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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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Pantheist - Journey Through Lands Unknown
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( 6413 letture )
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La recensione che leggerete a valle del mio (non breve) scritto introduttivo è meravigliosamente adatta a descrivere l’ennesimo lavoro “griffato” che il 2008 ci consegna sottoforma di doom metal: Furio non si limita ad elogiare la grandezza di un full-lenght che tutti aspettavamo da anni e ne evidenzia anche gli spigoli, i punti di debolezza, le difficoltà interpretative. Per quanto mi riguarda il blasonato rientro dei Pantheist, seppur contaminato di psichedelia, classicismi, richiami d’oltreoceano e molto altro ancora, si consegna alla scena come prodotto che picchia forte nella testa. Non mi sostituirò in questa sede al recensore e dunque non vi proporrò una rigorosa analisi tecnica, tuttavia vorrei puntare il dito sull’aspetto veramente innovativo di questa release: Journey Through Land Unknown non si limita a proporre una visione, comunque molto personale, di doom estremo; esso gioca la carta dell’indotto psicologico, dell’arricchimento culturale ottenuto attraverso un coinvolgimento sensitivo che ha dell’incredibile, per come è stato concepito e per come è stato realizzato. L’album è particolarissimo e dismette in molti brani gli stilemi che avevano già reso grandi i Pantheist attraverso le precedenti release: Kostas Panagiotou ha sempre amato stupire con improvvise accelerazioni che spezzavano le lunghe e complesse sciabolate melodiche fornite dalle propria dita, ma mai si era dimostrato tanto rapido e deciso nel variare, battuta per battuta, le programmazioni della propria Korg; tutto ciò, abbinato alla stupefacente corposità del cantato duale (meritevolmente privo di chorus femminili) ed all’immensa classe ritmica dimostrata da Mark Bodossian (basso) e Sterghios Moschos (batteria), costituisce una delle massime espressioni d’arte che la specializzata Firedoom abbia mai prodotto. Certe sonorità -addiritttura folkeggianti-, talune tibriche delle keyboards -fin seventies- mi hanno addirittura spiazzato, alimentando ancora una volta la certezza di trovarmi di fronte ad un mastermind (il “Pan”) che dimostra di voler giocare con la musica per farlo con il proprio pubblico e con le relative insicurezze d’animo. In realtà avevo da subito scansato l’ascolto di Journey Through Lands Unknown dato che temevo, come con Alloy degli Skepticism, che sottoponendomi ad una nuova cura depressiva avrei peggiorato certi aspetti già lugubri della mia emotività; ho pertanto scelto di dirottare la recensione verso l’espertissimo collega Gabriele Fagnani, con il quale condivido il perverso piacere delle imposizioni sacro-funebri e che fibrillava alla sola idea di confrontarsi con una CD di tale caratura. Ma come frequentemente accade la pianificazione è stata disattesa e mi sono dovuto arrendere al gramo destino che mi vuole ora, inaspettatamente, chiamato in causa. Vi spiego. Pochi giorni fa una persona, sconvolta da un comportamento apparentemente insensibile, ha chiesto se nei 34 anni trascorsi il sottoscritto avesse mai pianto. Ho riflettuto profondamente sul significato del gesto e poi ho risposto più sicuro che mai:
Si piange solo nel momento in cui si percepisce di avere perso la speranza, quando si comprende di avere valicato il punto di non ritorno. Lo si fa spesso senza cognizione di causa, credendo erroneamente di avere intrapreso un processo irreversibile; ma ciò che appare non sempre è: talvolta le lacrime sgorgano troppo rapidamente, di fatto senza motivo, senza capire che nella situazione c’è ancora sufficiente margine per medicare la mestizia. Margine che, persi nell’autocommiserazione, ci lasciamo sfuggire; che svanisce proprio quando, con maggiore lucidità, avremmo ancora tra le mani l’opportunità di risollevarci. Il vero problema siamo noi e le nostre viosionarie percezioni. A pensarci bene la stessa cosa succede pure quando si piange per contentezza: lo si fa quando si è convinti di avere definitivamente imboccato una nuova, ricca, promettente strada. E magari lo si fa a torto, senza tutte le certezze del caso. Comunque si, ho pianto. L’ho fatto proprio ieri. Le lacrime non sono scese per davvero sul mio viso, ma il cuore si è spezzato! Frantumato in tante parti quanti sono stati i colpi inferti. Perché? Perché ho la consapevolezza della fine! O così credo sia! Ma ciò non fa alcuna differenza: sarà fine comunque! Il mio destino è quello di sopravvivere al sopore del tempo che avanza, di conservare i sentimenti, di difendere le passioni. Ho pianto per questo. Perché so di essere l’unico essere al mondo a vivere in questo modo. Può bastare?
