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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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26/06/2023
( 1563 letture )
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Da un personaggio come Michael Gira non si sa mai cosa aspettarsi: per un periodo se ne va in tour solamente munito di chitarra acustica e voce in location suggestive come chiese e monasteri e nel giro di qualche mese lo si rivede con la sua band al gran completo nei teatri. Nel frattempo si inizia a vociferare di un nuovo album che viene presentato in forma embrionale con il disco acustico Is There Really a Mind? già nei primi mesi del 2022, in maniera molto simile a quanto fatto con il precedente Leaving Meaning, che a sua volta era stato introdotto da un altro disco acustico: What is This?. Entrambi i “lavori introduttivi” sono serviti per finanziare le campagne di fundraising necessarie per le registrazioni degli album definitivi ed evidentemente l’ingranaggio deve aver funzionato molto bene dal momento che entrambe le iniziative hanno fatto registrare risultati economici notevoli. Vero è che la fanbase degli Swans non è composta da ascoltatori occasionali o sprovveduti, ma per la maggior parte da appassionati consapevoli che conoscono bene la personalità del leader Michael Gira e non aspettano altro che l’occasione per ascoltare nuova musica partorita dalla sua mente.
The Beggar è il titolo del nuovo, monumentale, album dei cigni di New York che arriva a distanza di quattro anni dal già citato Leaving Meaning, il disco che aveva lasciato intravedere una svolta significativa nel sound del gruppo dopo la triade-monstre formata dall’insuperato The Seer (2012), da To Be Kind (2014) e da The Glowing Man (2016). Le esplosioni elettriche vicine al post metal e al noise/industrial sembrano ora definitivamente superate e se già il disco del 2019 si concentrava su sonorità acustiche e prediligeva una più consona forma canzone, The Beggar riprende lo stesso discorso andando ad estremizzare ancor di più la dicotomia tra pulsioni acustiche e cantautoriali e quella malcelata schizofrenia compositiva che è insita nel patrimonio genetico di Gira. Un primo dato significativo è rappresentato dalla durata complessiva dell’opera, che supera le due ore e si va a piazzare al secondo posto nella classifica degli album più lunghi della band, secondo solo a Soundtracks for the Blind (1996); e di conseguenza non ha mancato di far parlare di sé, molto prima della pubblicazione, un brano che da solo potrebbe rappresentare un “disco nel disco”, quella The Beggar Lover (Three) di cui parleremo più avanti. Chi ha partecipato al tour solista dell’anno scorso e chi ha ricevuto – grazie alle donazioni per la compagna di fundraising – il demo acustico arrivava più o meno preparato all’ascolto di The Beggar, anche se un conto è ascoltare dei brani in una veste spoglia e minimale, un altro è ascoltarli poi con un ensemble di sette musicisti che contribuiscono agli arrangiamenti, talvolta stravolgendo totalmente la versione iniziale dei relativi pezzi. Dal punto di vista dei collaboratori coinvolti nelle registrazioni ritroviamo alcuni nomi che ormai sono una certezza tra le fila degli Swans: Kristof Hahn e Larry Mullins sono insieme a Michael Gira da tempo immemore e la loro presenza è indiscutibile; Phil Puleo è un altro membro ben consolidato nel gruppo, mentre le aggiunte più recenti sono quelle di Christopher Pravdica e soprattutto Dana Schechter, in formazione dal 2020. Tra gli ospiti illustri invece spicca senza dubbio il nome di Ben Frost, asso della musica elettronica e sperimentale che se già su Leaving Meaning aveva fatto sentire il suo tocco, qui riesce ad imprimere un’impronta personale ancora più incisiva. Le premesse per aspettarsi l’ennesimo album destabilizzante e magnetico dei cigni ci sono tutte dunque e in buonissima parte possiamo dire che esse non vengono disattese, ma ci sono delle caratteristiche che chi ha conosciuto e amato la band nei primi anni di attività o anche solo grazie alla trilogia menzionata poco fa potrebbe non digerire del tutto. Gli Swans del 2023 infatti sono una realtà capitanata da un musicista alla soglia dei settanta anni che non ha smesso di combattere con i propri demoni interiori, ma ha deciso di esorcizzarli non più con il rumore bensì con il minimalismo della sua chitarra acustica, che infatti resta la protagonista assoluta della maggior parte del disco: le canzoni di The Beggar prendono vita da pochi accordi di chitarra e si muovono per minutaggi prolungati sfruttando la ripetizione esasperata di temi melodici essenziali e la perentorietà della voce di Gira, che è il fulcro fondamentale intorno cui la musica viene costruita. L’esempio perfetto di questo approccio compositivo lo si trova già in apertura: The Parasite è il brano che meno si discosta dalla versione demo acustica e non è altro che un singolo accordo di Re minore protratto per quasi nove minuti dapprima suonato solo dalla chitarra e poi doppiato da un tappeto di tastiere sul quale si appoggia la stentorea litania di Gira. Il testo è incentrato sul parassita che divora e consuma la vita di chi lo sta nominando, conducendolo inevitabilmente ad un inesorabile finale. È un avvio che sicuramente non predispone ad un ascolto facile ed è anche difficile definirlo coinvolgente, ma d’altronde stiamo pur sempre parlando di una band che non ha mai voluto rendere l’esistenza facile ai suoi ascoltatori. La formula di questo brano è sfruttata in altre occasioni, con l’utilizzo di droni che accompagnano