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HELLFEST - DAY 1, Clisson, Francia, 20/06/2014
01/07/2014 (2765 letture)
HELLFEST 2014: TANTE NOVITA’ E QUALCHE CONFERMA
Ormai l’appuntamento con l’Hellfest sta assumendo i caratteri del vero e proprio rito e giungiamo così alla quarta trasferta consecutiva in terra di Francia con molto curiosità e grandissime aspettative per quella che si annuncia come una edizione storica. Il bill di quest’anno si conferma infatti non solo tra i più ricchi in assoluto di tutto il panorama mondiale, ma presenta tre headliner davvero di livello assoluto: Iron Maiden, Aerosmith e Black Sabbath sono tre giganti e se a loro aggiungiamo gli show attesissimi di Slayer, Soundgarden, Deep Purple, la reunion degli Emperor e le altre decine di band che si succederanno nei tre giorni del festival, si capisce che stavolta l’organizzazione ha dato davvero il meglio di sé. A dire il vero, qualche malumore serpeggiava proprio tra gli organizzatori a causa degli infiniti cambi di scaletta causati dalle continue pretese proprio dei gruppi principali, i quali avevano fatto perdere la ragione a chi doveva organizzare un running order minimamente coerente, con il risultato a volte di dover posizionare concerti in contemporanea altrimenti davvero inspiegabili che danneggiavano magari lo stesso pubblico, costretto a dividersi tra band dello stesso genere che suonavano su palchi diversi in contemporanea. Questo ha portato gli organizzatori a rilasciare una piccata dichiarazione che prende le distanze da queste pretese assurde e annuncia che, dall’anno prossimo, non si sarebbero più accettati cambiamenti dell’ultimo minuto e che l’Hellfest vuole essere un festival a uso e consumo del pubblico e non asservito ai capricci delle star. In ogni caso, il sold out già annunciato di due giorni su tre, che ha poi portato l’organizzazione a rimettere in vendita qualche centinaio di biglietti il lunedì precedente all’inizio del festival per scongiurare le speculazioni dei bagarini, testimonia l’enorme successo di pubblico ottenuto, staccando l’incredibile cifra di oltre centocinquantamila biglietti venduti. Proprio così. Una cifra quasi incredibile, che fa della manifestazione francese in assoluto una delle più grandi al mondo.

Già consultando la mappa del festival diffusa dall’organizzazione, ci rendiamo conto che per questa edizione le novità saranno davvero tante. Si capisce di essere arrivati all’Hellfest quando si raggiunge la rotatoria di ingresso al festival, presidiata da una enorme Gibson Les Paul che spunta dal terreno. Purtroppo, anche quest’anno sono stati creati dei percorsi obbligatori per le macchine che portano a parcheggi piuttosto distanti dall’area di ingresso, anche a due o più Km, il che costringe poi la fiumana di persone ad un vero e proprio esodo con bagagli e quant’altro sulle spalle o su improvvisati mezzi di trasporto tra cui carrelli della spesa, carriole e altro per arrivare al campeggio. In effetti, pur arrivando nel primo pomeriggio del giovedì, dopo quasi diciassette ore di viaggio in macchina, troviamo il campeggio già straboccante e tutti i parcheggi limitrofi quasi pieni e chiusi. Un’avvisaglia abbastanza preoccupante di quanto afflusso si registri già adesso. Risolti i problemi con l’accredito che avevano inizialmente fatto temere il peggio (un grazie a Roger, Fabienne e le altre gentilissime e sorridenti ragazze al desk è dovuto, nonostante i quaranta minuti passati nella sauna dello stand) e scaricati i bagagli, montiamo la tenda alla meno peggio in un White Camp già colmo (le varie zone del campeggio sono infatti divise per colori: White, Green, Red, Yellow e così via) e cominciamo a fare mente locale sulla disposizione del tutto. Dopo la coda all’ingresso per il prezioso braccialetto che quest’anno diventa unico pass per l’ingresso al campeggio, che viene quindi vietato a chi non è in possesso del biglietto, ci troviamo di fronte la Hellcity Square, ovverosia una vera e propria piazza cementata che riproduce delle abitazioni (in realtà stand di varie marche) sormontata da un King Kong piuttosto incazzereccio che presenta sulla sinistra il doppio tendone dell’Extreme Market, portato quindi per la prima volta all’interno della zona del campeggio e, sulla destra, il nuovo ingresso lastricato che porta invece all’arena concerti, al momento ancora chiusa. Compiuto il percorso obbligato, ci si trova sulla sinistra e sulla destra altri stand tra cui numerose file di sdraio sulle quali riposare e prendere il sole e la prima vera protagonista –in negativo- di questa edizione: la scala di ingresso al campeggio vero e proprio, una vera tortura cinese. Le tre rampe in perfetto stile piramide azteca scavalcano infatti la sede stradale che gli anni passati fungeva da ingresso all’area