Poi, infastidito, ho voltato le spalle, infilato le cuffie e preso a camminare. Il lettore era casualmente programmato su Journey Through Lands Unknown che come vi dicevo non rientrava nelle mie mire; me lo sono bevuto nell’attimo sfuggente di un grigio vagabondare metropolitano, nonostante la reale ed impattante durata di oltre un ora. I pezzi si sono succeduti rapidi uno dietro l’altro; dalle note psicotiche di Deliverance, allo stoner acido di Dum Spiro Despero, fino alla totale implosione depressiva di The Loss Of Innocence, sul cui testo vi invito a soffermarvi e riflettere. Una cascata di sensazioni sono capitombolate tra corpo e mente nel bel mezzo di questo infame tragitto. Ho ricordato mille ed una volta il momento in cui il giorno prima mi si sono sgretolate tanto le certezze quanto le speranze: i pensieri scorrevano imperterriti, proprio come gli intagli orientaleggianti della seconda Unknown Land, mentre lo scetticismo mi conquistava, sotto il peso del lento leitmotiv di Oblivion. E così sono giunto a questo elaborato; manifesto che dovevo lasciare per tessere le lodi di questo nuovo capolavoro a cui non credo possiate proprio rimanere indifferenti, gente di doom. Ho scovato una nuova strada: è ricca e promettente. Ed allora ho pianto nuovamente! Di gioia! Journey Through Lands Unknown dovrà essere vostro! Questo è il mio incipit! A spiegarvi il perché sarà Furio, a cui ora passo la parola… buona lettura e buon ascolto a tutti.
Massimiliano Giaresti “Giasse”
Pantheist - Journey Through Lands Unknown
Dopo qualche mese di trepidante attesa mi giunge finalmente tra le mani il nuovo disco dei Pantheist; con la stessa impazienza di un bambino che scarta un regalo appena ricevuto, lo inserisco nell’impianto stereo per sentire cosa ci riserva la band belga in questo 2008 ed il mio primissimo pensiero è andato a questo mio “mestieraccio”: questa recensione la finirò tra una vita! L’impressione principale che si ha ascoltando il nuovo Journey Through Lands Unknown è che la band abbia deciso di dare un colpo di coda, di fare il grande salto fuori dall’underground e di prendersi prepotentemente un posto tra quelli che contano. Le carte lo consentono ampiamente e la band non ci pensa troppo a giocarsi tutte le fish a disposizione, sfoderando i diversi assi nella manica che sembrano garantire una vittoria quasi certa. Il lavoro è ambizioso e articolato, ricercatissimo negli arrangiamenti ma soprattutto fuori da qualsiasi schema o etichetta musicale, ferma restando la matrice doom; i nostri hanno infatti saputo rileggere i capisaldi del genere attraverso uno stile personalissimo che attinge dalle più disparate fonti, ma che non si lega a nessun nome in particolare. L’evoluzione stilistica dal già ottimo predecessore Amartia è notevole, ma pure dal limitrofo The Pains Of Sleep, che altro non era se non la ristampa del CD di debutto più una cover e 2 brani inediti, i Pantheist avevano lasciato intuire che il futuro sarebbe stato segnato da qualcosa di grandioso, che difatti col nuovo album è puntualmente arrivato: nello specifico è riduttivo considerare Journey Through Lands Unknown opera di un gradino superiore… diciamo quantomeno un pianerottolo, se non una rampa intera più in alto! La seconda reazione istintiva all’ascolto delle prime note del disco è stata quella di controllare se nella line up ci fossero stati stravolgimenti ed a quanto pare nessun cambiamento c’è stato.
