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LEGEND CLUB, VIALE ENRICO FERMI 98 - MILANO

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Veil of Maya - [id]
22/10/2022
( 1059 letture )
Dando per assodata la paternità ai Meshuggah, il djent a inizio ‘00 vive una fase embrionale all’interno di incubatrici sonore quali Sikth e Textures, autentici prime-movers nell’assimilazione/riformulazione del verbo svedese e a loro volta precursori di un nuovo filone che, da lì a qualche anno (simbolicamente, dal 2010 in poi), sarebbe entrato a gamba tesa nell’immaginario del progressive moderno.
Le follie avantgarde-mathcore di The Trees Are Dead & Dried Out, Wait for Something Wild, l’advanced prog di Polars (entrambi del 2003) e perché no, anche il groove poliritmico degli A Life Once Lost (Open Your Mouth for the Speechless…In Case of Those Appointed to Die, 2000 - A Great Artist, 2003) sono le fondamenta di un “proto-genere” che nella seconda metà del decennio è ormai una realtà dai contorni stilistici ben definiti grazie all’operato degli After the Burial (Forging a Future Self, 2006), dei Born of Osiris (The New Reign, 2007) e i Fellsilent (The Hidden Words, 2008) senza ovviamente dimenticare gli inarrivabili maestri di Umeå (obZen). In questo lasso temporale, in bilico fra consolidamento e avvisaglie “pre-mainstream”, si inserisce anche una band ribattezzatasi come l’espressione filosofica di Schopenhauer che dà nome all’illusione calata sugli occhi e la mente dell’uomo, non in grado di carpire l’essenza della Verità. I Veil of Maya, al pari dei colleghi Born of Osiris e After the Burial, forniscono un importante contributo al djent partendo dalla sponda deathcore (All Things Set Aside, 2006) e questa formula grezza viene perfezionata già nel seguente The Common Men’s Collapse (2008), con l’ex-Iscariot Brandon Butler a sostituire il dimissionario Adam Clemans. Un biennio più tardi l’omonimo dei Periphery ufficializza la nascita della vera e propria scena (dodici mesi più tardi debutteranno anche TesseracT, Volumes e Vildhjarta) e in contemporanea i Veil of Maya dimostrano il loro “attaccamento alla maglia” realizzando il loro top album prima che l’arrivo di Lukas Magyar rimescoli le carte in una direzione più vicina al metalcore.

[id], titolo ambiguo che rimanda sia al concetto psicoanalitico freudiano sia all’antagonista del videogioco Xenogears, è un manuale breve ma estremamente dettagliato capace di spiegare in appena ventinove minuti la materia djent: accordature ribassate di obbligatoria sorgente meshugghiana, ritmiche iper-compresse e palm-muting a catinelle, tempi dispari, sfoghi poliritmici, breakdown artificiali e strati di elettronica rinforzanti l’atmosfera filo-digitale dei brani. Su questo tappeto cyber-strumentale il cantante Brandon Butler -a differenza del successore- esprime un range vocale basato esclusivamente sull’alternanza di uno scream pungente e un robusto growl di matrice deathcore; i ritornelli zuccherosi alla Mikasa sono per il momento niente più di una semplice utopia.
Le intenzioni del gruppo sono esplicite fin dai quarantatré secondi della title-track ma il primo colpo da K.O. viene assestato con Unbreakable, una brillante esposizione di geometrie post-Meshuggah, roboanti breakdown djent-core, effettistica dalle tinte sci-fi e una performance vocale molto intensa che al registro harsh abbina un breve spoken word declamatorio in pulito alla Killswitch Engage o alla August Burns Red. Dark Passenger (omaggio alla serie tv Dexter) incalza con una batteria militaresca e un’offensiva ritmica densa e stratificata, poi Mark Okubo sale in cattedra ostentando la sua notevole padronanza tecnica nella sublime The Higler, un panta rhei dove classe prog e fluidità djent si interfacciano con armonizzazioni dall’innata eleganza melodica, ben controbilanciate dai martellanti blast-beat e i consueti breakdown spezza-collo. Martyrs e Circle fungono da interludi strumentali (come Pillars in The Common Men’s Collapse), i synth accentuano il carattere videoludico di Resistance e Mowgli danza sinuosa tra melodie ipnotiche e un fitto reticolato djent, anche se a mandare completamente fuori di testa è l’architettura scenografica di Namaste, un “alien/djent-core” (ispirato alla celebre saga di Lost) che erige complessi labirinti prog 2.0 ammantati di un’elettronica misteriosa e popolati da breakdown dall’arcano fascino matematico, scritti in base al codice numerico (4-8-15-16-23-42) che permette di resettare il timer nella Stazione Cigno. Non si cruccino le pur ottime Conquer e Codex (quest’ultima, considerato il gusto melodico e la sfacciata perizia esecutiva, è comunque tra le migliori in scaletta), ma l’ambientazione tematica gioca a favore di Namaste come potenziale vertice dell’intero [id].

Accelerazioni dissonanti, funambolismi tecnici, il garbo della melodia e l’ancora non abbandonato retaggio deathcore: il terzo album dei Veil of Maya non può mancare in una collezione monografica dedicata al djent, essendo ancora oggi il loro full-length più completo e quello meglio identificato con il genere di appartenenza originario. Da Matriarch in avanti subentreranno clean vocals e maliardi hook radiofonici, pertanto, chi volesse tornare al periodo antecedente la svolta metalcore deve lasciarsi condurre nel vortice di [id], una masterclass di puro e incorruttibile djent.



VOTO RECENSORE
84
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2010
Sumerian Records
Djent
Tracklist
1. [id]
2. Unbreakable
3. Dark Passenger
4. The Higler
5. Martyrs
6. Resistance
7. Circle
8. Mowgli
9. Namaste
10. Conquer
11. Codex
Line Up
Brandon Butler (Voce)
Mark Okubo (Chitarra)
Matthew Pantelis (Basso)
Sam Applebaum (Batteria)
 
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