concerti, permettendo sì il transito dei mezzi dell’organizzazione con una evidente razionalizzazione dei percorsi, ma rappresentano un vero e proprio tormento per chi arriva carico di bagagli dopo la sudatissima escursione dai parcheggi esterni ed anche, nei giorni seguenti, per chi, sfiancato dalle giornate del festival, si appresta a tornare alla tenda e si trova davanti l’ultima fatica del giorno. Scavalcata la scalinata, individuiamo sulla destra altri stand commerciali, sulla sinistra il Metal Corner, ovverosia un bar con pista da ballo coperta nella quale si succedono altri concerti “secondari”, Dj Set e spettacoli vari che durano a lungo anche dopo la fine dei concerti. Il salvifico spazio riservato ai lavatoi e alle docce (6€ l’abbonamento per tre giorni), alcuni stand alimentari, tra cui la creperie e lo stand breakfast e l’enorme tendone con i tavoli al quale passiamo la prima serata in compagnia di migliaia di persone urlanti e in preparazione per l’imminente inizio del festival vero e proprio. All’interno del campeggio invece non è cambiato quasi nulla: soliti –pochi- bagni, vespasiani sostituiti da ben più funzionali spazi riservati al pubblico maschile, che diminuiscono grandemente le file ai Sebach chimici, spazio riservato alla raccolta differenziata dei rifiuti con sacchetti e indicazioni forniti gratuitamente dall’organizzazione (roba impensabile in Italia, diciamoci la verità) e numerose piazzole riservate alla colazione, con tanti volontari/volontarie che passano la mattina per il campeggio con brioche e cornetti (altra roba impensabile in Italia). Per il resto, la consueta e coloratissima moltitudine di tende provenienti da tutta Europa e non solo (moltissimi i sudamericani e perfino gli australiani presenti) e il consueto casino infernale che dura tutta la notte mettendo a dura prova chi vorrebbe dormire per riprendere le forze in vista del giorno successivo. All’interno dell’arena concerti, come vedremo la mattina successiva, non cambia moltissimo: l’area riservata ai molti stand alimentari si trova quest’anno sulla sinistra, subito dopo l’ingresso e i bagni si sono moltiplicati in vista dell’arrivo di un numero enorme di persone. Confermato lo spazio per il Muscadet, vino locale frizzante e secco dall’inconfondibile sapore, al termine del boschetto, mentre la novità di quest’anno è la ruota panoramica che dà al tutto un’idea quasi circense che forse stona un po’, ma sicuramente ha raccolto un grande successo. I consueti stand riservati ai bar da un lato e al merchandising ufficiale del festival dall’altro, i ben noti sei palchi (due Main Stage, l’Altar riservato al death/brutal, il Temple riservato al Black/folk, il Valley riservato allo stoner/doom e il Warzone riservato all’hardcore/punk), lo spazio per i consueti fuochi atti a scaldare il pubblico nelle umide nottate e il prato che gli anni passati a causa dell’insistente pioggia diventava un’arena di fango e sassi e che quest’anno invece a causa della infernale canicola si trasforma in un deserto di polvere. Tutto è pronto per l’inizio dell’edizione 2014 dell’Hellfest.


DAY 1

SATAN
A darci il benvenuto mentre i Fueled By Fire stanno concludendo il loro show sul Main Stage 1 sono gli inglesi Satan e il battesimo di questa edizione è già strepitoso. I vecchietti della NWOBHM infatti sono in forma smagliante e se è vero che il nuovo Life Sentence, album della reunion, ha ottenuto un grande riscontro e il gruppo sta facendo probabilmente più concerti adesso che trent’anni fa, la cosa non deve dispiacere loro affatto. La partenza è subito bruciante con la doppietta di classici rappresentata da Tryal By Fire e Blades of Steel che ci riportano di peso allo stupendo Court in the Act. Brian Ross con le sue movenze diventa da subito il centro dello show, anche se Steve Ramsey e Russ Tippins rappresentano una coppia di chitarristi da sogno per qualunque band. Lunghe sequenze di assoli e parti strumentali dominano la scena, per brani che comunque dal vivo ricordano a tutti perché i Satan siano tra i veri progenitori del thrash. Si prosegue con la nuova Time to Die che il pubblico dimostra di conoscere a menadito, seguita a ruota da Twenty Twenty Five che col suo refrain travolgente fa alzare la voce ai presenti e, ancora, da Testimony a conferma di quanto il gruppo creda nel nuovo album e quanto questo sia apprezzato dai presenti. Dal passato riemergono ancora il classicone Break Free ed Oppression e arriviamo purtroppo alla conclusione di questo incandescente show con Alone in the Dock. Niente da dire, un’apertura con i fiocchi che peraltro si rivelerà uno dei concerti più intensi in assoluto, per merito di una band che sta vivendo davvero un momento di grazia e che, finalmente, sta raccogliendo qualcosa dell’immenso patrimonio di talento che possiede. Bentornati!

