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SUMMER BREEZE - Day 3 - Dinkelsbühl, Germania, 15/08/2015
06/09/2015 (2329 letture)
INTRODUZIONE
Dopo aver attraversato calura e polvere e aver visto precipitare il clima in pioggia e vento a raffica, si giunge dunque all’ultimo giorno di festival, con una leggera stanchezza sulle spalle. Ma non c’è tempo per riposare perché, dopo una giornata mediamente interessante come quella di venerdì, il bill torna ad essere succulento per l’ultimo giorno di concerti. Molti i nomi che si succedono sui palchi, non privi di qualche piccola sorpresa, vediamo com’è andata.

BE’LAKOR
Alla loro terza esibizione al festival, gli australiani di essere ormai un nome di un certo rilievo nella scena melodic death, tuttavia faticano a togliersi di dosso quell’aura di “vorrei ma non posso” che da qualche anno a questa parte si portano dietro. Non che i nostri manchino di capacità compositive o di gusto per la melodia (Remnants lo dimostra chiaramente), ma sembra che debbano ancora finire di sviluppare quell’attitudine on stage fatta di sicurezza nell’esecuzione -che all’attacco dello show traballa, con qualche sbavatura nel timing delle chitarre- e presenza scenica in grado di coinvolgere al cento per cento il pubblico sotto il palco. La performance del quintetto è comunque ricca di un certo pathos dato dai brani, che trasudano una genuina inclinazione alla melodia in grado di non scadere mai nella banalità; il growl di George Kosmas è robusto e l’operato della sezione ritmica è solido, grazie alla coppia Richardson/Vanden Broek. Eppure la sensazione che manchi qualcosa fatica ad allontanarsi e nemmeno proponendo la novella Exogeny i Nostri riescono ad andare al di là di un coinvolgimento parziale. È inevitabile fare il confronto con gli altri due nomi aussie presenti per la prima volta al festival, che anche se meno longevi riescono a superare la barriera con il pubblico ben più agilmente.
La solenne Venator conclude uno show fatto di buoni brani, ma che, per tutti i motivi esposti sopra, sostanzialmente fatica a decollare. Peccato.

Appesantiti

RECTAL SMEGMA
Vincitori del premio putridume di questa edizione del Summer Breeze, i Rectal Smegma sono esattamente niente di meno di ciò che promette il moniker: brutal/grind marcio e purulento, fatto di liriche su spargimenti di sangue/pratiche sessuali più disparate/infezioni e malattie, molto spesso tutte citate in contemporanea. Tuttavia, ai nostri va riconosciuto il pregio di riuscire a mettere in piedi uno degli show più esilaranti di tutto il festival: i fan infatti si presentano al cospetto dei nederlandesi muniti di scopettino per water, coriandoli, salvagenti a forma di coccodrillo, costumi fallici giganti, palme finte, palloni gonfiabili e qualsiasi altro oggetto inflatable da spiaggia possa venire in mente, logicamente lanciato sul pubblico in un continuo rimpallo in mezzo al moshpit.
La band dalla sua mette una sana dose di ignoranza nell’esecuzione, eseguendo i primi due album nel giro di sette minuti, il cantante Yannic rinforza il connubio porno/demenza presentandosi sul palco in costume ed eseguendo pose plastiche per mettere in mostra i propri muscoli, per poi ammattirsi nell’attivare i pedali con i pitch-shift per la voce.
In mezzo al contesto, la proposta musicale della band finisce inevitabilmente in secondo piano, ma i presenti radunatisi sembrano divertirsi parecchio nei trenta minuti in compagnia dei Rectal Smegma.

Goliardici!

