|
26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
|
|
Dirty Honey - Mayhem And Revelry Live
|
08/04/2025
( 779 letture )
|
C’è stato un tempo, anche piuttosto lungo (due o tre decenni almeno, se non di più), nel quale, per una band o un artista rock, l’uscita di un album live era un evento. Non era qualcosa di routinario o normale: era il momento in cui si sublimava, attraverso la registrazione dal vivo, un momento particolarmente significativo della propria carriera (spesso, un tour importante a seguito di un album particolarmente riuscito) e, allo stesso tempo, si dimostrava al mondo la propria capacità sul palco, quasi a voler smentire eventuali accuse di essere solo “fenomeni da studio”. C’erano poi anche ragioni tecniche: le registrazioni di un album live, con le tecnologie dell’epoca, erano tutt’altro che facili o economiche, e quindi si riservava l’evento solo a determinate circostanze speciali. La combinazione di queste caratteristiche ha fatto sì che alcuni dischi live particolarmente riusciti sono entrati direttamente nella storia della musica, per non uscirne più; se per fare qualche esempio al volo, dico Made in Japan (Deep Purple), At Fillmore East (Allman Brothers Band) o Live After Death (Iron Maiden) non penso di stupire nessuno. Poi, da un certo momento in avanti – momento che si può indicativamente segnare con l’inizio del nuovo millennio – le cose sono cambiate del tutto: è diventato molto più semplice, e meno oneroso registrare i live, e diverse band o artisti hanno sempre più preso l’abitudine di realizzare dischi live, sino a giungere quasi ad un’alternanza rigorosa disco in studio-live relativo. Questo ha inevitabilmente fatto sì che i dischi dal vivo siano sempre meno un evento, e sempre più un passaggio canonico nella vita musicale di un artista; il tutto, a prescindere dalla qualità o meno degli stessi.
Possiamo quindi trovare casi come questo, ovvero un disco live che esce sul mercato quando la band che l’ha prodotto ha realizzato, oltre al EP omonimo di debutto, solamente due dischi da studio. Infatti i losangelini Dirty Honey si sono formati solamente nel 2017, e hanno prodotto il primo full-length, anch’esso omonimo, nel 2021, per poi bissare con Can't Find the Brakes due anni dopo. Ora è il momento del disco dal vivo, ma per i nostri la scelta è ottimale in quanto la loro musica è perfetta per le esibizioni dal vivo, e proprio sulle assi di un palco trova la sua ideale collocazione e sublimazione. Il quartetto americano è infatti un perfetto esemplare di hard rock band di stampo U.S.A., con chiarissime influenze derivanti dall’hard ottantiano: Guns N’ Roses su tutti (non a caso, la band ha avuto occasione di aprire sia per Slash, nei suoi tour solisti, sia per gli stessi Guns al completo), ma anche Motley Crue, Poison e Great White si sentono chiaramente nella loro proposta. Chi conosce questo genere sa perfettamente che è proprio durante i concerti che l’adrenalina e la forza tipiche di questa musica possono rendere al meglio; e bene hanno fatto i Dirty Honey a conservare al meglio i tratti live delle loro registrazioni. Il calore del pubblico emerge chiaro, e il suono caldo e potente della band pare proprio autentico e genuino; se ci sono state modifiche in post-produzione, sono state fatte molto bene ed in modo assolutamente non invasivo. La band è in ottima forma, e i brani sono suonati e cantati in maniera assai convincente: ottima la performance dei due primattori, il cantante Marc LaBelle la cui voce calda, sporca e acuta (con chiari riferimenti in Axl Rose e Vince Neil) è perfettamente intonata e in grado di dare alle canzoni un’autentica marcia in più, sia nelle parti più aggressive sia in quelle più melodiche, e nelle ballad, e il chitarrista John Notto, che non si risparmia e non lesina riff trascinanti e assoli caldi e ficcanti durante tutto il concerto, oltre a stupire con validissime prestazioni anche alla chitarra acustica in alcuni momenti. La sezione ritmica, da parte sua, svolge ottimamente il proprio compito, pestando il giusto e sostenendo egregiamente il groove di ogni brano. Non saranno magari musicisti ipertecnici, i Dirty Honey, ma in fatto di tiro e di efficacia sanno dire egregiamente la loro, anche in confronto con i propri maestri o con i grandi nomi del settore. I sedici brani rappresentano – probabilmente – la scaletta tipica del tour da poco concluso e, nel contempo, costituiscono un validissimo “greatest hits live” dei loro primi due album, già di loro ottimi e assolutamente apprezzati da pubblico e critica, oltre che dell’EP del 2019 che conteneva brani poi non ripetuti nei full-length: ed ecco quindi che trovano nuova linfa e si mostrano in tutta la loro brillantezza esecutiva e compositiva perle quali When I’m Gone, Heartbraker, California Dreamin’ – le ultime due citate sono pezzi originali dei Dirty Honey, non cover – The Wire, Don’t Put Out the Fire o Can’t Find the Brakes, solo per citare alcuni titoli. Ma il bello di questo album è che non presenta alcun calo di tensione né tantomeno alcun filler: l’hard rock settantiano unito ad echi southern e intriso di un’irresistibile vena blues, convince dal primo all’ultimo secondo, e spicca per la sua capacità di risultare tanto maturo e convincente quanto d’immediata presa sull’ascoltatore.
Non serve essere iper-appassionati del genere per amare i Dirty Honey; è sufficiente amare la buona musica, suonata e cantata con passione, entusiasmo e classe, come si faceva un tempo e come, seppure meno sotto i riflettori, si continua fortunatamente a fare anche oggi. Certo, fa malinconia pensare che, sino a non troppi anni fa, una band così dotata e capace sarebbe diventata il nuovo fenomeno rock e avrebbe invaso le classifiche di mezzo mondo; o, quantomeno, avrebbe avuto la chance di provarci. Oggi invece, malgrado l’apprezzamento notevole riscontrato fra gli “addetti ai lavori”, i nostri non hanno ancora un supporto discografico di primissimo livello e, seppure abbiano iniziato con i tour intercontinentali, non hanno ancora raggiunto quello status di fama e di notorietà che le loro doti meriterebbero. C’è da augurarsi che lo raggiungano quanto prima, e che l’entusiasmo e la passione che li hanno seguiti sin qui non vengano meno malgrado tutto questo: perdere per strada una band di questa caratura sarebbe un vero peccato. Intanto, qui c’è da ascoltare e da divertirsi in abbondanza.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
2
|
Perfetti per curare la stipsi |
|
|
|
|
|
|
1
|
....band che merita....grandi....🤟 |
|
|
|
|
|
INFORMAZIONI |
 |
 |
|
|
|
Tracklist
|
1. Won't Take Me Alive 2. California Dreamin' 3. Heartbreaker 4. Dirty Mind 5. Tied Up 6. Coming Home 7. Another Last Time 8. Rolling 7's 9. Can't Find the Brakes 10. Satisfied 11. Roam 12. The Wire 13. Don't Put Out the Fire 14. Scars 15. When I'm Gone 16. You Make It All Right
|
|
Line Up
|
Marc LaBelle (Voce) John Notto (Chitarra) Justin Smolian (Basso) Jaydon Bean (Batteria)
|
|
|
|
RECENSIONI |
 |
|
|
|
|
|
|
ARTICOLI |
 |
|
|
|
|
|
|