TOXIC HOLOCAUST
Dopo l’esibizione degli amati Satan, ci spostiamo subito sul Main Stage 2 per lo show di una delle formazioni di maggior interesse dell’ondata neo-thrash odierna. E’ molto probabile che questi gruppi siano del tutto inutili e che il loro revival sia stucchevole e asfittico, è difficile negarlo. Eppure, dal vivo questo tipo di approccio così revisionista e radicale, che pretende di riportare le lancette indietro di trent’anni, funziona ancora. Certo nella musica dei Toxic Holocaust non c’è un solo secondo che non sia già conosciuto e ampiamente ripetuto da decine di altre band, ma è difficile non trovare divertente un loro show. Inoltre, l’alternanza di brani ignorantissimi e tirati fino all’eccesso di chiara matrice primi Metallica/Exodus, con altri più cadenzati e maligni o piuttosto con sane sfuriate al limite dell’hardcore, aiuta e non poco a passare in allegria la mezzora a loro disposizione. Certo da brani come l’opener Metal Attack o dalle successive In the Name of Science e Awaken the Serpent non ci attendiamo davvero evoluzione o innovazione, quanto tante gragnuolate sul groppone e sano headbanging. Il gruppo non lesina davvero energia e War Is Hell e 666 sono brani anche interessanti e ben strutturati. Bitch e Lord of the Wasteland chiudono uno show apprezzabile e divertente che ci traghetta lungo il caldissimo pomeriggio, mentre il polverone causato dai circle pit e dalla transumanza degli spettatori da un palco all’altro comincia a diffondersi ovunque.

LOUDBLAST/M.O.D.
Come anticipato, uno dei veri problemi di questa edizione sono stati i numerosi spostamenti causati dalle band. E’ così che gli annunciati Lynch Mob lasciano il posto ai Powerman 5000 sul Main Stage e noi decidiamo invece di fare il nostro debutto sotto il tendone doppio che ospita l’Altar e il Temple per l’esibizione dei francesi Loudblast. I veterani del death transalpino attirano però una quantità incredibile di pubblico e ci troviamo di fronte a quello che sarà il secondo problema di questa edizione: la presenza di troppe persone che di fatto rende spesso inavvicinabili i palchi minori, quasi sempre pieni o strapieni. Non riuscire a vedere un concerto dimezza di fatto il divertimento e così dopo solo quattro brani visti praticamente da fuori il tendone, rinunciamo e torniamo verso il Main Stage sul quale, nel frattempo si stanno per esibire i M.O.D.. La curiosità per la band di Billy Milano è molto alta e in effetti il nostro dimostra quanto la sua fama fosse e sia meritata. Il gruppo appare senza dubbio in forma e lo stesso Milano nonostante la mole non proprio aggraziata e una evidente barba biancastra, sembra aver mantenuto la propria voce intatta, come intatta è la proverbiale vena satirica politicamente scorretta che da sempre ne caratterizza l’attitudine. Giusto segnalare infine che il gruppo pur presentando diversi brani, ha in realtà infarcito il proprio show con tantissime canzoni tratte da Speak English or Die dei S.O.D. del quale tra un anno ricorre il trentennale. Quello che ne esce è uno show di thrash/hardcore divertentissimo e inarrestabile, nella quale classici come Get a Real Job e Imported Society si alternano a cover semplicemente irresistibili come I Love Living in the City, che scatena il pubblico, mentre Thrash or Be Thrashed fa volare la polvere ovunque. Tante le cover dei S.O.D. come detto a partire da Milano Mosh, per proseguire con Kill Yourself, Fuck the Middle East, Pussy Whipped. Dopo l’immancabile Speak English or Die, Milano annuncia un nuovo pezzo (disponibile in free download), intitolato Hermano. Il cantante ringrazia più volte il pubblico per il calorosissimo benvenuto e invita tutti a ridere e vivere in pace. United Forces chiude una grande esibizione, molto divertente e di grande impatto. Complimenti a Billy Milano e alla sua band.

THERAPY?