PARADISE LOST
I Lost al Summer Breeze sono abbonati al pomeriggio (vedasi spettacolo del 2013), orario poco in linea con le ambizioni crepuscolari che da 25 anni a questa parte rappresentano il moniker: con i raggi solari ancora alti, filtrati solo da qualche nube carica d’acqua e pertanto poco rassicurante, il posizionamento sotto il Main Stage mi risulta piuttosto stucchevole. Onestamente dovrei aspettarmi uno spettacolo sontuoso, come da prassi per chi viene ospitato sul palco più importante del fest, ma vengo immediatamente disilluso dalla coreografia montata nel mentre dell’esibizione dei Knorkator sul contiguo Pain Stage, limitata allo squallido telone che utilizzarono 2 anni fa in occasione del tour di Tragic Idol. Che Holmes e soci siano esteticamente “dimessi” è risaputo, nonostante nelle recenti comparizioni pubblicitarie e nelle grafiche ufficiali del nuovo The Plague Within essi si siano mostrati con un foggia decisamente rafforzata e granitica, quasi ad emulare lo standing dei primi anni ’90 che li vedeva ancora “belli e forti”. Non resta dunque che sperare in una prestazione appagante almeno dal punto di vista musicale.
Ma il problema dello show è proprio questo.
Fin dalla partenza gli inglesi non si dimostrano all’altezza della propria fama discografica, degna di nota anche nell’ultima, recente release. L’apertura con The Enemy, successivamente bissata con la proposta del nuovo singolo No Hope In Sight tradiscono un feeling con lo stage piuttosto loffio, sia dal lato canoro, con un Holmes davvero poco ispirato e spesso in difficoltà con l’intonazione del clean, sia dal lato strumentale, sporcatissimo da una performance approssimativa in fase solista del leader di sempre Greg Mackintosh. A salvare capra e cavoli una sezione ritmica compatta e coesa, con batteria, basso e chitarra d’accompagno che sostengono a più non posso i 2 decadenti “capitani”, la cui assenza artistica rende tuttavia impossibile un giudizio al di sopra della sufficienza.
La progressione della setlist è centrata, con molti classici in ostensione (da Gothic a As I Die) recuperati grazie alla rinnovata sintonia con il growl di Nick, ma nonostante ciò il pubblico sembra indispettito sia dal risultato globale, sia dalla freddezza di suoni, colori, movenze dello spettacolo. Non nascondo che in tanti anni di militanza mi trovo di fronte ad uno dei peggiori momenti passati con i Paradise Lost: anche il tipico umorismo d’oltremanica di Holmes risulta in questa occasione alquanto nauseante, sia quando dopo un rantolo/growl conclusivo si riferisce alla militanza nei Bloodbath, sia quando introducendo Terminal espone l’insulsa formula “il prossimo pezzo non parla di un aeroporto”. No comment.
In queste condizioni anche le belle Hallowed Land, Faith Divide Us - Death Unite Us, One Second e Say Just Words mi sembrano scipite e prive di mordente. Lo show si trascina quindi stanco, mano a mano che il tardo pomeriggio avvolge l’area concerti del Summer Breeze. Gli sguardi dei presenti sono attoniti e per nulla soddisfatti, come anche la mia attesa non può di certo considerarsi ripagata.
Sempre migliori su disco, sempre peggio in versione live, questa è la triste sentenza con cui mi tocca battezzare i Paradise Lost di questo agosto 2015. Resto naturalmente in attesa di essere smentito attraverso il prossimo tour europeo che li vedrà impegnati in autunno e che vorrò di certo seguire in almeno un paio di occasioni. Per ora potete però considerarmi un fan deluso!

Stanchi!

