprimente, linea melodica affidata alle keys ed alla solista, nessuna traccia di cantato. Una stesura, insomma, piuttosto integerrima che si interrompe improvvisamente sulle note dolci ed immateriali della citata Broken Statue. E d’improvviso mi salta agli occhi la strambata di cui vi ho appena fatto cenno.
In effetti gli inglesi (d’adozione) ci hanno abituati ad interpretazioni abbastanza libere in fatto di doom estremo: l’estrazione incontrovertibilmente funeral di O Solitude è stata infatti stravolta con il passare degli album, prima dalle angosciose contaminazioni death-style di Amartia, poi dall’intricata tessitura classic/stoner di Journey Through Lands Unknown, che peraltro contiene moltissime “licenze” progressive. Ma se è vero che di evoluzione (sui generis) si vuole continuare a parlare, cerchiamo almeno di capire come questa incide sull’apprezzamento finale.

Dicevamo di Broken Statue: pianoforte e chitarra acustica stendono un tappeto triste e sconsolante su cui si adagia la voce flemmatica e pulita di Kostas. Così, d’impatto, la traccia è melodicissima, rilassata ed accessibile, quasi fosse un lentone incluso in un disco metal ottantiano o la classica traccia di cassetta alla Anathema ultimo periodo. Gli indizi che mi convincerebbero a prepararmi ad un bagno di gothic/rock (diciamo melodic doom, per non essere troppo definitivi) ci sarebbero tutti, non fosse che un piccolo rafforzamento vocale e chitarristico posto a metà minutaggio paia suonare come la timida ammissione di colpa per un episodio decontestualizzato e con una vita totalmente propria. Il gradimento migliora con gli ascolti, senza comunque toccare i picchi raggiunti dai singoli/capolavori che vi ho elencato poco fa.
Con The Storm, altra maratona di oltre 11 minuti, continua però la mia perplessità. L’inizio del pezzo, guidato da un approccio quasi “unplugged”, è decisamente paragonabile al precedente. La traccia gode però di un’intensificazione marcata, soprattutto con l’ingresso (il primo, dopo oltre 15 minuti di play) del growling. Ora si ascoltano i Pantheist che conosco, con il loro modus operandi che scomoda contemporaneamente i tasti e le corde, per la conduzione orizzontale, nonché il cantato distorto – in abbinamento a quello pulito – per la fase vocale. Venti di doom sabbathiano, intarsi funerei, inserti di rock psichedelico e progressivo anni ’70 si fondono perseguendo con discreto successo la summa di brani vincenti alla Dum Spiro Despero. La chiusura orientaleggiante, affidata agli arabeschi dell’esordiente Pepijn Van Houwelingen, ben si sposa con lo stacchetto prog-style dell’altra new entry Aleksej Obradovic (che sostituisce nella line-up l’immenso Mark Bodossian al 4 corde). Si inizia a ragionare e a gustare una trama esclusiva e nobile.

Comincia dunque a “tornare” qualcosa?