Si cambia decisamente genere per l’esibizione dei nordirlandesi Therapy?, anch’essi accolti da un pubblico strabordante e festoso. La band decide di puntare decisamente sul sicuro, ignorando quasi completamente la produzione recente per concentrarsi sui primi album della propria carriera, ottenendo così una risposta entusiasta da parte dell’audience. Apre le danze la doppietta iniziale di Troublegum, con Knives a introdurci nel punk venato di alternative metal e industrial della band e Screamger a far saltare tutti i presenti. Si prosegue con Teethgrinder e i suoi ritmi sincopati, perfettamente resi dal gruppo che pur avendo ormai da anni perso un elemento fondamentale come Fyfe Ewing dietro le pelli, dimostra di saper ancora condurre alla grande uno show. Andy Cairns è ovviamente il centro dell’esibizione e anche se la sua voce sembra aver perso leggermente di profondità, non manca di rappresentare in tutto e per tutto l’anima di questa formazione, mentre Michael McKeegan si gode il concerto facendo battere le mani al pubblico e costruendo col proprio basso la base su cui si ergono i riff del leader. Trigger Inside recupera in velocità, ma è Die Laughing (dedicata a Kurt Cobain) ad esaltare di nuovo la folla. Difficile dire quante band moderne debbano ringraziare il riff di Unbeliever e anche se in effetti la personalità del gruppo ha poi sempre deviato da una precisa corrente musicale, non si può davvero negare la loro influenza su tutto il movimento contemporaneo. Altri momenti topici dello show sono rappresentati dalla cover dei Joy Division, Isolation, e dalla potente Stop It You’re Killing Me, sempre da Troublegum. Lo show arriva verso il fondo ed ecco che la band tira fuori dal cilindro un brano che non ti aspetti, proponendo una riuscitissima cover di Breaking the Law dei Judas Priest, accolta con un boato dal pubblico, per poi chiudere con l’immancabile e trionfante Nowhere. Certo il gruppo gioca facile, ma l’esibizione di oggi parla di un ottimo stato di salute almeno a livello di performance dal vivo. E’ stato un piacere.

KADAVAR
Un altro cambio di scaletta fa saltare l’esibizione dei Death Angel e così ci ritroviamo per la prima volta al The Valley per l’esibizione dei Kadavar e mai cambio fu più fortunato, vista la qualità dello spettacolo offerto dai tedeschi. Purtroppo, i problemi per il troppo pubblico riguardano in particolare proprio il tendone del Valley, che non riesce a contenere la grande massa di pubblico che lo stoner/doom attira da queste parti ed è così che ancora una volta siamo costretti a seguire lo show da fuori, fortunatamente con una comunque ottima visuale sul palco. La giovane band non sembra soffrire di nessun senso di inferiorità e decide di sfruttare al massimo l’occasione offerta dal suonare a metà pomeriggio, offrendo una prestazione da urlo sotto tutti i punti di vista. Il loro psychedelic rock infarcito di passaggi al limite dello stoner assume dal vivo una dimensione congeniale e i nostri non risparmiano energia e decibel, con una evidente propulsione dinamica che aiuta e non poco a stemperare l’impatto dei riff di Wolf Lindemann, donando una spinta davvero travolgente ai brani. L’omonimo debutto viene eseguito praticamente per intero, mentre anche il più recente Abra Kadavar viene offerto in pasto all’estasiato pubblico attraverso ottime riproposizioni di Liquid Dream, Doomsday Machine e Eye f the Storm. La voce pulita ed espressiva di Lindermann dal vivo non perde di intensità e le lunghe fughe psichedeliche ci riportano di botto indietro di oltre quarant’anni. Alla fine, il rock offerto dalla band non ha davvero nulla di originale, ma la qualità della loro esibizione e il notevole impatto di composizioni comunque ottimamente realizzate, fanno di questi nostalgici teutonici un gruppo da vedere dal vivo senza dubbio e una delle promesse più interessanti del retro rock.

