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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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21/07/2023
( 2911 letture )
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È il 1995, un anno musicalmente ricco e succulento. I botti di Capodanno coincidono con la pubblicazione di To Bring You My Love di P. J. Harvey; il 7 marzo viene dato alle stampe Above, unico sublime parto dei Mad Season, progetto nato dalle nebbie di un centro di disintossicazione in cui si incontrarono Mike McCready (chitarrista dei Pearl Jam) ed tale John Baker Sounders; un paio di settimane più tardi, Chuck Schuldiner e i suoi Death ci regalano quella meraviglia che è Symbolic; in aprile esce uno dei lavori più importanti ed influenti di Aphex Twin, … I Care Because You Do, disco fondamentale per la futura trasformazione della musica elettronica e per la deformazione del rock e del metal. Ancora, a giugno è il turno di Björk e del suo album forse più riuscito e celebre, Post; nel mese di settembre esce il disco più complesso del fu Duca Bianco, 1. Outside. Insomma, di musica di grandissimo spessore ne uscì parecchia nel 1995. In mezzo a questo oceano di artisti già affermati, storici o in procinto di esplodere nuotava anche un gruppo che, pur con un solo disco alle spalle, già era un nome di primaria importanza nel panorama rock. E che, a causa di ciò, soffriva e si tormentava all’idea di essere un “one trick pony”. Quando, due anni prima, Creep fece il boom, il nome di Thom Yorke e del suo quintetto di sfigati oxoniensi, i Radiohead, si sparse sulla bocca di ogni speaker radiofonico e di ogni ascoltatore. Era quasi impossibile parlare di musica senza parlare di “quelli di Creep”. Sulla scia di quel successo inaspettato -in fondo, Pablo Honey era semplicemente l’ennesimo disco britpop a trazione chitarristica all’interno di un panorama saturo e privo di reale originalità- e per prendere le distanze da quella versione di loro stessi, la band di Oxford decise di intraprendere un percorso di maturazione ed evoluzione di cui il qui presente The Bends rappresenta solo un primo passo. Un primo passo timido, col senno di poi e alla luce della discografia futura, ma enorme rispetto al discreto-ma-nulla-più album di debutto. La lieve spinta che avrebbe scatenato un effetto domino tale da rendere i Nostri una delle più importanti ed imprevedibili band dell’era moderna è rappresentata dall’inizio della collaborazione con Nigel Goodrich, produttore senza il quale, quasi certamente, i Radiohead non sarebbero mai diventati i Radiohead. Il lavoro in cabina di regia svolto da Goodrich è ben udibile sin dai primissimi secondi di Planet Telex: sinistri impulsi, come passi minacciosi che echeggiano in una stanza ampia quanto l’universo stesso, ci introducono ad un rock orecchiabile, trainato dalle chitarre distorte e deformate di Yorke e del mai sufficientemente celebrato Jonny Greenwood. La pulizia del suono di questi primi istanti colloca The Bends già in un’altra galassia rispetto al disco precedente, la cui piacioneria talvolta si scornava con la ruvidezza sonora. E se Pablo Honey venne descritto come eccessivamente deprimente, con Planet Telex i Nostri accelerano sul sentiero dello spaesamento esistenziale e del pessimismo cosmico. Leggiamone solo il ritornello e gustiamone il sapore amaro e pungente: Everything is Broken Everyone is Broken Già da questo primo brano è possibile intuire non solo la direzione che avrebbe preso la Weltanschauung della band ma anche il modus scribendi di Thom Yorke: i suoi testi, in più di un’occasione, si sarebbero sviluppati attraverso ripetizioni ossessive, con solo leggere deviazioni, in un processo di appiattimento della parola che ricalca in modo fedele la crisi esistenziale che la musica dei Radiohead avrebbe descritto e, in alcuni casi, persino profetizzato (pensiamo alla sconnessione delle lyrics di Everything in Its Right Place e di Idioteque, contenute in Kid A). Se già la traccia incipitaria offre materiale sufficiente ad abbandonarsi ad un ricco pianto, con la title track il pianto diventa disperato. The Bends è un concentrato di sensazioni negative mediate attraverso un rock energico ed un cantato forte ed intenso. Ascoltandola senza badare alle parole, la canzone potrebbe parere spensierata e carica dell’impeto cazzuto proprio dell’età giovane. Ma poi, testi alla mano, questa impressione viene disintegrata. E l’impeto cazzuto proprio dell’età giovane viene