gli strumenti acustici e creano una patina soffusa dalla quale emerge con chiarezza sempre e solo la voce. Si alza il ritmo in corrispondenza del singolo Los Angeles: City of Death, che nei suoi tre minuti e mezzo offre una sorta di folk-blues sghembo e inquietante dove si parla di una minaccia che incombe ma non arriva mai. Probabilmente le liriche dell’intero album sono incentrate sull’attesa della morte o quanto meno sull’idea stessa del suo arrivo imminente. Una costante positiva è rappresentata dai climax ascendenti che caratterizzano molti dei brani migliori in scaletta: anche questa soluzione non è nuova e nel disco precedente compariva, ma in questo caso sembra essere sfruttata molto di più. Episodi come Michael is Done, che da filastrocca macabra si trasforma in ascesi mistica al suono di cori angelici e campanelle, o le ancora migliori No More of This ed Ebbing sono esemplificative in questo senso: la voce viene lasciata quasi completamente da sola per la maggior parte del minutaggio per poi essere sovrastata da un esercito di cori e arrangiamenti orchestrali che però mantengono un aspetto sempre e costantemente essenziale, non raggiungono mai quel massimalismo che ci si potrebbe aspettare dalla band che ha scritto brani come Avatar. Si mantiene chiara la volontà di offrire un’opera che sia prevalentemente acustica, anche nei suoi momenti più concitati. E se questo, da una parte, si traduce in composizioni assolutamente raffinate ed elegiache, dall’altra ha come effetto collaterale quello di non concedere troppa eterogeneità, aspetto che in un disco di oltre due ore non è da sottovalutare. Un momento interlocutorio come quello rappresentato da Unforming – che in pratica consiste in sei minuti di sola voce recitante, con un tappeto quasi impercettibile di tastiere – rischia di apparire più come un filler ridondante che come un brano effettivamente utile alla riuscita dell’album; preso da solo il pezzo è molto buono e ha dalla sua un testo davvero sentito, ma inserito in scaletta perde molta della sua forza.
Inutile tergiversare ancora a questo punto: l’elefante nella stanza ha un nome e questo è The Beggar Lover (Three): parliamo di una composizione della durata di quasi quarantaquattro minuti che è posta verso la fine dell’album e nella versione in CD è inserita su un secondo disco insieme al brano che conclude il lavoro, mentre non è inserita nella versione in vinile, per il quale è presente un codice per poterla scaricare in formato digitale. Il brano è il più lungo mai composto dagli Swans e non si esagererebbe nel dire che l’intero album merita l’ascolto solo per arrivare a questo momento. Non tanto per la durata enorme – sarebbe facile liquidare la questione in questo modo – ma proprio per la composizione in sé, che ci presenta una band in stato di grazia capace di attraversare in tre quarti d’ora praticamente tutte le fasi della propria carriera, dall’industrial/noise degli anni ’80 fino alla musica concreta, passando per l’aleatorietà più estrema e servendo sul finale un’inaspettata coda jazz. Il brano si prende tutto il tempo per evolversi e mutare forma, aprendosi inizialmente con sonorità ambient/drone che crescono fino ad implodere in un silenzio interrotto da alcune rade percussioni e timidi fiati per una stasi che pare essere infinita; intorno al diciottesimo minuto per la prima volta si può ascoltare qualcosa di vagamente riconducibile al rock, con una chitarra elettrica scheletrica a produrre un riff di due note affogato da battiti metallici. Ancora una volta si cambia improvvisamente atmosfera pe lasciare spazio a cori femminili eterei dal sapore ecclesiastico, che una volta esauritisi vengono sostituiti da un cluster elettronico sul quale fa capolino la voce di Michael Gira, presto raggiunta da spaventosi vagiti e da una tempesta di percussioni che riportano il brano su coordinate ambient simili a quelle iniziali. Il tempo di un’altra interruzione, stavolta puramente noise, e poi gli ultimi dieci minuti si dilatano in un fumoso soft jazz da salotto, con batteria e pochi tocchi di tastiera in primo piano. Più ci si avvicina al finale più l’atmosfera diventa rarefatta, con le tastiere che salgono di intensità a mo’ di carillon. Il finale sfuma poi lasciando l’ascoltatore in apnea. Si potrebbero citare molti album del passato dei cigni per inquadrare questa composizione, ma la verità è che questo è ciò che ci si aspetta da una band che ha fatto dell’intransigenza e dell’abbattimento di ogni limite la propria bandiera e The Beggar pare essere composto interamente in virtù di questo momento. Esagerata come affermazione, senza dubbio, ma è palese che il resto della scaletta si muova su coordinate sostanzialmente diverse da quelle di The Beggar Lover (Three) e un motivo dovrà pur esserci. Ultima menzione per il testo, che è di fatto una conversazione tra il cantante e sua figlia Jennifer Gira, qui ai cori, incentrata sulla morte del padre e sul suo dissolversi, con l’insistito riferimento a quel parassita che striscia lungo tutti i brani del disco. È quasi un peccato, arrivati a questo punto, inserire un altro brano di quasi nove minuti in chiusura: The Memorious è l’ennesimo buon pezzo giocato sulla ripetizione estenuante dello stesso giro armonico che però, posto in questo momento della scaletta, ne esce fortemente penalizzato. E dire che magari se fosse stato inserito a metà dell’album avrebbe goduto di maggior vigore, anche se è da sottolineare come la sua struttura assomigli a quella di Paradise is Mine, il primo singolo estratto dal disco, che nel complesso gli è anche superiore.