ROB ZOMBIE
Arriviamo così a una delle esibizioni più attese di questa edizione dell’Hellfest, quella del pazzoide cantante/regista Rob Zombie. Il nostro si presenta con una band di ottimo livello, esaltata dalla presenza di John 5, chitarrista talentuoso che da quando ha lasciato Marylin Manson ha curiosamente visto crescere di molto la propria credibilità. Il palco allestito per l’esibizione è davvero imponente e ai limiti del kitsch con gigantografie dei celebri mostri hollywoodiani, sorta di divinità pagane del pantheon di Rob Zombie, a dominare la scena su cui il cantante e i suoi compagni saltano senza sosta, per uno show che fa dell’intrattenimento la sua vera forza. Rob dimostra in più occasioni di avere ancora tanta voce e le sue doti di leader non si discutono, catalizzando l’attenzione del pubblico, praticamente ormai già a livello degli headliner, che si fa coinvolgere con piacere tributando un’ovazione quasi costante alla band. L’inizio dello show è tutto incentrato sugli album da solista del cantante, con la tripletta iniziale composta dalle ottime versioni di Dragula, Superbeast e Living Dead Girl tratte dal celebre Hellbilly Deluxe; ma dopo l’assolo di batteria centrale, la scaletta diventa un puro eufemismo e il gruppo riprende anche alcuni celebri brani dei White Zombie, primo tra tutti More Human than Human, celebre hit di Astro Creep 2000 che scatena il pubblico portandolo a saltare in massa. House of 1000 Corpses fa da antipasto alla prima cover della sera: Rob si rivolge al pubblico dicendo ”La gente ci domanda perché rifacciamo Enter Sandman dei Metallica… Bah… Sono solo cinquanta secondi! Neanche mi ricordo o mi interessa come faccia la canzone per intero. Sono cinquanta secondi. Volete sentire cinquanta secondi di Enter Sandman?” e all’immancabile coro di approvazione, ecco che il gruppo ci propone una perfetta e validissima versione della prima strofa del pezzo dei Metallica. Ma la vera sorpresa a questo punto è che lo stesso Rob ci annuncia ”E ora… un bel classico di puro heavy metal delle origini”, con una clamorosa versione di Am I Evil? che scatena ancora di più il pubblico e uno Zombie che si dimostra anche discreto e credibile interprete. Tempo per l’assolo di John 5 comunque apprezzato dai presenti e lo show si avvia verso la conclusione con l’immancabile Thunderkiss ‘65. Che dire infine, il buon Rob e i suoi compagni sanno come costruire uno spettacolo e chi ha assistito il concerto potrà confermare di essersi divertito e non poco. Certo ora sarebbe il caso di ricominciare a scrivere musica come si deve.

SEPULTURA
Ammetto di essere tra quelli che dopo l’uscita di Max Cavalera hanno abbandonato del tutto la nave Sepultura, rinunciando peraltro anche a seguire il cantante/chitarrista nei suoi Soulfly. Sarà forse per questo che trovandomi a scegliere tra le esibizioni di Turisas e Kylesa, abbia infine optato proprio per la formazione carioca, per controllarne lo stato di forma dopo un album generalmente accolto come una sorta di ripresa dopo il tonfo di Kairos. In realtà, a darci il benvenuto dopo l’intro The Vatican è proprio la titletrack del disco del 2011. I suoni inizialmente impastati sono una eccezione e difatti presto tutto torna a posto, ma l’esibizione stenta a decollare. Green è un gigante in mezzo al palco, ma le sue capacità di intrattenitore sono piuttosto limitate e anche se non nascondo che il nostro mi ispira una sincera simpatia, non fosse altro per le infinite critiche che deve sopportare da oltre quindici anni, bisogna ammettere che il carisma non è davvero la sua dote migliore. Purtroppo, questa è una dote che manca quasi in assoluto agli attuali Sepultura e il solo Andreas Kisser non riesce più a reggere l’intera baracca davanti a brani che oggettivamente soffrono fin troppo il confronto col passato. La prima scossa di conseguenza arriva con una tellurica riproposizione di Propaganda, annunciando la quale lo stesso Green fa il primo e unico vero discorso della serata: ”So che là fuori c’è qualcuno che dice un sacco di stronzate. Tutto il tempo. Ma la verità è che noi siamo qui adesso e noi siamo i Sepultura. Un punto a tuo favore Derrick, è vero: i Sepultura siete voi. Purtroppo, la verità è che non siete neanche l’ombra di quello che fu uno dei più grandi gruppi metal di sempre. A questo punto la band propone Convicted in Life e una buona Manipulation of Tragedy, ma a conferma di quanto detto prima, per riscattare una prestazione finora generosissima, ma tutto sommato anonima, il gruppo è costretto a ripescare dal proprio passato e proporre una furente versione di Dusted, seguita dal vero e proprio boato di Refuse/Resist, dalla straordinaria Arise e da una ottima versione di Ratamahatta, interpretata con passione da Green e Kisser e retta da una ottima prestazione della sezione ritmica che in Eloy Casagrande ha trovato davvero un ottimo musicista. Green si diverte anche suonando le congas e, alla fine, il concerto può dirsi vinto, con la classica cover di Policia e l’immancabile Roots Bloody Roots a chiudere l’esibizione. Peraltro, a livello di dimensioni della nuvola di polvere sollevata, probabilmente con quest’ultima canzone i Sepultura vincono la gara odierna. Che dire di più? Un ritorno di Max Cavalera non è voluto da Kisser in nessuna maniera e vista la sua condizione attuale, difficilmente aiuterebbe a livello di qualità a tirare fuori un album davvero buono. Quindi, poco da fare: i Sepultura sono questi, nel bene e nel male e con loro dobbiamo fare i conti. Dal vivo sanno fare il loro lavoro e quindi è valsa la pena andare a vederli, accettando però il fatto che i momenti di vera esaltazione arriveranno solo con brani ormai vecchi di vent’anni (ma questo, diciamoci il vero, accade con tutte le grandi band dalla lunga storia). Alla prossima.