violentemente sostituito dal terrore e dall’incertezza propria della depressione, quella forza spaventosa che paralizza e costringe all’immobilismo e alla passività di fronte alla vita. My baby’s got the bends, oh no We don’t have any real friends, no no no I’m just lying in a bar with my drip feed on Talking with my girlfriend waiting for something to happen And I wish it was the Sixties I wish I could be happy I wish, I wish, I wish that something would happen Con High and Dry si torna un poco a Pablo Honey. Il brano sembra, da un punto di vista sonoro, un incrocio tra Thinking About You e Stop Whispering. Il suono complesso e stratificato dei due pezzi precedenti viene abbandonato per lasciare il posto ad un piacevole brano prevalentemente acustico, incalzante e liricamente cupo. Si tratta comunque di una canzone che guarda Pablo Honey dall’alto al basso, forte di una maturità forse non ancora raggiunta ma sicuramente più vicina (bisognerà attendere almeno altri due anni prima di raggiungerla). Il pop di questo brano è sognante e caldo, sostenuto dal tranquillo drumming di Phil Selway: la sua cassa gonfia e soffice che attraversa le strofe addolcisce un sound già dolce di suo. Questa rotondità viene ulteriormente evidenziata dall’ottimo lavoro di Colin Greenwood (fratello maggiore di Jonny) al basso, preciso e nell’ombra ma sempre ben presente. Nella sua semplicità High and Dry funziona alla grande. Con Fake Plastic Trees si arriva all’apice del disco. Il pezzo -per il sottoscritto uno dei più belli dell’intera discografia dei Radiohead- è mellifluo e deprimente. La canzone è fortemente ispirata allo stile di Jeff Buckley. La quadratura del cerchio venne trovata proprio dopo aver assistito ad un suo concerto: la band non era soddisfatta di come il brano stava venendo, l’uso della sua voce non convinceva Thom Yorke. Ma il falsetto angelico e la forza erculea delle corde vocali di Buckley indicarono la via al leader dei Nostri. In Fake Plastic Trees si ritrova quel «piacere per il crescendo musicale ed emotivo» evidenziato dal nostro Lizard nella sua recensione di Grace. Yorke di certo non replica quei virtuosismi canori che si possono trovare, ad esempio, nella title track del suddetto disco o in Lover, You Should’ve Come Over. La sua voce, dalle sembianze gracili, probabilmente non avrebbe retto l’esplosione di un “wait in the fire” però assimila quello stile, lo fa proprio e lo adatta alle proprie corde vocali. Non solo il cantato, non solo la sezione musicale -soave e di un’eleganza che poi diverrà marchio di fabbrica dei momenti più pacati dei Nostri- rendono il pezzo una piccola opera d’arte. Il testo è probabilmente quello meglio scritto di tutto The Bends: denso di simbolismi, esso è vago ma estremamente concreto allo stesso tempo. Il suo stile fortemente figurativo crea immagini desolanti di un’umanità smarrita e di un amore artificiale. Leggiamo ad esempio: She lives with a broken man A cracked polystyrene man Who just crumbles and burns He used to do surgery For girls in the eighties But gravity always wins E ancora: She looks like the real thing She tastes like the real thing My fake plastic love Signore e signori, leggendo le lyrics di Fake Plastic Trees c’è da piangere. La successiva Bones offre forse meno spunti di discussione e di riflessione. Pur trattandosi di un buon brano, coinvolgente e dal forte impatto, soffre un po’ la somiglianza con mille altri usciti dall’Inghilterra di quegli anni. (Nice Dream), ai più nota per esser stata colonna sonora del bellissimo episodio 20, stagione 3 di How I Met Your Mother, è un momento di quiete all’interno di un disco che, fino a questo punto, ha mostrato una certa energia e forza. Il pezzo ondeggia placido tra atmosfere sognanti, create attraverso il sapiente intreccio della chitarra acustica e di una elettrica rotonda e soffice, lo stuolo di archi che avvolge il tutto come una coperta di raso. Si giunge così al singolo che ha preceduto l’uscita del disco, Just. È la canzone più aggressiva della scaletta e, ai primi ascolti, riesce a spiazzare: si sente un po’ di Nirvana nell’intro à la Smells Like Teen Spirit, come si sentono le distorsioni acide di Black Hole Sun dei Soundgarden (declinate in atmosfere differenti, meno tetre e opprimenti). Il pezzo è l’incarnazione di diverse anime del rock degli anni Novanta. Questa energia viene convogliata in un testo che, in un certo senso, è il negativo di quel fantasma chiamato Creep. Nel celebre brano di Pablo Honey tutto girava attorno