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John, the Void - II
24/01/2017
( 1333 letture )
Tu sei l'unità Kirk. Tu devi assistermi. Sono stata programmata da V'Ger per osservare e registrare le normali funzioni delle unità di base carbonio che infestano la USS Enterprise

Così, in un dialogo con il capitano della leggendaria nave stellare perennemente a caccia di guai in un universo cinematograficamente esplorato a colpi di impulsi e curvature, la sonda Ilia riassumeva il senso dell’”ingestibilità” umana all’interno dei rigorosi e ordinati rapporti fisico-matematici che regolano ciò che è stato originato dal big bang primigenio. Capitani Kirk alla guida delle nostre personali navicelle, infatti, in un ipotetico studio commissionato da entità che alberghino in altre dimensioni, faremmo una più che discreta figura in termini di incoerenza e instabilità, rivelando una spiccata propensione a recitare parti in commedia in un teatro dell’assurdo decisamente unico, su scala planetaria. Ed eccoci allora invocare a gran voce valori come ordine, simmetria, armonia e tranquillità come unico rimedio alle difficoltà che insidiano le nostre esistenze, salvo poi accorgerci che le società fondate su simili pilastri finiscono per soffocare i nostri istinti e, in definitiva, la nostra stessa natura più autentica, imprigionandoci in una melassa gelatinosa che bisogna necessariamente infrangere, per recuperare le libertà perdute… e il gioco ricomincia, muovendosi a pendolo tra i due estremi.

Per descrivere gli incubi degli ostaggi di mondi nati come ideali e trasformatisi in negazione della loro finalità, la letteratura ha coniato da tempo il termine “distopia”, dando il via a una serie di lavori che vanno dai grandi classici orwelliani ai più recenti filoni della fantascienza, dove l’uomo si trova a fare i conti con la sua più grande creazione che finisce per insidiarne la superiorità, la macchina. Tralasciando il contributo ormai pressoché sterminato del cinema alla causa (con esiti artisticamente anche ragguardevoli, soprattutto quando il ciarpame degli effetti speciali fini a se stessi lascia il posto a narrazioni credibili), in ambito musicale non esistono forse generi più adatti del doom e del post metal, nei panni dei migliori candidati a un ruolo di colonna sonora delle distorsioni di una realtà dove le ferree leggi della logica hanno ridotto gli abitanti a docili animali ammaestrati. Tre nomi e tre titoli possono forse rendere al meglio l’idea delle vette finora raggiunte, partendo da Panopticon degli Isis (con la sua descrizione dell’annichilimento delle individualità nel sistema carcerario, secondo le elaborazioni benthamiane), passando per Vertikal dei Cult of Luna (in cui rivive lo spirito di Metropolis, immortale capolavoro di Fritz Lang a dispetto dei novant’anni di età) e atterrando sul campo di volo del doom con le angosce malinconiche del recente For This We Fought the Battle of Ages in casa SubRosa.

Facile, con simili premesse, immaginare un saccheggio della materia condotto già sufficientemente a fondo e altrettanto facile, tenuto conto dell’imponenza dei modelli, pronosticare combustioni di ali per qualsiasi epigono osi avventurarsi nello stesso cielo, ma qualche coraggioso non solo non desiste dall’impresa ma riesce addirittura ad avvicinare la prova dei Maestri. È il caso dei tricolori John, the Void, che debuttano sulle lunghe distanze di un full-length con questo II dando un consistente seguito alle ottime idee già squadernate nell’omonimo EP del 2014 e dimostrando di aver completato con gran costrutto un iter formativo tutt’altro che trascurabile. In realtà, la collocazione del sestetto di Pordenone in un quartiere preciso della post metal galassia è molto meno lineare di quanto possa suggerire un ascolto superficiale, dal momento che, se è pur innegabile la consistenza degli apporti Cult of Luna (a cominciare da un artwork che rinvia ben più che velatamente alla cover di Vertikal, lì con la distorsione visiva della materia e qui con la sua vaporizzazione), è altrettanto evidente che la declinazione degli ingredienti è giocata in parte su dosaggi differenti. La monoliticità delle strutture di casa a Umea, infatti, viene sottoposta a un processo di corrosione che ne sfuma irreparabilmente la monumentalità dei contorni, lasciando sul campo un’ininterrotta sequenza di sinistre cattedrali che sono contemporaneamente il simbolo della freddezza distopica e un monito perenne in vista di un “day after” liberatorio.
Lo strumento grazie a cui si realizza il (relativo) cambio di prospettiva è un equilibrato ricorso a iniezioni drone nel corpo dei brani, generando un eccellente effetto contrasto con le abrasioni e gli spigoli figli della solidificazione di elementi acidi in tracimazione da ogni anfratto, per un risultato che, se non stilisticamente in senso stretto, è senz’altro psichedelico in termini di risultato complessivo. Per il resto, gli amanti della canonicità post più ortodossa possono stare tranquilli, i John, the Void hanno tutte le carte in regola per non deludere, dalla dilatazione temporale delle tracce all’alternanza melodia/muscoli figlia dell’imperitura lezione Neurosis, dalla filiazione sludge ai passaggi core, il tutto avvolto in una nuvola atmosfericamente indefinita, riempita da particelle che alternano collisioni e momenti di quiete ma sempre a scapito di una localizzazione precisa.
Al centro della scena, una claustrofobia ora fisicamente soffocante, ora rassegnata, ora eroicamente protesa verso angoli di luce in cui la disperazione ha però largamente la meglio sulla speranza, sigillando inesorabilmente i confini dell’esperienza di una specie nata per solcare l’universo e ridotta a vagare smarrita nella poca acqua contenuta tra le pareti di un acquario che ha oltretutto costruito da sé. In un quadro “strutturale” così perfettamente delineato, volendo trovare un punto di relativa debolezza (peraltro pressoché fisiologicamente atteso, trattandosi di un’opera prima), qualche appunto si può muovere al versante del cantato, presidiatissimo nella resa della componente allucinatoria grazie a uno scream ispidamente lacerante, ma a cui avrebbe giovato qualche passaggio più “morbidamente lirico” ad accompagnare i momenti di calo della tensione.