CANNIBAL CORPSE
Al termine dello spettacolo dei Paradise Lost ho giusto il tempo di riposizionarmi sul lato destro dell’arena centrale per assistere alla performance dei Cannibal Corpse i quali, con la tipica precisione dei fest tedeschi, non ritardano di un solo minuto.
Le teste roteanti che assistono a questo live sono molte, nonostante contemporaneamente vi siano in corso d’opera anche i Belphegor (sul T-Stage, a cui peraltro avrei partecipato molto volentieri), a dimostrazione di quanto gli americani siano ancora “sul pezzo”.
Diciamocelo: la pulizia dei suoni non è delle migliori, come anche il bilanciamento complessivo totalmente a favore del cantato di Fisher, e la precisione complessiva della band ne risente un pochino, con alcuni passaggi un po’ troppo torbidi e disallineati; la presenza sul palco risulta essenzialmente primitiva, con il solo Corpsegrinder a turbinare senza soluzione di continuità il pacchetto collo/testa/capelli ed i rimanenti membri inchiodati nelle rispettive posizioni a remare duro, che più duro non si può; il gioco luci praticamente inesistente, causa anche il giorno in fase calante, per non parlare della scenografia, limitata all’osso da un telone riportante lo storico logo su sfondo nero.
Ora che abbiamo snocciolato il lato realista di tale situazione, possiamo anche ricordare (o ricordarci) che ad un fan dei Cannibal Corpse di tutto ciò non interessa: il drumming di Mazurkiewicz è martellante? Si! L’ugola di George rasenta la peggior depravazione canora? Si! Il risultato di tutta questa bolgia permette di pogare sottopalco a più non posso? Si! I Cannibal suonano I Cum Blood? Si!

Tritaossa!

DARK TRANQUILLITY
L’ora abbondante dedicata ai Dark Tranquillity si avvicina con lo spauracchio della pioggia, che difatti nei primi minuti dello show bagna la testa (e allunga le birre) dei tanti presenti. Anche in questo caso l’originalità degli organizzatori dell’Open Air tedesco si dimostra pressoché nulla, richiamando per l’ennesima volta, negli slot che contano, uno dei gruppi più influenti a livello di death melodico (chiamarlo swedish death non mi piace proprio). Va detto che a dispetto della longeva partecipazione sui palchi di tutto il mondo gli scandinavi si presentano energici e vogliosi di cartacarbonare gli ottimi concerti di cui si resero già protagonisti nelle edizioni precedenti.
Purtroppo però la decisione “fisica” dei nostri non è inizialmente supportata dai suoni che per i primi 3 brani risultano tanto confusionari da indurmi perfino qualche dubbio sulla setlist. Mi perdo così l’incipit della performance che avrei invece gradito godermi attraverso un setting quantomeno decente (The Science Of Noise, White Noise/Black Silence, The Silence In Between). Al termine di questo terzetto provo a spostarmi per cercare una triangolazione differente e, complice anche l’azione dei tecnici, la situazione migliora senza però donare al sound la giusta (e agognata) penetrazione. La voce di Stanne, che peraltro fatica oltremodo quando tocca linee pulite (Therein ne è un impacciato esempio), è spesso sopraffatta dal “piattume” della jam, peggiorata dall’avere finalmente introdotto un bassista i cui volumi, assieme a quelli della batteria e delle keyboards, risultano troppo abbondanti a discapito della melodia intarsiata dalle asce di Sundin e Henriksson. In questa condizione mi è difficile seguire con trasporto il progress dei vari brani, che i Tranquillity scelgono chirurgicamente (e intelligentemente) dalle varie release della loro discografia. Stanne e soci non concedono la mitica Punish My Heaven, così come continuano a dimostrarsi stitici quando trattasi di “pescare” dal capolavoro Skydancer (anche se a Romagnano Sesia, nel tour a supporto di Construct, si esibirono con la spettacolare A Bolt Of Blazing Gold), tuttavia regalano Lethe, Misery’s Crown, Final Resistence, The Mundane And The Magic, Therein, oltre che una corpulenta compagine dall’ultima release, a mio avviso tra le migliori degli ultimi anni (oltre alle iniziali già citate, anche State of Trust e Endtime Hearts).
Dal lato scenografico vi è un solo, grande mattatore: Mikael Stanne. È lui ad attirare su di sé gli sguardi del pubblico, a volte sviati dalla “solita” proiezione alle sue spalle. Luci e colori sono quelli delle esibizioni degli ultimi anni, ossia giocate sugli scuri e sui blu/rossi che donano una certa vitalità al gruppo. Stupisce una dedica del frontman a George “Corpsegrinder” Fisher dei Cannibal Corpse, ma il resto della performance è, come di consueto, impostata su sorrisi sornioni e sulla ricerca del feeling con il suo pubblico, che lo osanna e lo sostiene anche in questa non perfetta serata. Diciamocelo, Mikael è un gran piacione!
Strumentalmente i Dark Tranquillity si muovono con la certezza di avere dalla propria musicisti che interpretano con discreta facilità le partiture. Il nuovo bassista si muove sulle linee tradizionali dell’accompagno, senza dunque rubare spazio alle chitarre che, seppur mutilate dal sound, restano le grandi protagoniste dell’ensemble. Stesso discorso per la tastiera di Brandstrom che, volume a parte, non ruba mai la scena ai colleghi cordofoni.
In definitiva debbo riconoscere agli svedesi un’ottima capacità nel mantenere salde le qualità dei propri show che, con il tempo, si arricchiscono sempre di brani interessanti provenienti dalle nuove uscite; probabilmente non basterebbero due ore per snocciolare tutti i successi di questa grandissima band, tuttavia posso ritenermi soddisfatto di questi ulteriori settanta minuti passati con i nostri.

