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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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21/10/2017
( 3144 letture )
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Ogni volta che ci si sofferma ad osservare la copertina di Fluxion, viene spontaneo pensare a quanto sia stata esplosiva la modellazione stilistica dei The Ocean. Dopo un EP come Fogdriver, il collettivo di Berlino ha deciso di fare immediatamente il grande passo verso il doppio full length. Fluxion nasce infatti come il gemello “buono” di Aeolian: il primo platter presenta un approccio più orchestrale, evolutivo e tratti progressive, mentre il secondo è un puro e granitico sfogo di violenza. Un po' come fecero gli Opeth poco prima con la coppia Deliverance e Damnation, anche i The Ocean provarono questa ambiziosa strada. Robin Staps, autore di tutti i testi e delle musiche, si avvalse soprattutto nei primi anni di vita della band dell'ausilio di diversi cantanti: nello specifico in questo disco Mathias “Meta” Buente si occupò del growl e dei registri più bassi, mentre per quelli più alti e per lo scream fu scelto Nico Webers. Tuttavia l'elaborazione del materiale composto per la coppia di album non fu delle più facili, poiché Fluxion uscì sotto la label Make My Day nel 2004, mentre il gemello Aeolian uscì sotto la ben più nota Metal Blade Records nel 2005. Il passaggio del tempo e soprattutto d'etichetta cambiò parzialmente i piani originali e la suddivisione delle parti ambience e violente fu meno netta di quanto pronosticato. Nonostante ciò Aeolian risultò comunque nettamente più brutale, nichilista e minimalista del predecessore.
Tornando allo stile della band, dopo l'EP strumentale del 2003, il gruppo di Berlino ha avuto un'evoluzione incredibilmente rapida ed è stato capace di definire un proprio carattere -decisamente maturo- fin dagli inizi con il disco che tratteremo quest'oggi. Il coraggioso mix di generi e influenze è risultato vincente fin da subito: la distruzione dello sludge, le atmosfere del post metal e le sfuriate post hardcore si adagiano con naturalezza sulle strutture in costante evoluzione del progressive.
L'inizio del viaggio è affidato allo strumentale Nazca, che mette immediatamente in relazione gli elementi appena citati, emancipando un approccio decisamente orchestrale. Nonostante i fraseggi melodici, il pezzo rimane permeato di una cupezza di fondo emancipata dalle graffianti chitarre di Robin Staps, che di tanto in tanto lasciano spazio anche a dei frangenti in clean. Il continuo evolvere del brano conferisce molta dinamicità allo strumentale e cattura l'attenzione continuamente, anche grazie agli inserti di musica classica. Il disco è in continua ascesa fin dagli inizi: la longeva The Human Stain dimostra che il collettivo non ha timore di affrontare le tracce ad alto minutaggio. Il growl di Mathias “Meta” Buente si muove su un range molto ristretto, ma lo fa in maniera eccezionale. Il cantante spinge immediatamente il pezzo che poi va ad approdare nuovamente su lidi completamente classici. Il lungo break centrale mostra come, nonostante la longevità, si possano usare delle idee musicali in maniera efficiente. Il passaggio che miscela orchestra e ritmi tribali non stufa mai e ci porta ad una nuova esplosione musicali in maniera del tutto naturale. Otto minuti sono passati e neanche ci si accorge che siamo arrivati a Comfort Zones.
Inside our squalid homes: a safe place behind security doors. Sheltered from all we better ignore: the starving, the homeless, the dying, the poor... Any utopia only makes us scoff. It's all "ok" as long as all can be turned on and off, As longs as we can relax in our comfort zones and explore the world with the remote control. This city breathes death and disease. (Comfort Zones)
Il nichilismo e la totale sfiducia nel genere umano, che già era presente nei versi di The Human Stain, torna ancora più forte fra le righe di questo pezzo. Growl e scream si alternano in maniera abrasiva sul basso portante di Jonathan Heine. Le chitarre si fanno sempre più pesanti, passando per stacchi e drop a dir poco perfetti come quello verso i tre minuti e mezzo. Transitiamo per la titletrack in maniera del tutto naturale: tornano le chitarre in clean e le orchestrazioni cupe e meste. Lo strumentale alterna esplosioni sonore a passaggi decisamente più soft, che tendono a suscitare un forte senso di malinconia. Equinox prosegue sulle coordinate stilistiche di Comfort Zones, risultando tuttavia meno incisiva nonostante le sue sfuriate death. I versi continuano ad essere taglienti e pregni di riferimenti alle tematiche sociali e al genere umano.
