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Darkest Hour - Godless Prophets and the Migrant Flora
30/03/2017
( 2124 letture )
Nono lavoro in studio per i Darkest Hour , una delle band più longeve del panorama metal/ hardcore americano e internazionale.
Mai del tutto capiti dalle masse, i nostri non hanno raggiunto quella fama che in 22 anni di carriera di qualità, ben 8 full length (9 con quest’ultimo) e concerti in tutto il mondo si sarebbero meritati. Ma saldi delle loro convinzioni e della cerchia di fedeli seguaci, a 37 anni suonati i nostri continuano a darsi da fare, con i membri originali John Henry e Mike Schleibaum al comando ma nel complesso con una formazione che funziona alla grande (fra i nuovi membri la punta di diamante è senza dubbio il drummer Travis Orbin, ex batterista dei Periphery). Godless Prophets and the Migrant Flora è infine l’esito di un mirabolante percorso con una serie di interessanti e a tratti scioccanti cambiamenti stilistici.
Infatti se nel primo The Mark of the Judas e nel successivo So Sedated, So Secure avevamo un perfetto, selvaggio accostamento di una base swedish death col l’hardcore americano (ma non commistione e quindi non un vero metal core nel senso attuale del termine), con Hidden Hands of a Sadist Nation vedevamo l’apice di questo abbinamento stilistico con un risultato violento, sempre e ancora più feroce ma decisamente più maturo. Tuttavia è con il successivo Undoing Ruin che i nostri tirano fuori il loro vero potenziale, vale a dire l’inclinazione a un prodotto musicale melodeath/metal core non solo aggressivo ma anche e soprattutto interiore. Un’agrodolce melodia fa padrona alternandosi con l’amara violenza, i testi sono profondi piuttosto che politicamente impegnati, i nostri trovano quel marchio di fabbrica che renderà memorabili anche i successivi lavori, Deliver Us, The Eternal Return e The Human Romance e consentirà loro di scrivere alcune canzoni di una bellezza unica. Questo senza mai scendere qualitativamente, seppur gradualmente smussando i propri angoli e la rozzezza a favore del songwriting.
È sul penultimo e self-titled album che avviene il clamoroso e inaspettato cambiamento: i nostri entrano in Sumerian Records e si ritrovano non si sa come a fare un emotional-core alla Bullet for my Valentine con enormi parti di cantato pulito, genere assolutamente anacronistico per questo particolare momento della loro carriera: per quanto ben fatto nel suo contesto, con canzoni davvero catchy e conservando un minimo di aggressività, esso si discosta terribilmente dal passato della band e fa chiedere un po' a tutti che diamine sia successo ai Darkest Hour .
Il punto della questione è che per fortuna Godless Prophets and the Migrant Flora -forse anche grazie all’entrata in Southern Lord Records- sembra averci in buona parte riportato indietro la band dei tempi andati in una versione 3.0, con l’attitudine hardcore punk di Hidden Hands of a Sadist Nation, le parti più aggressive del lavoro precedente e in parte l’ispirazione poetica dei lavori di mezzo, con un inchino soprattutto a The Eternal Return.
Premettendo che non è facile eguagliare degli album che già sfiorano l’eccellenza, Godless Prophets and the Migrant Flora rende perlomeno giustizia ai lavori migliori della band. Non abbiamo tutte le emozionanti trovate melodiche degli anni d’oro ma ciò che è perso in poesia è recuperato in potenza: insomma le canzoni rimangono meno impresse a primo ascolto (ma solo a primo ascolto) perché non hanno la stessa tipologia di motivi melodici ma di sicuro cadono in testa come un mattone che colpisce e non fa mai male.

Nelle scelte sonore strumentali abbiamo dei suoni molto più americani/hardcore/groove rispetto all’inclinazione melodic death, riproponendo le distorsioni e i settaggi di Darkest Hour e creando nuovamente un distacco dal passato. Sia le ricche ritmiche che i soli risultano più pastosi e caldi, mentre il basso è invece uno strumento che non ha mai avuto una presenza preponderante e ciò si perpetua anche in questo lavoro. Nel complesso l’ottima produzione è ad opera non a caso di Kurt Ballou dei Converge e non solo ritroviamo alcuni suoni in comune con questa storica band ma possiamo ben dire che il noto produttore non ha assolutamente interferito con l’attitudine dei Darkest Hour , anzi l’ha esaltata nel più giusto divenire.
E’ la voce di John Henry che come sempre fa da padrona: anche se il suo timbro è cambiato e anch’esso è diventato più corposo e meno graffiante, ha ancora quella peculiarità che lo rende riconoscibile al primo ascolto dando una componente assolutamente caratteristica alla band. Un growl spesso che non spazia su altri tipo di cantato ma che non è mai monocorde, non stanca e sebbene i clean vocals del penultimo album fossero davvero amabili, non ne sentiamo la mancanza.