ad un’autocommiserazione e ad una demolizione di sé stessi (“I’m a creep, I’m a weirdo, what the hell am I doing here?”), qui questi sentimenti sono rivolti non più verso l’interno ma verso l’esterno: One day I’ll get to you And teach you how to get to purest hell You do it to yourself, you do That’s what really hurts You do it to yourself, just you You and no one else Ma la vera risposta a Creep e a tutto ciò che essa ha comportato per la band è la successiva My Iron Lung. Il pezzo, all’uscita di The Bends, non era nuovo al pubblico: nel settembre del 1994 uscì un ep omonimo, nato dalla nausea provata da Thom Yorke in seguito a quel maledetto boom di popolarità. Creep è un polmone d’acciaio, uno strumento utile alla sopravvivenza ma che impedisce di muoversi. C’è un senso di riconoscenza, che però viene sommerso dal sentimento di frustrazione legato allo status a cui la band si è ritrovata ridotta: We’re too young to fall asleep Too cynical to speak We are losing it Cant’you tell The scratch Our eternal itch A twentieth century bitch And we are greatful for Our iron lung La musica riesce a ritrarre alla perfezione questa dicotomia gratitudine-incazzatura. Momenti più pacati, disseminati principalmente durante le strofe, si alternano a sfuriate dure durante le quali Jonny Greenwood sfoga tutta la sua rabbia (magnifiche le distorsioni caotiche a chiusura della canzone). Non da meno è Yorke, che nei momenti più intensi e viscerali sfoggia una voce graffiante, quasi al limite dello scream. Dopo due pezzi così aggressivi, giunge il momento del secondo momento di quiete. Bullet Proof… I Wish I Was è un brano tormentato, poetico racconto di una sofferenza mentale, ritratta attraverso tremende immagini fisiche. In questo pezzo si possono sentire in nuce alcune delle migliori e più cupe manifestazioni dei Radiohead futuri: qui sono piantati i semi dai quali sbocceranno sublimi fiori come How to Disappear Completely e No Surprises. L’atmosfera, in costante oscillazione tra sogno, incubo e realtà, è costruita egregiamente su suoni delicati e dai contorni sfumati: una chitarra acustica appena sfiorata, una voce poco più che sussurrata, effetti sonori che paiono provenire dalla più profonda delle profondità oceaniche, una batteria accarezzata. Con un fade in ecco sopraggiungere Black Star, un altro momento in cui i Nostri sembrano tornare a Pablo Honey. La vicinanza con il disco di debutto è molto evidente tanto da un punto di vista sonoro -si ritorna al guitar pop ammiccante e melenso- quanto da quello lirico. Per quanto ben suonata e comunque piacente, è tra i brani meno interessanti del lotto. Fortunatamente però a questo leggero inciampo fa seguito Sulk e subito le nebbie del passato vengono dissipate e la band si proietta nuovamente verso il futuro. Le vesti del guitar pop non vengono dismesse ma agghindate con orpelli sonori stranianti (l’intro è qualcosa di alieno, sino a questo momento, per i Radiohead. Ancora una volta, Yorke è sugli scudi, specialmente nel ritornello: il suo diaframma esplode in un refrain arioso, ricco di animo e sentimento. Si giunge così alla conclusione. Street Spirit (Fade Out) è il pezzo più cupo del disco. L’arpeggio di chitarra con cui si apre serpeggia sotto la pelle dell’ascoltatore, avviluppandone i nervi e risalendo fino al cervello. Giunto qui, fa tabula rasa di qualsiasi barlume luminoso. La perfetta conclusione per un disco ambiguo, energico e depresso al tempo stesso, nel quale ombre e luci sono una cosa sola. Cracked eggs, dead birds Scream as they fight for life I can feel death, can see its beady eyes All these things into position All these things we’ll one day swallow whole The Bends è un disco di passaggio, attraversato dai fantasmi di una band che voleva diventare qualcosa di diverso da ciò che la gente voleva. È un lavoro della disperazione. Un sentimento che Thom Yorke e i Radiohead conoscono bene. Motore di buonissima parte della loro discografia, essa ricopre un ruolo fondamentale anche in questo secondo capitolo della loro discografia. Un lavoro dove morte e ribellione vanno a braccetto; un lavoro molto spesso maltrattato dal pubblico, specialmente alla luce della produzione successiva. Questa lunghissima recensione -che forse è più un diario d’ascolto- vuole essere il primo passo di un lavoro di recupero, per l’archivio metallizediano, della discografia dei Radiohead. E magari, in seguito, di tutto ciò creato dal loro mastermind. Sarà una missione lunga e faticosa ma speriamo di farcela.
