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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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Shadows Fall - Fire from the Sky
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11/03/2023
( 749 letture )
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Dalle fucine underground del Massachusetts al ruolo di comando nella prorompente avanzata della New Wave of American Heavy Metal insieme a Lamb of God, Killswitch Engage, Chimaira, Darkest Hour, Unearth e God Forbid: seminali e dominanti, origine ed evoluzione di un genere, spartiacque fra il metallic hardcore e lo swedish death importato dal Nord Europa e il metalcore “definitivo”.
Un prologo altisonante eppure conforme alla rilevanza degli Shadows Fall, band nel quale il pionieristico genoma -core (Donais e Bachand ex-Aftershock, Fair ex-Overcast) si fonde alla devozione per il thrash ottantiano unendo le sponde antinomiche del passato e di una allora cangiante modernità, equiparabile a una “deriva heavy metal” basata sul recupero di stilemi tradizionali interfacciati con l’ibrido sonoro metal/hardcore degli anni ’90. Escludendo il death melodico di Somber Eyes to the Sky (l’unico che vede il futuro All That Remains Phil Labonte al microfono), la “vera” storia del gruppo inizia nel 2000 quando Of One Blood, oltre ad accogliere la new-entry Brian Fair, delinea un peculiare melting-pot di registri unclean/voci melodiche, thrash, eufonia svedese e hardcore, fattori sì preesistenti ma ora assemblati in un costrutto innovativo che prenderà il nome di melodic metalcore, diverso dall’hardcore metallizzato dei Nineties e dall’emo-core 3.0 degli altrettanto nodali Poison the Well (The Opposite of December, 1999). Stilisticamente più avanzato del crudo Reject the Sickness dei God Forbid e dell’omonimo Killswitch Engage, quest’album racchiude linee guida che un intero filone seguirà per almeno un lustro e, nonostante una produzione ruvida e un bilanciamento vocale migliorabile, il metalcore anni ’00 in nuce viene già raccontato nei solchi dei qui presenti dieci brani. Apripista e leader della prima ora, gli Shadows Fall schiudono quindi i battenti della nuova ondata Made in USA e, al pari dei Killswitch Engage, tra il 2002 e il 2004 affossano il nu metal grazie a due album stratosferici quali The Art of Balance e The War Within (il secondo entra al numero venti della Billboard 200), capolavori del “neo-thrash metalcore” ulteriormente impreziositi da frame heavy metal, groove e delicate cornici acustiche. Tra nomination ai Grammy Awards e contratti da major-league (Roadrunner/Atlantic), la stella dei cinque parrebbe destinata a brillare in modo ancor più luminoso e invece Threads of Life non riscuote il successo commerciale auspicato deludendo la maggior parte della critica e dei fan. Sebbene il valore tecnico sia rimasto invariato, l’album effettivamente denuncia una perdita di aggressività e l’alleggerimento globale del sound fa sì che il lato hardcore risulti meno irruente e la melodia affiori con più naturalezza; battuta d’arresto quindi? no, piuttosto un calo fisiologico in un lavoro comunque degno del terzo gradino nell’eventuale podio discografico. La strada del ridimensionamento sembra però imboccata e Retribution (2009) non ha la forza di mascherare quotazioni ormai lontane dall’asticella dei primi anni Zero: simile a un moderno heavy/thrash piuttosto che al metalcore, il disco viene recepito con freddezza e intorno ai bostoniani plumbee nuvole si addensano in un cielo sempre più offuscato.
Caos, deliri apocalittici e la sindrome da fine del mondo targata anni ’10 (nel 2012 circolavano le profezie dei Maya…) alimentano la vena pessimistica di Fire From the Sky, in tutti i sensi un album davvero “infausto” per gli Shadows Fall, cantori del judgment day e loro stessi all’ultimo atto prima di un silenzio decennale. Liriche concatenate e fortemente negative (non mancano depressione, rimandi biblici, ispirazioni letterarie -The Waste Land di T.S. Eliot-, l’avanzata tecnologica, supernove che inghiottono pianeti ecc.) affrescano un quadro dalle tinte cineree dove si staglia “the shadow of an impending apocalypse”, fil-rouge di un vago e improprio concept legato ai giorni oscuri che attendono l’uomo, alla ricerca affannosa di segni e risposte che tardano a materializzarsi. Prodotto da Adam Dutkiewicz (come l’esordio del ’97, un altro giro completo del cerchio), il settimo disco viaggia su frequenze altalenanti e il consueto heavy thrash/metalcore -opacizzato da un songwriting rigido e ormai prevedibile- manifesta lacune in termini di fantasia e impatto non riuscendo a nascondere i difetti canori di un Brian Fair che, pur mettendocela tutta, ha davvero perso lo smalto dei “good old days” e nemmeno l’aiuto di Donais ai controcori e di Bachand ai refrain puliti dà lustro a una tenuta vocale ben lontana dagli apici dell’era 2002/2004.