Yes, the hopeless are those who never lose their hope. And the heartless are those who never kill a foe. The speechless are those who always move there tongues. And the lonely are those who have the strongest bonds. You've been waiting for a morning to come. After years in the dark started hating the sun. In the end you denied that it had ever shone. And maybe you're right. But is that what you want? And yes, your feelings are justified: the only colour you know is the colour of night. (Equinox)
Al di là delle parole, il brano scivola via senza infamia e senza lode rispetto alle altre -ingombranti- tracce presenti nel platter. Un angosciante ticchettio apre un altro strumentale di matrice decisamente più elettronica. La breve Loopholes ci conferisce un minuto e mezzo di respiro, seppur non troppo rilassato vista l'atmosfera sospesa e i numerosi rumori di sottofondo. Al termine del pezzo si riparte a pieni ritmi con uno dei migliori brani del platter. Dead on the Whole è un pesante midtempo, costituito da una batteria mastodontica, growl, scream e chitarre in palm mute. L'attitudine punk del ritornello va a sfociare, dopo circa metà brano, in una seconda sezione brillante.
We set the standards. We embody all you ever wanna be. We play with your insecurities. We make you feel miserable. (Dead on the Whole)
In qualche modo i The Ocean con Fluxion stanno stabilendo degli standard a tutti gli effetti. Nel finale i cori che ripetono maestosamente “We set the standards” sono un'autentica bomba che rende il pezzo memorabile, facendo venire voglia all'ascoltatore di riascoltarlo più volte. La tripletta finale di questo disco continua su livelli stellari con Isla del Sol. Dietro il longevo brano dal titolo tanto solare si prospetta una lunga suite che miscela atmosfere cupe e pesanti con inserti musicali quasi esotici. Il contrasto risulta quasi grottesco e non fa che aumentare la sensazione di malsana oscurità che avvolge il brano. Il gruppo su i brani ad alto minutaggio da il meglio, con costruzioni di matrice progressive che sfruttano al meglio le idee dei pezzi. L'utilizzo delle orchestrazioni, miscelato con le chitarre in clean si contrappone al growl accompagnato dalle percussioni tribali, che sono un'altra chicca di questo brano. Il passaggio che ci porta a The Greatest Bane è tanto brutale quanto naturale, come molti dei cambi di brano di questo Fluxion. Tornano le tematiche sociali, sul controllo delle masse e sulla mancanza di umanità.
We are the living proof for all the non-believers: What can't be bought or sold is nothing but a fallacy. We are the magistrates for all the great relievers. Gods of the modern age: Nothing can stop us Nothing can halt us Your children work for us eight hours a day. We know that we give them the shittiest pay. Your politicians do whatever we say. We've conquered the earth and set up our flags all over the world. (The Greatest Bane)
Fraseggi melodici, ripartenze in palm mute e finezze dissonanti costruiscono la continua evoluzione del brano, che più volte cambia tempo rallentando l'andatura come nella sezione centrale. L'atmosfera costruita dalla sezione ritmica e dal growl, accompagnato spesso da delle chitarre non eccessivamente invadenti, è degna di nota e ben riuscita, risultando l'esempio pratico che non serve per forza avere mille elementi per rendere apprezzabile un passaggio strumentale. Il gran finale, dopo una lunga sezione in cui delle tremolanti ed acute chitarre creano un bel momento di suspense, viene affidato a una distorsione sempre crescente che va progressivamente in totale saturazione. L'ultimo riff viene suonato a lungo, diventando sempre più graffiante e pesante, andando a coprire ogni altro strumento e ogni altra frequenza.
Il finale del disco, così come tutto quello che lo precede -a parte qualche breve momento meno brillante- è un'autentica bomba. Nonostante la relativa poca esperienza, il collettivo di Berlino tirò fuori un disco di incredibile spessore, ostico ai primi ascolti, ma capace di lasciare quella punta di curiosità che porta facilmente a riascoltarlo. Con gli anni i The Ocean cambieranno e la loro natura di collettivo sfumerà progressivamente, così come alcuni aspetti della loro musica, diventando a tutti gli effetti una band soprattutto con l'arrivo di Loïc Rossetti. La versione originale del platter preso in analisi quest'oggi nel tempo è diventata una vera e propria rarità, ma esiste un'altra versione nuovamente registrata nel 2009 con alla voce Mike Pilat altrettanto valida. Fluxion ad ogni modo rimane a tutti gli effetti un disco di alto livello, accompagnato da un gemello di uguale valore, ma questa, è un'altra storia.
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Gran bella disamina e ottimo disco, a mio avviso migliore del successivo Aeolian in quanto più vario e variegato e dove le idee del gruppo vengono maggiormente valorizzate. Un album anche longevo, è stato l'ultimo che ho acquistato in ordine temporale e confermo la validità della versione del 2009. Band spettacolare, che personalmente amo alla follia. Voto 87 |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Nazca 2. The Human Stain 3. Comfort Zones 4. Fluxion 5. Equinox 6. Loopholes 7. Dead on the Whole 8. Isla del Sol 9. The Greatest Bane
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Line Up
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Line-Up: Nico Webers (Voce) Mathias "Meta" Buente (Voce) Robin Staps (Chitarre e Percussioni) Jonathan Heine (Basso) Torge Ließ mann (Batteria)
Musicisti Ospiti: Markus Gundall (Cori) Thomas Herold (Cori) Alex Roos (Cori) Rebekka Mahnke (Violoncello) Demeter Braun (Violino) Tove Langhoff (Clarinetto) Gerard Kornmann (Percussioni)
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