IRON MAIDEN
Eccoci quindi arrivare al momento atteso da grandi e piccini: la calata degli Iron Maiden in terra di Francia. Come in Italia, anche qua il numero di t-shirts e gadgets appartenenti al gruppo inglese è davvero elevatissimo e non si fatica a credere che oggi nessuno avrebbe voluto suonare sugli altri palchi in contemporanea agli headliner. E’ la quarta volta che assisto ad un loro concerto, ma è pur vero che l’idea di rivedere le atmosfere che tanto mi affascinarono quando scoprii l’allora VHS dello splendido Maiden England, riesce comunque a coinvolgermi nell’attesa. In effetti lo show del gruppo è anticipato rispetto al consueto orario di esibizione degli headliner e questo crea un piccolissimo problema: di fatto a Clisson la luce del sole è ben visibile fino ad oltre le undici di sera, siamo solo alle nove e il sole splende ancora in cielo, il che toglie un po’ di fascino al palco che ricrea in parte quello del Seventh Tour of a Seventh Tour, il quale simula una banchina ghiacciata e corredata di vari iceberg. In effetti con trenta gradi e oltre perfettamente percepibili, qualcosa del fascino si perde inevitabilmente. Ma sono particolari e quando Doctor Doctor erompe dalle casse, il boato della folla è indescrivibile. Pochi momenti ed ecco l’intro di Moonchild e la band che si proietta sul palco per l’inizio del concerto. Al solito, è Bruce Dickinson a catturare l’attenzione dei presenti, con le sue interminabili corse da lato a lato del palco e sopra la scenografia, per ogni dove. I compagni si dispongono lungo la linea del palco, con Janick Gers un po’ defilato sulla sinistra, Steve Harris al suo fianco, Adrian Smith e Dave Murray assieme sulla destra e naturalmente il buon Nicko McBrain sepolto dietro la batteria. Il suono è perfetto, nemmeno a dirlo e la band appare in forma. I brani si susseguono velocemente, con le numerose scenografie a tema che si alternano dietro la band. Can I Play with Madness è intonata in corso da quasi cinquantamila persone, così come il celebre intro di The Prisoner, nella resa della quale il gruppo appare però un po’ più legnoso. I successi si seguono uno all’altro, con Two Minutes to Midnight e l’attesa Revelations ripescata dopo anni a scandire le emozioni dei presenti. The Trooper è accolta da un’ovazione e dal pogo del pubblico e Bruce si diverte nella divisa rossa dell’esercito britannico a scuotere la Union Jack ovunque accecando poi anche il povero Gers, mentre su The Number of the Beast un Satana molto bovino fa la sua comparsa a un lato del palco e ritmicamente delle fiammate che fuoriescono dai candelabri posti sul palco, scandiscono la canzone. Bruce cerca di accettare nel repertorio della serata anche una benvenutissima Phantom of the Opera e si esibisce in un ottimo francese lungo tutto il corso della serata, facendo poi anche da speaker tra pezzo e pezzo sul risultato dell’incontro tra la nazionale francese di calcio e quella della Svizzera. Ma non c’è un attimo di pausa ed ecco Run to the Hills (con un Eddie sui trampoli in versione Generale Custer che scorrazza per il palco) e Wasted Years, entrambe cantate benissimo da Dickinson che si concede solo qualche attimo di riposo facendo intonare alternativamente i refrain al pubblico. Davvero invidiabile la sua condizione vocale, confermata anche dalla perfetta versione di Seventh Son of a Seventh Son. Un enorme Eddie intento a interpretare una palla di cristallo fa la sua comparsa nella parte alta del palcoscenico e Bruce si concede un ennesimo cambio di abito e stavolta anche di pettinatura. Il pezzo viene reso splendidamente dal gruppo e finalmente si ha la possibilità di apprezzare gli scambi di assolo della parte finale del brano con tanto di fuochi di artificio. Ci avviciniamo alla fine dello show con la sempre apprezzata Fear of the Dark e l’infuriata Iron Maiden, durante la quale compare l’Eddie in versione Seventh Son, con il feto semovente in mano. Una breve pausa e poi parte l’intro di The Churchill’s Speech che ci trasporta verso Aces High con Bruce che fa l’aeroplanino e si mette un cappellino da aviatore in testa. Il cantante gioca col pubblico annunciando il 5-0 della Francia sulla Svizzera e poi The Evil that Men Do. Chiude la solita scanzonatissima e liberatoria Sanctuary. Quasi due ore di concerto volate via con un grande show da parte di una band che recita a memoria un copione ormai consolidato. Ottima prova di tutti, con forse Steve Harris leggermente meno “presente” sul palco e Bruce che domina incontrastato la scena. Perfino Janick Gers che pure non è stato fermo un attimo è apparso più tranquillo del solito. Alla fine comunque tutti contenti, pubblico compreso. Gli Iron Maiden sono ancora una certezza.