Nonostante una freschezza compositiva tendente all’involuzione e le difficoltà nell’alternare i registri harsh/clean, la band non vuole cedere in alcun modo e in FFTS arriva a scolpire un epitaffio comunque onorevole a dispetto delle numerose crepe evidenziate lungo la superficie: la thrashy The Unknown (unico singolo estratto), può contare sul timbro arcigno di Fair e sui lead del sempre impeccabile Donais, ma va poi ad infrangersi su un ripetuto chorus melodico invero “distaccato” nella sua fredda espressività. Divide and Conquer carica a spron battuto menando fendenti thrash, istanze groove e un semi breakdown rovinandosi nuovamente all’altezza di un ritornello scarico e privo di personalità, il metalcore di Weight of the World invece soffre negli interventi di un growl per nulla a fuoco anche se la combinazione doppia cassa-scream-fraseggi heavy/assoli da paura non è affatto da disprezzare e quantomeno riesce ad istillare una lieve speranza di miglioramento. Purtroppo, questa viene troncata subito dalle imperfezioni di un Brian Fair visibilmente in affanno nella canonica Nothing Remains mentre la title-track, alquanto deficitaria nel comparto gutturale, si tiene a galla con un sorprendente up-tempo thrashcore dove possiamo finalmente udire un po’ di sana e grezza energia. Tra alti e bassi, feeling retrò (la trasposizione heavy metal di Save Your Soul, l’hard rock metallizzato nei solchi anni ‘80 di Walk the Edge) e mai sopite qualità chitarristiche (le armonizzazioni e la ragguardevole fuga solista in Lost Within), le radici NWOAHM emergono nella corposa e articolata Blind Faith, un tuffo nel passato dove metalcore, arpeggi unplugged, thrash e ritrovati accenti svedesi riformulano echi indiretti dei best album e non sarà un caso il fatto che proprio qui il vocalist sembri tornare (nelle strofe) a livelli pre-2009. Eludendo i “censurabili” passaggi in growl, The Waste Land fila serrata in mezzo a ritmiche thrash/metalcore, ritornelli melodici infine ben eseguiti e ulteriori gemme soliste, dopodiché un roccioso outro cadenzato groove-oriented assume la forma di una passerella d’addio e noi -con lo sguardo basso e i pugni alzati- rendiamo onore a una grandissima band avvertendo un senso di malinconia per quello che poteva essere e non è stato se non in parte.
2012. Il fuoco dalla volta celeste manda al rogo la bandiera della New Wave of American Heavy Metal, ammainata dai veterani che diedero origine alla corrente e si sono prodigati per essa nell’arco di oltre un decennio. Fondamentali eppure mai troppo lodati, gli Shadows Fall hanno “ceduto” Jonathan Donais (Anthrax) e Jason Bittner (Flotsam and Jetsam, Overkill) ma dal 2021 la reunion -seguita dal progetto collaterale Living Wreckage- è divenuta realtà e i nostalgici sono dunque autorizzati a sognare un nuovo album che funga da moderno reboot al verbo tramandato nei Duemila.
In definitiva, Fire From the Sky non raggiunge certo le vette siderali del fanta-tris The Art of Balance/The War Within/Threads of Life, però abbassa con dignità il sipario e chiude -momentaneamente?- una produzione discografica tutta da riscoprire in nome di quel trait d’union fra old e new school nel segno del metalcore.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. The Unknown 2. Divide and Conquer 3. Weight of the World 4. Nothing Remains 5. Fire From the Sky 6. Save Your Soul 7. Blind Faith 8. Lost Within 9. Walk the Edge 10. The Wasteland
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Line Up
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Brian Fair (Voce) Matthew Bachand (Chitarra, Voce) Jonathan Donais (Chitarra, Cori) Paul Romanko (Basso) Jason Bittner (Batteria)
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