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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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22/10/2022
( 1059 letture )
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Dando per assodata la paternità ai Meshuggah, il djent a inizio ‘00 vive una fase embrionale all’interno di incubatrici sonore quali Sikth e Textures, autentici prime-movers nell’assimilazione/riformulazione del verbo svedese e a loro volta precursori di un nuovo filone che, da lì a qualche anno (simbolicamente, dal 2010 in poi), sarebbe entrato a gamba tesa nell’immaginario del progressive moderno. Le follie avantgarde-mathcore di The Trees Are Dead & Dried Out, Wait for Something Wild, l’advanced prog di Polars (entrambi del 2003) e perché no, anche il groove poliritmico degli A Life Once Lost (Open Your Mouth for the Speechless…In Case of Those Appointed to Die, 2000 - A Great Artist, 2003) sono le fondamenta di un “proto-genere” che nella seconda metà del decennio è ormai una realtà dai contorni stilistici ben definiti grazie all’operato degli After the Burial (Forging a Future Self, 2006), dei Born of Osiris (The New Reign, 2007) e i Fellsilent (The Hidden Words, 2008) senza ovviamente dimenticare gli inarrivabili maestri di Umeå (obZen). In questo lasso temporale, in bilico fra consolidamento e avvisaglie “pre-mainstream”, si inserisce anche una band ribattezzatasi come l’espressione filosofica di Schopenhauer che dà nome all’illusione calata sugli occhi e la mente dell’uomo, non in grado di carpire l’essenza della Verità. I Veil of Maya, al pari dei colleghi Born of Osiris e After the Burial, forniscono un importante contributo al djent partendo dalla sponda deathcore (All Things Set Aside, 2006) e questa formula grezza viene perfezionata già nel seguente The Common Men’s Collapse (2008), con l’ex-Iscariot Brandon Butler a sostituire il dimissionario Adam Clemans. Un biennio più tardi l’omonimo dei Periphery ufficializza la nascita della vera e propria scena (dodici mesi più tardi debutteranno anche TesseracT, Volumes e Vildhjarta) e in contemporanea i Veil of Maya dimostrano il loro “attaccamento alla maglia” realizzando il loro top album prima che l’arrivo di Lukas Magyar rimescoli le carte in una direzione più vicina al metalcore.
[id], titolo ambiguo che rimanda sia al concetto psicoanalitico freudiano sia all’antagonista del videogioco Xenogears, è un manuale breve ma estremamente dettagliato capace di spiegare in appena ventinove minuti la materia djent: accordature ribassate di obbligatoria sorgente meshugghiana, ritmiche iper-compresse e palm-muting a catinelle, tempi dispari, sfoghi poliritmici, breakdown artificiali e strati di elettronica rinforzanti l’atmosfera filo-digitale dei brani. Su questo tappeto cyber-strumentale il cantante Brandon Butler -a differenza del successore- esprime un range vocale basato esclusivamente sull’alternanza di uno scream pungente e un robusto growl di matrice deathcore; i ritornelli zuccherosi alla Mikasa sono per il momento niente più di una semplice utopia. Le intenzioni del gruppo sono esplicite fin dai quarantatré secondi della title-track ma il primo colpo da K.O. viene assestato con Unbreakable, una brillante esposizione di geometrie post-Meshuggah, roboanti breakdown djent-core, effettistica dalle tinte sci-fi e una performance vocale molto intensa che al registro harsh abbina un breve spoken word declamatorio in pulito alla Killswitch Engage o alla August Burns Red. Dark Passenger (omaggio alla serie tv Dexter) incalza con una batteria militaresca e un’offensiva ritmica densa e stratificata, poi Mark Okubo sale in cattedra ostentando la sua notevole padronanza tecnica nella sublime The Higler, un panta rhei dove classe prog e fluidità djent si interfacciano con armonizzazioni dall’innata eleganza melodica, ben controbilanciate dai martellanti blast-beat e i consueti breakdown spezza-collo. Martyrs e Circle fungono da interludi strumentali (come Pillars in The Common Men’s Collapse), i synth accentuano il carattere videoludico di Resistance e Mowgli danza sinuosa tra melodie ipnotiche e un fitto reticolato djent, anche se a mandare completamente fuori di testa è l’architettura scenografica di Namaste, un “alien/djent-core” (ispirato alla celebre saga di Lost) che erige complessi labirinti prog 2.0 ammantati di un’elettronica misteriosa e popolati da breakdown dall’arcano fascino matematico, scritti in base al codice numerico (4-8-15-16-23-42) che permette di resettare il timer nella Stazione Cigno. Non si cruccino le pur ottime Conquer e Codex (quest’ultima, considerato il gusto melodico e la sfacciata perizia esecutiva, è comunque tra le migliori in scaletta), ma l’ambientazione tematica gioca a favore di Namaste come potenziale vertice dell’intero [id].
Accelerazioni dissonanti, funambolismi tecnici, il garbo della melodia e l’ancora non abbandonato retaggio deathcore: il terzo album dei Veil of Maya non può mancare in una collezione monografica dedicata al djent, essendo ancora oggi il loro full-length più completo e quello meglio identificato con il genere di appartenenza originario. Da Matriarch in avanti subentreranno clean vocals e maliardi hook radiofonici, pertanto, chi volesse tornare al periodo antecedente la svolta metalcore deve lasciarsi condurre nel vortice di [id], una masterclass di puro e incorruttibile djent.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. [id] 2. Unbreakable 3. Dark Passenger 4. The Higler 5. Martyrs 6. Resistance 7. Circle 8. Mowgli 9. Namaste 10. Conquer 11. Codex
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Line Up
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Brandon Butler (Voce) Mark Okubo (Chitarra) Matthew Pantelis (Basso) Sam Applebaum (Batteria)
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RECENSIONI |
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