Come concludere questa disamina dunque? Ogni album dei cigni newyorkesi necessita di tempo e di numerosi ascolti per essere metabolizzato e compreso al meglio e questo è da mettere sempre in preventivo, ancora di più se si effettua il confronto tra il più immediato e “facile” Leaving Meaning e il più sfidante The Beggar. Questo nuovo disco non offre davvero novità o innovazioni ed è anche vero che Michael Gira non ha bisogno di rivoluzionare nulla, dal momento che la sua parte l’ha già fatta nella storia della musica; d’altra parte gli undici brani qui presenti mostrano un volto della band che ha come pietra di paragone forse solo il discusso The Burning World (1989), ma che trova più facile riscontro nei progetti paralleli di Gira, gli Angels of Light su tutti. Sicuramente nel 2023 gli Swans sono al 90% l’espressione artistica del solo Michael Gira e questo è piuttosto palese; ciò si traduce in una musica che parte necessariamente dall’essere il prodotto di un solo compositore che scrive e suona con e per se stesso e solo in un secondo momento viene arricchita dal lavoro degli altri musicisti. Nel disco precedente l’amalgama tra l’anima solista e quella della band si amalgamava meglio, qui invece è volutamente estremizzata in un senso e in quell’altro: basta prendere The Parasite o ancora di più Unforming e paragonarle a The Beggar Lover (Three) per rendersi conto della differenza tra solista e band in fase compositiva. Non che questo sia necessariamente un male, ma nel complesso The Beggar non va a superare Leaving Meaning e si pone un gradino sotto in quanto a qualità e fruizione, rimanendo inferiore anche alla trilogia precedente. Sia chiaro che si parla sempre di un’opera che si avvicina all’eccellenza, come quasi tutta la produzione del gruppo, con relativi alti e bassi, ma semplicemente non sorprende e non affascina tanto quanto gli album che l’hanno preceduta. Ripetiamo, a costo di diventare pedanti, che la vera perla del disco è The Beggar Lover (Three) e questo basta per recuperare l’album. Se siete già fan degli Swans sicuramente saprete apprezzare queste due ore di musica senza compromessi, se invece è la prima volta che vi approcciate a questa band il consiglio è quello di non partire da The Beggar, ma di rivolgervi ad altri lavori della produzione post-2010, per arrivare poi a questo disco con un bagaglio di ascolti più fornito. Aspettando il gruppo nelle prossime date italiane questo autunno concludiamo certificando l’ottima qualità di questo nuovo mastodonte sonoro che sicuramente verrà incluso nelle classifiche personali del 2023 di molti ascoltatori appassionati di sonorità estreme. Per tutti gli altri si spera di aver smosso perlomeno il vostro interesse.
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2
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arrivato il vinile, qui si va sul sicuro. Da consumare
Voto 80 |
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1
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Un po’ in disaccordo con la recensione: per me molto superiore al precedente album, è vero che è molto Gira centrico, ma anche gli altri lo erano, diciamo che da sempre è così, solo che adesso è forse un tantino più evidente.
Rimasi deluso anche io inizialmente, ma poi proseguendo con gli ascolti il suo magnetismo sta oscurando tutto il resto. Per me siamo a livelli di eccellenza pazzeschi. Un album sentito e psicologicamente potente, che sa tanto di commiato. Spero di sbagliarmi. 90 pieno |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. The Parasite 2. Paradise is Mine 3. Los Angeles: City of Death 4. Michael is Done 5. Unforming 6. The Beggar 7. No More of This 8. Ebbing 9. Why Can't I Have What I Want Any Time That I Want? 10. The Beggar Lover (Three) 11. The Memorious
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Line Up
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Michael Gira (Voce, Chitarra) Kristof Hahn (Voce, Chitarra, Lap Steel Guitar) Dana Schechter (Voce, Basso, Lap Steel Guitar, Tastiere, Pianoforte) Christopher Pravdica (Voce, Basso, Tastiere, Effetti) Phil Puleo (Voce, Batteria, Percussioni, Pianoforte, Strumenti a fiato) Larry Mullins (Voce, Batteria, Percussioni orchestrali, Mellotron, Vibrafono, Tastiere)
Musicisti Ospiti: Jennifer Gira (Cori) Lucy Kruger (Cori) Laura Carbone (Cori) Ben Frost (Chitarra, Synth, Effetti)
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RECENSIONI |
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