SLAYER
Esibizione molto attesa quella del gruppo statunitense. La morte di Jeff Hanneman ancora non è del tutto digerita, così come l’allontanamento di Dave Lombardo. Nessuno discute la qualità di Gary Holt e Paul Bostaph, ma l’idea del gruppo unito e spietatamente determinato ormai è irrimediabilmente compromessa. Non resta che vedere come avrebbe reagito il pubblico al loro show e la verità è che gli Slayer dal vivo sono ancora una maledetta, inarrestabile, implacabile, tremenda macchina da guerra. Basta l’attacco di Hell Awaits, seguita dalla consueta The Antichrist, a togliere ogni dubbio in merito. Il gruppo è clinicamente spietato, perfetto, con King e Holt a rasoiare il pubblico con i loro riff, mentre il barbuto e pelato chitarrista si prende in carico ben più della metà degli assoli. Necrophiliac e Mandatory Suicide sono due brani che si esaltano dal vivo e anche se l’esausta folla non salta come nel pomeriggio, la verità è che non c’è scampo per nessuno su questo campo di battaglia. Araya percepisce la stanchezza del pubblico, ma vede anche un mare di teste e di mani davanti a sé e ringrazia tutti, con una risata che farebbe gelare il a sangue chiunque. Il viaggio nel tempo prosegue con una ottima versione di Captor of Sin e quando Araya urla che è arrivato il momento di War Ensemble c’è ancora chi ha la forza di buttarsi nel pogo più feroce. Tempo di materiale un po’ più recente con Hate Worldwide e Disciple, molto gradite dal pubblico e, a questo punto, il gruppo presenta un nuovo brano dall’imminente album. Il titolo è Implode e la canzone sembra riprendere uno stile thrash molto moderno e cadenzato, inframmezzato però dalle consuete accelerazioni assassine. Non male, a dire il vero. La band rallenta un po’ i giri con l’ottima Seasons in the Abyss, seguita da Dead Skin Mask e dalla immancabile ma sempre splendida Raining Blood a cui viene poi attaccata Black Magic. Dopo un’ora di concerto, il gruppo si concede una pausa e la concede anche al pubblico, che però non vuole saperne di rinunciare così presto alla stretta dell’assassino e allora richiamati a gran voce i nostri tornano e stavolta tocca al gelido riff di South of Heaven. Il gruppo ha mantenuto per tutto il concerto un comportamento professionale e distaccato, quasi freddo, eppure ha suonato con una intensità davvero palpabile, riuscendo ad offrire una prestazione devastante e praticamente perfetta. Tocca alla naturale conclusione di Angel of Death ed ecco che uno striscione rimembrante Jeff Hanneman viene infine aperto. Resta controverso il giudizio: per tutto il concerto non una parola, alla fine uno striscione trionfale ricavato dallo stemma della Heineken, che per una persona morta di cirrosi epatica non sembra proprio una idea geniale, per quanto quello stemma fosse sulla chitarra dello stesso Jeff da anni. Ormai è chiaro a tutti che la band proseguirà la propria attività, con buona pace di chi credeva che fosse necessario uno stop. Dal vivo la band non ha perso nulla della propria ferocia e Holt è più che un semplice sostituto, così come Bostaph, autore tra l’altro di una prova strepitosa e potentissima. Eppure, ancora qualcosa non convince del tutto.