Ciò avviene sulla base strumentale che alterna chitarre ritmiche alla At The Gates, accordi aperti lievemente post-hardcore e momenti groove metal, a braccetto con la batteria che risulta differente tramite l’abile intervento di Travis Orbin a sostituire il già stravolgente batterista Ryan Parrish. Questa combo micidiale va come un treno con poche pause e digressioni: ritroviamo i nostri arrabbiati e furiosi con un songwriting essenziale e ci uniamo ben volentieri alla loro maratona di melodeath e hardcore.
Si parte già senza respiro e fronzoli con l’incalzantissima e concisa Knife in the Safe Room, che dà sfoggio dell’aggressività, velocità e impatto che troveremo in quasi tutto il lavoro. Tirata e splendida con i giochi di splash di Travis Orbin, la voce caustica del frontman e i feelings che ci riportano ai pezzi più riusciti del precedente lavoro, questa track è un ottimo inizio per un album che ha in serbo ancora molto.
La successiva tripletta rende infatti l’ascolto variegato e ricco: This is the Truth squisitamente post-swed death, Timeless Number dissonante e strafottente e None of This is the Truth cattivissima ma anche più interiore e amara.
Questo sentimento si protrae nei pezzi successivi, con l’intervento di assoli di chitarra al cardiopalma dal gusto heavy metal presenti nei Darkest Hour dall’entrata di Michael Theobald. Rari momenti digressivi danno un attimo di respiro come in Enter Oblivion, The Last of the Monuments (lungimirante ed emotiva con l’unico ritornello simil-pulito del disco) e la delicata strumentale Widowed che ci fa notare la presenza delle additional guitars e dei consigli stilistici dell’ex chitarrista Kris Norris durante la stesura dell’album.
L’album si chiude in bellezza con In the Name of Us All, a tratti quasi mathcore con inserti che ci ricordano davvero i Converge e Beneath it Sleeps con il suo intro psicotropo e toccante.

Dal punto di vista testuale Godless Prophets and the Migrant Flora è impegnato e sembra un concept sul disgusto nei confronti dei mali del mondo, della società corrotta, dei falsi dei e profeti: un misto di denuncia politica/sociale ed espressione di malessere interiore nel constatare tutto ciò:

[...]I know now we're lost
I know now you're gone
Born into this post-modern trauma

[..] You're either dead or you're complacent

No end no love no one
None of this is the truth[...]


In conclusione, questo lavoro a metà fra il primo metal hardcore americano-quello di fine anni 90- e lo swed death dei tempi d’oro rivisitati in chiave moderna scorre liscio come il latte, non stanca né scontenta. Come già premesso non era facile per i nostri ragazzi di Washington DC riuscire ancora una volta a reinventarsi, dopo 22 anni di carriera e dopo lavori già eccezionali. Eppure anche se differente, Godless Prophets and the Migrant Flora ne è comunque degno tributo ed anzi rivisitazione. I Darkest Hour ce l’hanno fatta ancora una volta, con un album che non vi pentirete di ascoltare, che ricerchiate metal old school o inclinazione alla modernità.



VOTO RECENSORE
80
VOTO LETTORI
90.16 su 6 voti [ VOTA]
LUCIO 77
Sabato 25 Luglio 2020, 14.41.49
3
Ho conosciuto da poco questo Gruppo.. Mi son procurato questo Album e devo dire che mi è piaciuto.. Se i precedenti sono migliori, ne vedrò delle belle.. Mi pare una Band "Onesta".. Non chiedermi la luna ma non ti deluderò mai...
Earthformer
Venerdì 10 Agosto 2018, 12.20.11
2
Disco spietato, il metalcore in una delle sue eccezioni più pure .
Sentenza
Martedì 4 Aprile 2017, 16.05.24
1
A me è piaciuto molto. Non mi dispiacevano le linee melodiche ma la critica è stata pesante a riguardo. Il suono comunque mantiene una somiglianza col precedente, voto 85
INFORMAZIONI
2017
Southern Lord Records
Metal Core
Tracklist
1. Knife in the Safe Room
2. This is the Truth
3. Timeless Numbers
4. None of This is the Truth
5. The Flesh & the Flowers of Death
6. Those Who Survived
7. Another Headless Ruler of the Used
8. Widowed
9. Enter Oblivion
10. The Last of the Monuments
11. In the Name of Us All
12. Beneath it Sleeps
Line Up
John Henry (voce)
Mike Schleibaum (Chitarra)
Micheal Theobald (Chitarra)
Aaron Deal (Basso)
Travis Orbin (Batteria)
 
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