Comprovati!

NIGHTWISH
Headliner indiscussi dell’ultima serata, i finlandesi capitanati da Tuomas Holopainen riescono nell’impresa di radunare il più vasto pubblico che si sia osservato in questi giorni di Summer Breeze davanti al Main Stage.
Lo spettacolo si apre sulle note del tema Roll Tide di Allarme Rosso di Hans Zimmer, in un crescendo di epicità incalzato dall’uso degli ottoni: la scenografia allestita per l’occasione è mastodontica, tra banner, teloni e vere e proprie installazioni sul palco. I cinque appaiono on stage sulle note di Shudder Before the Beautiful, scegliendo di esordire proprio con l’ultimo e discusso Endless Forms Most Beautiful, che troverà ampio spazio nel corso della serata (Élan, My Walden, Weak Fantasy,). Se su disco la colpa maggiore che si può fare alla band è la spiccata tendenza all’autocitazione, va detto che i brani più recenti si prestano appieno alla riproposizione dal vivo, in cui i toni dell’orchestra vengono esasperati (pur senza andare a coprire gli altri strumenti nel bilancio globale) e le coreografie si fanno più impegnative: tra fuochi d’artificio, fiammate e getti di vapore la musica dei finlandesi trova la propria dimensione naturale. Magnificente, sognante, questa l’atmosfera che si respira ed i giochi di luce e fuochi non fanno che amplificare la sensazione di trovarsi a Disneyland, con Holopainen a dirigere quell’enorme parco giochi di fronte al Main Stage, fatto di coreografie e spettacolari immagini.
Con Yours is an Empty Hope i toni si fanno più cupi, le linee vocali scabrose e la presenza di Floor Jansen a tratti inquietante: è incredibile come l’olandese sia capace di tenere il palco, assumendo toni placidi in corrispondenza di linee vocali più leggere e movenze più aggressive quando le vocals si fanno più ruggenti; il tutto accompagnato puntualmente dall’headbanging nelle sezioni strumentali. Oltre a questo, una grande tenuta di palco emerge nei passaggi tra un brano e l’altro, quando la valchiria riesce ad entrare in contatto con il pubblico e a scambiare qualche parola coi presenti.
Va confermato come, oltre all’abilità nel saper riproporre i brani dell’era di Tarja (ma senza risultare a tutti i costi operistica) qui tributata con She is my Sin, Ghost Love Score e Stargazers la Jansen sia anche molto abile nel rendere piacevoli i pezzi scritti con Anette al microfono, dotandoli di personalità e di un piglio che alla svedese non riusciva. A riprova di ciò, quando arriva il turno di Storytime la domanda sorge spontanea: ci sarà quell’assolo vocale al termine, che tanto aveva fatto scalpore nel video con Floor lo scorso anno? La risposta è affermativa e, nel caso ci fossero dubbi, la prestazione dell’olandese è veramente da pelle d’oca.
Dopo aver richiamato la classica Last Ride of the Day, i nostri lasciano che lo spettacolo si concluda con le ultime due sezioni -strumentali- di The Greatest Show on Earth, concludendo così una performance che sale di diritto nell’Olimpo delle migliori di questo festival.
Da non ascoltatore della band da circa un decennio, a fatica potrei nascondere la sorpresa e la meraviglia che questa esibizione ha saputo destare in me.