ENSLAVED
Una giornata massacrante volge al termine ma c’è ancora tanta musica da ascoltare e quindi dirigiamo i nostri passi sotto il tendone del Temple per il ritorno dei fieri Enslaved. Avevo perso la loro esibizione nell’edizione passata dell’Hellfest ed era quindi con una certa attesa che mi apprestavo ad assistere a questo show. Purtroppo, il deflusso dal Main Stage ha assunto le caratteristiche dell’esodo e per attraversare la fiumana di gente ho impiegato qualche minuto di troppo, perdendo la prima canzone del set. Quando trovo finalmente posto, infatti, Grutle sta già annunciando la seconda canzone, che scopro con enorme piacere essere Ruun. Lo scontro tra la sognante strofa intonata dal tastierista Herbrand Larsen e il refrain interpretato dallo screaming acido del bassista, resta uno dei momenti più interessanti del disco omonimo e questo fa passare in secondo piano anche un bilanciamento dei suoni non proprio ottimale che schiaccia fin troppo le chitarre esaltando proprio le tastiere in maniera eccessiva. E’ davvero encomiabile come questo band, fiera antesignana del movimento viking abbia progressivamente allargato i confini della propria musica fino ad incamerare riferimenti prog e psichedelici, senza rinnegare per un attimo le proprie radici musicali e anzi cercando in maniera sempre più ricercata e raffinata di inserirle in un nuovo contesto. Il pubblico presente sembra aver seguito con attenzione questa evoluzione ed assiste come in trance all’esibizione, durante la quale non sembra davvero volare una mosca, salvo poi esplodere negli applausi liberatori tra un pezzo e l’altro. La band capisce benissimo questo stato d’animo e ringrazia più volte gli astanti. E’ tempo per Riitiir e per la terza titletrack consecutiva Ethica Odini: il pubblico è già ampiamente conquistato, peccato solo per il persistente sbilanciamento dei suoni, ma in effetti per chi conosce i brani la resa dal vivo è davvero micidiale ed avvolgente e lo screaming di Grutle resta uno dei migliori uditi nella scena. Tempo per un salto indietro nel tempo e nella parte finale dello show il gruppo recupera alcuni brani più datati a partire da Convoys to Nothingness tratto da Monumension e l’ottima As Fire Swept Clean the Earth esaltando molti dei presenti. Il concerto volge già purtroppo a conclusione e come emergendo dalle fredde acque ghiacciate di un lago siderale, veniamo subito affrontati da un vero e proprio assalto all’arma bianca con la conclusiva riproposizione di Allfaðr Oðinn: Grutle annuncia il brano giustamente rimarcando che si tratta di una canzone scritta oltre venti anni orsono, che non ha comunque perso nulla del proprio fascino e della propria ferocia. Conclusione degnissima di un concerto affascinante e ammaliante, che ha assorbito i presenti con le due facce dell’anima di questa magnifica band, la quale dal vivo dimostra di avere pochi rivali quanto a capacità di creare una vera e propria catarsi.

Dopo una giornata veramente lunga e stancante ci sarebbe in realtà ancora modo di recuperare il concerto dei Death Angel spostato dal pomeriggio, ma sono ormai le una passate e ci aspettano ancora due giorni di musica. La stanchezza l’ha vinta e decidiamo di tornare nel campeggio, che comunque risulta essere ben sveglio, grazie al Metal Corner, nel quale si alternano altre esibizioni, Dj set e vari spettacoli fino a notte inoltrata. I bar sono ancora aperti e per chi vuole tirare tardi, le occasioni di occupare il tempo davvero non mancano. Per noi, invece, arriva l’abbraccio di Morfeo. A domani.



spiderman
Mercoledì 2 Luglio 2014, 16.51.10
7
Beato te @ Lizard,vedendo i bill del festival,ti invidio tantissimo,non ci sono mai stato,ma conosco il Wacken essendoci stato 2 volte,ma da come descrivi L'hellfest,sembra che fra un po questo festival eguagliera' quello tedesco,almeno come numeri,mi piacerebbe un giorno andarci,ieri sono stato a vedere i Metallica ed e' stato bello,ma quanto mi piacerebbe che qusto festival francese un giorno possa esserci anche in Italia.Da quello che dici l'organizzazione sembra perfetta e le giornate stimolanti.
Lizard
Mercoledì 2 Luglio 2014, 14.13.58
6
Sono passati diversi anni da quando sono stato a Wacken, quindi non saprei fare paragoni, ma certo qui si vivono le giornate in maniera completa e sono tante le cose da fare e vedere oltre ai concerti. È un'esperienza completa. Da fare sicuramente come esperienza.
HeroOfSand_14
Martedì 1 Luglio 2014, 20.16.39
5
E io che pensavo Wacken fosse il massimo! Che spettacolo, che avventura deve essere stata Lizard, e che nomi! Bellissima anche la mini città ricreata, ci fosse una cosa anche minimamente simile da noi..invece nei festival come il Sonisphere o il Gods la gente va qualche ora prima del concerto, lo si guarda, si fischia (o ci si lamenta di qualcosa) e si torna a casa. Da come leggo invece in Francia essendo su più giorni si vive proprio in un altro mondo, un mondo di buona musica, si fa amicizia e ci si gode tanti grandi gruppi..
gianmarco
Martedì 1 Luglio 2014, 17.34.47
4
mi manca come festival
Dimitri Molotov
Martedì 1 Luglio 2014, 13.00.37
3
Report molto molto ben fatto, mi è quasi parso di essere lì! Certo che la Francia in questo ci batte e ci straccia.... qui cose del genere non se ne vedono purtroppo
Lizard
Martedì 1 Luglio 2014, 11.45.40
2
E' un errore infatti, Billy ha annunciato dal palco che il pezzo era dedicato alla scomparsa di un suo amico, un musicista, e devo aver capito male a chi facesse riferimento. Nella stesura mi sono poi scordato di correggere. Chiedo scusa per l'errore e per il procurato allarme.
professor franz
Martedì 1 Luglio 2014, 11.28.24
1
Harley Flanagan "scomparso"? Posso chiedervi dove lo avete letto?
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