Tornerebbe, avrei voglia di dire, se all’interno della tracklist non fosse stata inserita la successiva e sorniona Be Here. Prima di scatenare un putiferio incentrato sul gradimento di quello che certamente è l’episodio più commerciale (in senso negativo) di tutta la carriera dei nostri beniamini, mi preme specificare che – presa singolarmente e ripulita dalle aspettative del pubblico nativo – l’aria principale sarebbe anche passabile, non fosse per l’atteggiamento esageratamente diluito ed edulcorato di chitarra e voce (l’una lucidata con effetti sgargianti ed inutili feedback, l’altra troppo ingentilita nella timbrica) e per alcuni inutili arrangiamenti orchestrali che la mercificano escludendo così la possibilità di un giudizio positivo. A peggiorare il dissenso, la presenza di un songwriting convenzionale che, comprendendo una prevedibile successione strofe-bridge-chorus, si distanzia dalla normale conduzione “semi-libera” di Kostas. L’impressione è quella di una ricerca di consensi che altrimenti non avrebbe ragione di essere pretesa; l’effetto è quello di aver creato una specie di Nothing Else Matters underground, sbrodolata, fine a sé stessa, troppo melensa e moscia: mi fosse chiesto di farlo, ne consiglierei l’ascolto solo ad un pubblico esclusivamente gothic-addicted e per di più dal palato grossolano.
Rimangono tre titoli, solo tre, per cercare un rimedio al mio smarrimento. Per fortuna (e merito dei Pantheist) 4:59 e Brighter Days sono da pollice alto. Entrambe suonano come avrei desiderato facesse ogni singola track, ossia in modo solenne, morboso ed accorato. Buonissimo il cantato di 4:59, seppur ancora manipolato dall’ingegneria in modo da apparire delicato anziché grave – come meglio converrebbe a prodotti del genere –. Lo stesso è però pregno di una soave drammaticità che assume contorni simili a quelli disegnati dalle performance di mr Frode Frosmo negli ultimi prodotti targati Funeral (la similitudine sta anche nella registrazione di una seconda linea armonizzante che ne “sublima” la restituzione). Lo spessore verticale della sezione strumentale è molto ingombrante a causa dei sinth e dei feedback elettronici applicati alle 6 corde, tuttavia – aiutata dalla breve durata – la traccia prende i connotati di un interludio, mostrandosi incorporea e spirituale. Brighter Days parte invece con un concentrato indiscutibilmente funeral, partorito tenendo conto degli spunti stilistici dei maestri Skepticism, che già fecero leva sulle fatiche passate. L’ensemble iniziale, imponente in virtù dell’utilizzo dell’organo ecclesiastico, incede con esemplare lentezza accompagnato dal riffing stanco e dilatato del nuovo axeman; con il passare dei secondi Brighter Days modifica la propria essenza sotto la spinta di un drumming più articolato e veloce (si fa per dire), dirigendosi in quel limbo paradisiaco di classic/psichedelic/prog doom che ha caratterizzato Journey Through Lands Unknown, prima di ripetersi nei territori dell’avvio. Peccato per la lettura irreprensibile e costrittiva del vocalism (comunque più concreto rispetto a quanto presentato in 4:59), ancora una volta spoglio di un growling che, opportunamente alternato al pulito, ne avrebbe esaltato l’intelaiatura fondamentalmente extreme.
Chiude l’opera la tediosa Live Through Me, brano di cui fatico a trovare un senso compiuto e che non apprezzo in nessun senso: l’estrazione stilistica è quella di Broken Statue, ma l’effetto decisamente peggiore.

In questa specie di track by track libero, ho già toccato, commentandoli, alcuni argomenti stilistici. Sintetizzo i concetti cardine, giusto per non lasciare nulla al caso e per permettere a chiunque di avvicinarsi nella massima consapevolezza al CD.
Lati positivi: i Pantheist conservano molti dei propri stilemi, concentrando diverse visioni di doom capaci di soddisfare sia palati ortodossi, sia menti aperte alla sperimentazione. Il clean è migliorato tecnicamente. Il drumming, piuttosto vario, ed include parecchi mid-tempos che movimentano la release. La preparazione dei musicisti ed il confezionamento generale è ineccepibile. One Of This Funerals, The Storm, 4:59 e Brighter Days giustificano da sole il prezzo di copertina.
Lati negativi: l’ispirazione è sfruttata in modo non cinico. Alcuni brani (Be Here e Live Through Me su tutti) sono estremamente commerciali e, per di più, poco interessanti. Il growling è usato di rado. La produzione è adeguata solo alle tracce più aperte, suonando troppo scarica nei momenti ad “alto-voltaggio”.