Spettacolari!

INQUISITION
Ciò che si fa immediatamente notare incrociando gli Inquisition sul palco è la contraddizione tra ciò che si vede e ciò che si sente. L’impatto della musica degli americani (al 50% “sud-americani” dato che Dagon è di origine colombiana) è difatti assolutamente sproporzionato se si pensa che la band è composta da solo due membri e che l’insieme chitarra, batteria e voce non è supportato nell’occasione da altri strumenti a clic, salvo qualche ambientazione elettronica tra un brano e l’altro. Per rendere possibile una simile pienezza di suoni sono ovviamente necessari alcuni espedienti tecnici: il lavoro di Incubus dietro alle pelli è molto articolato e riempitivo, soprattutto con le pelli gravi, in modo da sopperire in sede live alla mancanza di tonalità basse; il cantato è abbondante, così da non svuotare troppo l’insieme; la chitarra suona molto diluita grazie al posizionamento sui temi alti e l’utilizzo di tritoni con una frequenza di pennate molto alta: solo di rado, volendo scardinare il monolite sonoro, Dagon apre a mid tempos marziali scanditi dai rintocchi del rullante del compagno d’armi.
Il risultato è davvero esaltante poiché lo spettacolo è glaciale e sulfureo allo stesso tempo, nella migliore tradizione trve black (i nostri sono attivi dal lontano 1996 e hanno all’attivo sei platter). Per completare l’opera non mancano il face painting, una quantità industriale di ghiaccio secco che amplifica i flash sincronizzati con le casse e il posizionamento agli estremi del set di due microfoni voce, in modo da consentire a Dagon di navigare (spesso con sembianze aracnoidi alla Abbath) da un lato all’altro del palco: in tal modo egli riesce rendere dinamica la sua azione supportando, anche visivamente, il muro eccelsamente eretto con gli strumenti.
In definitiva una delle migliori performance di questi quattro giorni. Pubblico (numeroso nonostante sul Main Stage siano in opera i Nightwish) che apprezza e osanna, giustamente, un’ottima proposta live.

Spaventosi!

TROLDHAUGEN
Lo ammetto: la curiosità di mettere alla prova dal vivo il folle circo australiano chiamato Troldhaugen era fortissima, tanto per l’incredibile alternanza di stili e influenze presenti nell’ultimo capolavoro https://www.metallized.it/recensione.php?id=10985">Obzkure Anekdotez for Maniakal Massez, quanto per mettere alla prova le potenzialità in sede live del quartetto. La domanda che per diverso tempo mi è frullata in testa è: Saranno in grado di rendere la geniale follia presente su disco anche dal vivo?. E dopo soli trenta minuti in compagnia di Reventusk e soci la risposta è: sì!
I nostri esordiscono alla grande presentandosi on stage in outfit hawaiano, con tanto di collane di fiori finte, strappando subito una prima risata al pubblico quando il singer Reventusk capitombola giù dal palco del Camel Stage, per fortuna senza riportare danni. Il tempo di risalire on stage ed il frontman dimostra tutta la propria attitudine allo spettacolo, mettendo in scena innumerevoli buffi siparietti mentre canta, correndo su e giù per tutto il palco, utilizzando una spettacolare gestualità nell’interpretare i brani, che bene si abbina alla varietà vocale utilizzata in essi. Si passa da rincorse tra i vari musicisti a salti e piroette, balli e prese in giro (il break di Hunting Tactics for Mythical Creatures canzona non troppo velatamente gli Equilibrium), il tutto senza che l’esecuzione ne risenta per un solo istante. Il complesso lavoro si synth e orchestrazioni utilizzato su disco viene qui riproposto in base, senza sbavature nonostante spesso i ritmi si facciano intricati ed i cambi repentini. Da bravi acrobati, i Nostri ripropongono quasi tutta l’ultima fatica passando per la psychobilly Lefty’s Wild Ride, l’ispanica Dia del Chupacabra, la zompante Viva Loa Vegas. Lo spettacolo si fa sempre più divertente ed un gran numero di passanti di ritorno dallo show dei Nightwish decide di fermarsi e dare una possibilità agli aussies, che riescono a fine spettacolo a radunare un discreto numero di partecipanti.
Lo show termina in modo beffardo dopo che alla band viene segnalato che c’è ancora il tempo per un altro brano: i Troldhaugen attaccano con The Good, the Bad and the Gristle e dopo poco più di un minuto le luci e la corrente vengono staccati per aver sforato. Niente paura: con un sorriso ed il tipico gesto di ok i quattro scattano una foto al buio insieme al pubblico e ringraziano ancora i presenti per il sostegno.