Cinque tracce (quattro, in realtà, al netto di un filiforme brano drone di passaggio come Obscurae Terrae), altrettanti episodi dotati ciascuno di una personalità definita, a cominciare dall’opener John Void, che pesca a piene mani nella tradizione isisiana distillandone soprattutto l’attitudine alla circolarità del tema portante. Un fiume che accresce la sua portata ad ogni ansa guadagnando in imponenza, un senso di angoscia che non fluisce dal fragore di spaventi ma da una rassegnazione via via sempre più spettrale, un’essenzialità dei tocchi che farebbe invidia a molti veterani, i John, the Void sparano qui le migliori cartucce del platter, ma non finisce troppo lontano dal centro del bersaglio neanche la successiva Enter, tra le rarefazioni abissali dell’avvio, gli echi drone del corpo centrale e gli scatti conclusivi dove i miasmi sludge incontrano un’insospettata attitudine industrial. Dopo lo stacco di Obscurae Terrae, la seconda parte si apre con la relativa potabilità di Neon Forest, l’unico pezzo di questo II in cui per un attimo i Nostri sembrano accantonare le prospettive claustrofobiche, instillando gocce melodiche che, se pure non consentono di attraversare del tutto la coltre di esalazioni malsane, concedono alla luce fugaci apparizioni nella penombra. Più articolato il giudizio sulla conclusiva Season, che riprende i meccanismi dell’opener lasciando presagire la materializzazione di un’altra rappresentazione dagli spiccati tratti “teatrali”, ma che a metà corsa vira su inattesi lidi ipnoticamente lisergici; tutto stilisticamente ben congegnato, indubbiamente, forse però il carico di emozione accumulato all’inizio avrebbe meritato miglior sorte… o forse siamo noi che inconsapevolmente (e inopportunamente) stavamo cercando in tutto e per tutto gli Izah di Sistere, in terra friulana.

Fumosamente immerso in un’atmosfera livida ma capace di conservare intatti i colori e le sfumature, ad alta densità narrativa ma senza rinunciare a un raffinato gusto per i dettagli, dotato degli opportuni rapporti di grandezza tra l’enfasi delle strutture e i silenzi degli spazi vuoti che si aprono sotto le volte innalzate, II è un album che segnala al non troppo popolato microcosmo post tricolore una band in grande crescita. Se, parafrasando il proverbio, le carriere si vedono dal mattino, aspettiamoci per il futuro grandi notizie, dai John, the Void.



VOTO RECENSORE
79
VOTO LETTORI
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Erebos
Sabato 28 Gennaio 2017, 20.02.30
4
Disco molto interessante e ottima recensione.
Red Rainbow
Mercoledì 25 Gennaio 2017, 10.49.39
3
@ naoto : ovviamente liberissimo di dissentire dall'impianto del testo, ritengo però che, al netto della componente "emozionale" col suo corollario di soggettività (peraltro a mio modesto parere sempre imprescindibile, ma a maggior ragione trattandosi di post metal), qui ci siano molti elementi anche per un approccio recensorio in senso stretto, che consenta a chi si accosta all'ascolto di orientarsi. Ascendenze più o meno nobili, scostamenti dai modelli, note sui punti di forza e debolezza, ricognizione track by track credo abbastanza dettagliata senza eccedere in prolissità. Non ho la pretesa di puntare al Pulitzer, scrivendo recensioni, ma solo di offrire spunti per una discussione...
naoto
Mercoledì 25 Gennaio 2017, 10.16.05
2
Magari una recensione al posto di una serie di iperboli sarebbe stata più opportuna per descrivere un prodotto discografico.
AdeL
Martedì 24 Gennaio 2017, 22.03.34
1
Recensione molto interessante... 👍 Parte l'esplorazione. Grazie Red!
INFORMAZIONI
2016
Drown Within Records
Post Metal
Tracklist
1. John Void
2. Enter
3. Obscurae Terrae
4. Neon Forest
5. Season
Line Up
M (Voce, Tastiera)
M (Chitarra)
M (Chitarra)
L (Chitarra)
A (Basso)
A (Batteria)
 
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