Concludo. Un titolo, questo Pantheist, che non mi non mi appaga come vorrei e che mi costringe a marchiare uno dei miei gruppi preferiti con un voto tendenzialmente interlocutorio, peraltro maturato – in extremis – grazie a qualche stralcio disseminato nella tracklist (One Of This Funerals, parte di The Storm) ed alle due tracce post Be Here (esclusa, sia ben inteso, l’insopportabile e noiosa Live Through Me). Il 70 che “stampo” a fondo pagina è dunque il frutto di episodi sporadici generati nell’ambito di un progetto a mio avviso parzialmente sfuocato e/o volutamente indecifrabile a livello stilistico (ma comunque sempre più lontano dallo spirito originario): ovvio che nella valutazione complessiva confluisce pure il contributo (positivo) per la realizzazione del prodotto e la quota parte (anch’essa positiva) relativa alla rappresentatività del trademark Pantheist all’interno della scena.
Detto ciò, Pantheist, è un’opera che – confrontata alla precedente – mostra alcune ombre che devono far riflettere Kostas sull’opportunità di chiudersi in un mood esageratamente ragionato, spropositatamente incline alla penetrazione di mercato ed altresì poco attento nei confronti dell’effettivo valore artistico. Non vorrei mai profetizzare una simile evenienza, tuttavia questa è la strada (pragmatica) che intraprendono molti musicisti di valore, consapevoli dei propri mezzi, e costretti – per sopravvivere in un mondo che premia il perbenismo sonoro – a mut(u)are le proprie priorità. Così non fosse, dovrei pensare che il Pan si sia bevuto parte della sua proverbiale ispirazione…
Avendo appreso che certa gente può (e deve) fare di meglio, potete comunque procurarvi l’album chiudendovi nei suoi momenti migliori.

Vi "torna"?



VOTO RECENSORE
70
VOTO LETTORI
35.68 su 19 voti [ VOTA]
enry
Venerdì 3 Febbraio 2012, 12.11.11
7
Il disco è bello ma l'ho trovato meno intenso e spontaneo rispetto ai precedenti, si viaggia sempre su buonissimi livelli comunque...un quasi 80 per dirla in numeri.
piggod
Venerdì 3 Febbraio 2012, 9.31.50
6
Lo dico? Lo dico. Macchissenefrega degli album vecchi, questo è una bomba. I Pantheist con questo album sviluppano un'identità unica, e se prima erano un gruppo importante nella scena funeral doom, adesso sono un'entità a parte in tutta la scena doom e non solo. Ascoltatelo, divoratelo e godetevelo.
Doom
Martedì 24 Maggio 2011, 16.20.44
5
sono due giorni che lo sto consumando una roba davvero pazzesca
Doom
Lunedì 23 Maggio 2011, 15.30.25
4
evocativi! da ascoltare in una cattedrale con l'impianto a manetta
remy
Martedì 19 Aprile 2011, 17.19.41
3
Sempre difficili.... Ma sempre unici.
Er Trucido
Venerdì 15 Aprile 2011, 15.38.05
2
Concordo con giasse e come ho già avuto modo di dire mi dà l'impressione che abbiano voluto calcare la mano sulla malinconia piuttosto che sulla disperazione. Avrei preferito un po' più di growl e meno passaggi a vuoto, spero che sia solo un disco di transizione. Comunque gli ultimi 5 minuti di The Storm sono strumentalmente eccelsi.
Ubik
Venerdì 15 Aprile 2011, 15.33.29
1
Concordo in pieno con la rece questo disco mi ha un pò deluso Non è malvagio ma le mie aspettative erano mooolto alte dopo il bellissimo Journey Through Lands Unknown. Mi aspettavo un O solitude part 2
INFORMAZIONI
2011
Grau Records
Doom
Tracklist
1. One Of These Funerals
2. Broken Statue
3. The Storm
4. Be Here
5. 4:59
6. Brighter Days
7. Live Through Me
Line Up
Kostas Panagiotou - vocals, keyboards
Aleksej Obradovic - bass
Pepijn Van Houwelingen - guitars
Sterghios Moschos - drums
 
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