Cartooneschi e funambolici!

GHOST BRIGADE
Ai finlandesi toccano le ultime battute del festival, seguiti -ahimè- da degli impraticabili (per questioni di orario) Dark Fortress. L’attesa per la band è notevole: se paragonata all’audience presente https://www.metallized.it/articolo.php?id=1562 "> all’esibizione di qualche anno fa sullo stesso palco del T-Stage la partecipazione dei presenti è decisamente in aumento, segno che la fama dei cantori della malinconia continua ad accrescere e che la direzioni intrapresa da un paio di album a questa parte (in cui la vena depressive degli esordi si fonde con sonorità figlie del doom/death melodico, in un vigoroso amalgama) sembra essere vincente. Si comincia con Wretched Blues, che dà presto modo di verificare come il sound del sestetto sembri aver trovato un perfetto equilibrio tra la componente fangosa (enfatizzata soprattutto da una sezione ritmica in grande spolvero) e quella melodica/atmosferica, per cui i synth di Joni Vanhanen rivestono un ruolo fondamentale: delicati e minimali, ma posizionati con estrema cura nel mixing, fanno sì che i brani siano avvolti da una sottile ed eterea caligine. Il ruolo della voce di Manne Ikonen è ambivalente, tanto capace di fare la differenza nei passaggi possenti con un growl leonino, quanto di sprigionare calore quando i ritmi si fanno meno serrati, con un pulito assolutamente convincente (doppiato da Vanhanen, come in Aurora) ed in continuo miglioramento.
La setlist pesca quasi esclusivamente dalle ultime due fatiche, riproponendo la sola Into the Blacklight dai primi lavori, ma scegliendo una selezione di brani in grado di rappresentare alla perfezione il connubio di melma e nebbia dei Ghost Brigade: l’energica Stones and Pillars, la doomy Breakwater, l’ipnotica Electra’s Complex, la graffiante Clawmaster sono prova di una band compattissima ed implacabile dal vivo. I groove di Veli-Matti Suihkonen alle pelli si sommano alla distorsione del basso di Joni Saalamo innalzando un muro su cui le chitarre si spostano da linee arpeggiate a ritmiche taglienti, cambiando gli umori del pezzo con la stessa velocità con cui si muovono le nuvole sul mare. Il pubblico passa dal muovere la testa a fissare mesmerizzato il sestetto che ripropone la propria cangiante proposta, ondeggiando mentre si lascia trasportare dalle lunghe composizioni.
Analogamente allo show di tre anni fa, l’esibizione della brigata fantasma si chiude con l’ultimo brano della recente fatica, in questo caso One With The Storm, Elämä On Tulta, traccia dalle lunghe cavalcate strumentali in cui la band può riversare gran parte delle energie rimaste e mostrare quanta passione si celi nei propri brani. Da vedere.