Bando alle ciance, mi calo nel track by track che andrebbe ancora a sua volta diviso in parti, frangenti e attimi ognuno dei quali potrebbe costituire un mondo a se, tanto i brani hanno carattere cangiante ed imprevedibile; per semplicità non mi dilungherò comunque oltre il dovuto, dato che le mie parole potrebbero anche annoiare o sviare chi si accinga all’ascolto di questo disco. Il disco si apre con Deliverance che è l’opening track ideale per un simile disco, perfetto biglietto da visita della band, assolutamente camaleontica nel suo progredire, evolversi e cambiare pelle in continuazione, andando a mescolare una miriade di ambiziose citazioni che si attorcigliano in un personalissimo suono, parecchio lontano dagli esordi, ma altrettanto interessante e coinvolgente. Immaginate una possessione demoniaca nella quale sia una intera guarnigione a conquistare un unico corpo, dove possiamo riconoscere lo spettro degli ultimi Ulver impadronirsi del singer, narrando sulle note d’apertura, per poi lasciare spazio allo spirito degli Anathema, che ci accompagna su diverse parti del brano e soprattutto nella conclusione dello stesso, dove si mostra senza remore. Di apparizioni celebri ce ne sono parecchie: qualcuno racconta di avere visto intere legioni di spiriti seventies italiani possedere a turno il tastierista e c’è addirittura chi giura di aver intravisto una sagoma che somigliava allo spettro nientemeno che di Dave Gilmour che carezzava le corde del buon Llian. Unknown Land si apre con irrequiete note di pianoforte sulle quali si erge un narrato in lingua madre, presto tramutato in una nenia orientaleggiante; improvvisamente il brano stacca thrash, alla Hellhammer, Destruction oppure Carpathian Forest, ed alla ritmica si sovrappone un assolo di synth di chiaro stile progressive che, sembrerà strano, calza davvero bene. Dum Spiro Despero è dominata una volta ancora dalle succitate kyboards che donano al brano un’atmosfera molto retrò, mentre il riffing delle chitarre ricorda vagamente intuizioni vicine a quelle dei seminali Cathedral; sfortunatamente la canzone è macchiata da parti di cantato in latino che lasciano intendere un “difetto” negli studi classici… Finalmente, mentre mi sto a scervellare sulla parentela di un giro di basso, la mia attenzione viene attirata dal primo evidente intermezzo doom: ebbene sì, purtroppo ci si trova a parlare di stacchi, intermezzi, ma di vere e proprie song in stile ne è rimasta forse solo una; i Pantheist hanno deciso di polverizzare ogni sorta di etichetta, di confine stilistico, per coniare uno stilema quanto più personale e indefinibile, ma ancora leggermente disarticolato. Haven è una bella song acustica ed interamente strumentale, sincera ed affascinante in tutta la sua semplicità che introduce alla quinta Oblivion, traccia che da sola vale l’acquisto dell’intero CD. Infatti questa è l’unica porzione del disco che riporta alla luce le radici funeral degli esordi, con una chitarra schiacciasassi coperta da uno strepitoso tappeto di tastiere che le conferiscono un appeal malinconico ed allo stesso tempo etereo. Splendido anche l’assolo di chitarra che completa un brano di gran classe, sul quale ricompare il cantato in growling (che fin d’ora aveva trovato poco spazio), altresì sostituito da parti pulite molto varie e versatili ma non sempre all’altezza della situazione. Io, amante dell’ortodossia, resto affezionato a certi suoni, ragione per cui reputo quest’ultima canzone l’episodio più riuscito del disco. The Loss Of Innocence è il brano più solenne del disco; un coro “morriconiano” sovrasta le tastiere fin tanto che le chitarre non monopolizzano la scena, regalandoci 11 minuti di doom pesante, corposo e caratterizzato da un cantato in distorto che nel finale lascia spazio ad un crescendo di clean vocals a dir poco notevoli. Eternal Sorrow è il brano più “metallaro” del disco con 12 minuti di doom melodico molto ispirato, ottimi assoli di chitarra e clean vocals molto ben riuscite, che per certi versi riportano alla mente i già citati Anathema. Il disco si conclude con Mourning The Passing Of Certainty, outro difficile da giudicare: si apre con vocalizzi a metà strada tra un canto vichingo ed uno gregoriano; questi si tramutano in un corale popolare simil-mahori e nel finale si ritorna sonorità gregoriane (ma da osteria). Complesso.