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15
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Me lo sono rispolverato...musica che tocca corde profonde.voto 92.
Ricordo una bella versione di Fake Plastic Trees fatta da Matos. |
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14
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be i Radiohead erano considerati a torto o ragione la band per depressi cronici. I Radiohead sono stati considerati deprimenti fin dall\'inizio, ecco perché Radio One si rifiutò di suonare Creep, nel 1993. |
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13
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Il commento numero 8 mi ha tolto le parole di bocca, questo rimane il lavoro dei Radiohead che prediligo. Fake Plastic Trees è una delle canzoni più belle degli anni 90 in assoluto imho, e la concorrenza è tanta. |
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12
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È un Bell album, però che tristezza... |
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11
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A loro modo geniali e innovativi, ma hanno sempre difettato in senso della melodia. Non vi impazzisco dietro |
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10
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disco meraviglioso, dei loro il mio preferito |
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9
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Street Spirit è uno dei miei pezzi preferiti in assoluto. Ricordo la prima volta che l\'ho sentito... mi sono quasi commosso nel crescendo finale. Album superbo! |
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8
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Mi unisco alle grida di giubilo, disco meraviglioso e in assoluto il mio preferito della band. Tanti i brani splendidi: High And Dry, Fake Plastic Trees, Nice Dream, Just, …My Iron Lung è un inno, l’intro mi fa venire i brividi ogni volta che parte. Caposaldo del rock dei nineties, voto 92. |
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7
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Fantastico il video di just. Disco bellissimo |
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6
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Disco fondamentale per l\'alternative rock degli anni 90 e oltre. Loro poi partirono per una evoluzione staccando tutti e consegnandosi alla Storia, mentre tanti altri continueranno ad abbeverarsi da queste sonorità ancora a lungo. Non un capolavoro in senso stretto, forse, ma comunque un discone. Per questo alzo un pochino il voto. |
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5
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Disco esagerato, uno di quei famosi album da portare sull\'isola deserta |
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4
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Che culo...  |
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3
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Gli vidi casualmente alla flog a Firenze a metà dei 90 forse il 94, quando ancora evidentemente non erano così famosi, poca gente mi pare, andai per il gruppo d\'apertura in cui suonava un amico. Però effettivamente attirarono la mia attenzione. |
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2
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Discone. Magari non il loro migliore, ma sul podio ci sta di certo. È l\'album che fa capire chi sono veramente. E tutte le volte che si scopre una nuova band rock di tale caratura è sempre una festa. 95/100 |
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1
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Per me il loro album migliore, superiore pure ad un capolavoro come Ok Computer. Perfetto dall\'inizio alla fine, non un pezzo fuori posto!
Fake Plastic Tree la mia canzone preferita dei RH, la versione live Glastombury 1997 magia pura! |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Planet Telex 2. The Bends 3. High and Dry 4. Fake Plastic Trees 5. Bones 6. (Nice Dream) 7. Just 8. My Iron Lung 9. Bullet Proof… I Wish I Was 10. Black Star 11. Sulk 12. Street Spirit (Fade Out)
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Line Up
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Thom Yorke (Voce, Chitarra, Pianoforte) Jonny Greenwood (Chitarra, Organo, Sintetizzatori, Pianoforte) Ed O’Brien (Chitarra) Colin Greenwood (Basso) Philip Selway (Batteria) Musicisti Ospiti: Caroline Lavelle (Violoncello) John Matthias (Viola, Violino)
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RECENSIONI |
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