Ipnotici

CONCLUSIONI
Di questa edizione del Summer Breeze non posso dirmi totalmente soddisfatto. Sinteticamente le motivazioni di questo mio giudizio:
1) L’organizzazione continua a ignorare band di primissimo livello, preferendo interlocutori meno costosi. Ciò permette al conto economico di avere un break-even point più basso e dunque di potersi permettere meno affluenza per realizzare i profitti desiderati, ma d’altro canto non attira più di quello zoccolo duro che oramai da moltissimi anni mette piede nel perimetro di tale open air.
2) Nel bill sono stati inclusi pochissimi act “in divenire” ed altrettanti pochi gruppi con aspirazioni avanguardistiche (nel senso etimologico della parola). Si è altresì preferito, ancora una volta, andare sul sicuro con band viste e straviste che in qualche caso si sono anche dimostrate “bollite” più del consentito. Ok che i Sepultura, i Cannibal, i Lost, i Cradle, i Saltatio, i Tranquillity, gli Hatebreed, i Nightwish, etc… sono la storia del nostro genere, ma…BASTA! Li abbiamo masticati con tutte le salse possibili ed immaginabili!
3) L’estremo è stato un bel po’ trascurato, anche in orari e slot di secondo tiro (poco black, zero doom, una porzione più cospicua di death e brutal che comunque non può soddisfare gli appassionati del genere).
4) Il running order è stato in molte occasioni sbagliato: gli organizzatori hanno infatti generato incomprensibili sovrapposizioni (come i Death sotto gli Amorphis, i Belphegor>sotto i Cannibal Corpse, i Carnifex sotto gli Opeth, etc…) e hanno concentrato concerti di spicco in un unico giorno (il filotto del sabato sui 2 palchi principali è stato molto difficile da seguire) quando al venerdì pomeriggio per ore c’è stato poco nulla di realmente interessante.
5) L’area dedicata al merch ufficiale delle band ha accolto prodotti poco appetibili.
6) L’area dedicata al merch ufficiale del Summer Breeze, al contrario, pur avendo un menù ricco è rimasta totalmente impraticabile per quasi tutta la durata del fest a causa delle interminabili code (non sarebbe stato meglio generare 2/3 stand più piccoli invece di un unico gigante shop?)
7) Il Pain Stage mostra, oramai da anni, evidenti problemi di setting che hanno nuovamente rovinato esibizioni importanti (su tutte quella dei Dark Tranquillity). Cosa si attende per doppiare un bel palco come il Main? Anche per posizionare ad una certa altezza (e dunque visibilità) band con le “stellette” di headliners…
D’altro canto metto tra i plus del fest la solita, splendida, accoglienza del pubblico e dei tedeschi in generale, le distanze assolutamente ragionevoli tra un palco e un altro, che permettono vasche rapide ed indolori, e l’accoglienza per l’area stampa, spaziosa, comoda e ben attrezzata, anche in fatto di igiene e pulizia. Nonostante l’importanza “cardinale” dell’evento ho notato che transitando nelle varie edizioni è possibile intravedere facce conosciute e situazioni note: ciò aumenta l’intimità di questi quattro giorni e ne nasconde parte delle inefficienze.
In buona sostanza gradirei solo che ci si rinfrescasse un po’, abbandonando la ricetta comoda ma un po’ “sbrodolata” degli ultimi anni. Le preview 2016 sembrano confermare l’atteggiamento da me non condiviso (i primi confermati sono Sabaton, Korpiklaani, Exodus, Subway To Sally), ma è ancora troppo presto per sentenziare.
Lascio pertanto la parola ai vari aggiornamenti invernali, senza escludere un’altra partecipazione all’evento! Arrivederci o addio, Summer Breeze, dipende da te.

CREDITS: introduzione e report di Be’lakor, Rectal Smegma, Nightwish, Ghost Brigade, Troldhaugen, a cura di Giovanni Perin “GioMasteR”, report di Cannibal Corpse, Inquisition,Dark Tranquillity e Lantlos a cura di Massimiliano Giaresti “Giasse”.
Tutte le foto a cura di
Vincenzo Maria Cappelleri “Viç”, eccetto quelle di
Cannibal Corpse, Inquisition,Paradise Lost e Dark Tranquillity a cura di Cristina Mazzero.



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