Giudicare un simile lavoro è compito arduo, in quanto la mole di idee è davvero notevole e la volontà di creare qualcosa di personale spinge forse i Pantheist a fare passi qualche volte affrettati, soprattutto per quanto riguarda la prestazione vocale del buon Kostas. Musicalmente qualche passaggio è dispersivo e penso che la convivenza di troppe idee all’interno dello stesso brano possa in qualche modo distrarre l’ascoltatore facendogli perdere il filo conduttore tra i brani. Per arrivare ad un giudizio attendibile il disco ha bisogno di ripetuti ascolti, ma una volta assimilato lo ritengo molto bello, maturo e ben registrato, grazie anche alla produzione del mastodontico Greg Chandler (Esoteric), capace di unire pulizia e potenza come pochi altri nel genere. Ultima nota positiva va alla grafica del disco, molto raffinata ed elegante che si sposa perfettamente con la musica proposta, sintetizzando compiutamente eleganza, mistero ed oscurità.
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8
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Un disco della madonna, c'è poco da dire...difficile scrivere una recensione che riesca a mettere in risalto tutti i punti vincenti di un simile capolavoro dove pezzi di doom puro si fondono alle ineguagliabili tastiere deeppurpleiane del monumentale John Lord, unite a cavalcate in stile thrash, per poi ricadere tutto nell'ombra profonda di riff lenti e molto funeral. E' il classico disco del quale non si può dire nulla, va solo ascoltato: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere." [cit. Ludwig Wittgenstein] - scherzi a parte, complimenti al recensore che è riuscito a rendere bene l'idea, e non era facile Penso che sia uno degli album, non dico doom metal, ma semplicemente metal, più belli che io abbia mai sentito. Meglio dell'ottimo Alloy degli Skepticism, se la gioca secondo me con The Maniacal Vale degli Esoteric (che è mostruoso!!!) |
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7
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A mio parere è un album superlativo proprio perchè può potenzialmente piacere ad un pubblico vasto. Ovvio che si rivolge a chi intende calarsi in una sfera emotiva molto sofferta tuttavia elegante e "colta". Oramai lo posso dire: raggiunge i livelli di O' Solitude pur essendo meno cupo ed ortodosso. Da brividi davvero... |
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6
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Da personalità poco avvezza al Doom mi sono avvicinato a questo disco temendo di esserne respinto.. invece mi ha avvinghiato... album superlativo, sono rimasto estasiato dalle composizioni, in particolar modo le tastiere... sublimi davvero! |
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5
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Giù il cappello, recensione fantastica, non vedo l'ora di ascoltarlo. È proprio vero,tante volte sono le nostre esperienze a fare da cornice alla nostra musica preferita, e non il contrario. È questo che distingue chi "sente" la musica da chi semplicemente la ascolta. |
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4
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Grazie mille ragazzi... ma è facile scrivere con certe ispirazioni... e non trattasi solo di musica, di letteratura, di arte in generale. Trattasi anche di vita quotidiana, esperienze da cui assorbire il meglio per godersi certi capolavori! |
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3
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Non ho parole, una race semplicemente straordinaria per un album altrettanto straordinario. 90. |
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2
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Boia ragazzi, che super-recensione! Congratulazioni ad entrambi, ora devo assolutamente ascoltare il disco. |
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1
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APPLAUSI!!!! (e parlodello scritto, perchè il disco devo ancora ascoltarlo). |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1.Deliverance 2.Unknown Land 3.Dum Spiro Despero 4.Haven 5.Oblivion 6.The Loss Of Innocence 7.Eternal Sorrow 8.Mourning The Passing Of Certainty
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Line Up
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Kostas - vocals, keyboards Sterghios - drums Ilia - guitars, vocals Mark - bass, vocals
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