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SUMMER BREEZE - Day 2 - Dinkelsbühl, Germania, 14/08/2015
04/09/2015 (2146 letture)
INTRODUZIONE: VIVERE IL CLIMA
Se c’è un punto su cui puntualmente tutto il popolo metallaro si trova costantemente d’accordo è la lamentela per le condizioni climatiche degli open-air: il gran numero di persone che popola questi eventi finisce inevitabilmente per rendere invivibile qualsiasi tipo di suolo dopo averlo calpestato migliaia di volta, con vari risultati. Se fa caldo, la quasi totale assenza di ripari all’ombra (salvo un tattico gazebo, se vi siete attrezzati per il campo) rende indispensabile portarsi un copricapo: ecco allora spuntare cappelli a tesa larga, sombreri, elmetti, cuffie di lattice e gli immancabili preservativi, in una gara a chi si mette in testa l’oggetto più strano, quando non in più disgustoso. Il terreno ben presto si secca e l’erba muore dopo gli interminabili calpestii, cominciando a diffondere nell’aria polvere e quella fragranza di fieno tipica dei campi, rasentando il livello malefico di un pulviscolo che causa sfilze di starnuti e bruciore di occhi. Munirsi di occhiali da sole e fazzoletto da posizionare davanti al naso può essere una buona idea; se si è di carnagione chiara, anche la crema solare può fare la differenza dopo più di mezza giornata esposti alla calura.
Dopo i primi due giorni vissuti in tale clima, il venerdì il cielo di Dinkelsbuhl è solcato da minacciose nubi, che nel corso del pomeriggio cominciano ad addensarsi sempre più sopra alla zona palchi, tanto che la stessa organizzazione decide di diramare un comunicato di allerta meteo, arrivando infine a sospendere momentaneamente il festival proprio prima dell’esibizione dei Sepultura ed invitando tutti ad evacuare ordinatamente la zona dei palchi e a raggiungere un proprio riparo in zona campeggio. Il vento arriva fino a 30 km/h e, immancabilmente, mette alla prova gli abusi edilizi dei più disattenti: tra gazebo sradicati e tende che oscillano come fisarmoniche, diversi campeggiatori ritrovano i propri giacigli sottosopra, quando l’aria non si insacca nelle Quechua, facendole volare a diversi metri di distanza. Arriva poi la pioggia battente trascinata da un vento ululante, ma niente paura: i palchi e gli impianti del festival sono già stati messi in sicurezza, giusto il tempo di lasciare che la perturbazione si scarichi ed il festival è pronto per ricominciare, anche se il combo brasiliano soffrirà di un pubblico decimato che ancora non si fida del tutto a lasciare le proprie tende.
È quindi il turno del fango, micidiale nemico di ogni evento di questo tipo: essere muniti di un buono scarpone ed una giacca (le temperature possono scendere tranquillamente dai 25-30 °C fino ai 10-12°C dopo un temporale) diventa provvidenziale per godersi il resto del festival senza ridursi in condizioni pietose.
Un plauso va fatto all’organizzazione del Summer Breeze, capace di gestire un forte rovescio (nei comunicati si parlava di Sturm) in modo efficiente e limitando al minimo i disagi: nessun concerto è stato annullato, tutte le esibizioni sono semplicemente slittate di un’ora rispetto all’iniziale running order. Fosse andata così anche all’Evolution 2008…

LANTLOS
Seguiti dal sottoscritto principalmente nella prima fase della propria carriera, quando il moniker si era legato al nome altisonante e (all’epoca) avanguardistico di Neige, i Lantlos sono impegnati nel primissimo pomeriggio (l’alba per chi frequenta questo tipo di eventi) sul roboante, poiché alternativo, T Stage. Per quanto si risenta ancora di una certa freddezza di pubblico, impianto, situazione, la prova dei tedeschi stenta a decollare per cause artistiche e non contingenti al momento. I nostri propongono difatti un postrock/shoegaze convenzionale e poco ricercato, che si distanzia notevolmente dal sound del platter d’esordio, in cui le derive black sono ancora ben ravvisabili e dove le tinte noire delle melodie e quelle apocalittiche del cantato offrono all’ascoltatore un’alternativa a quanto proposto dai titoli contemporanei del nascente movimento. Oggi tutto ciò è scomparso per far posto ad una visione artistica più commerciale e pertanto molto meno eccentrica ed innovativa: per rimanere ancorati ai gruppi cardine del genere, mi verrebbe da paragonare i Lantlos ascoltati ad una brutta copia dei primi Alcest piuttosto che a quanto essi stessi proposero all’avvio della propria storia.
Oltretutto l’immagine della band non incuriosisce ed anzi peggiora il feeling con il parterre: musicisti fermi, abbigliamento da passeggiata in periferia, un ciondolare perenne in concomitanza con le pennate delle chitarra; la noia con il passare dei brani non si placa e l’attenzione continua a “svirgolare” sui presenti, sulla spianata fuori dal tendone, sui punti di ristoro, sul mio bicchiere di birra. No, non ci siamo.

Inutili!

ENSIFERUM
Forti della recente pubblicazione di One Man Army, i finlandesi aprono il proprio show con l’intro March of War, che sfuma rapidamente nella furiosa Axe of Judgement ed incendia il pubblico con il suo riffing serratissimo. I suoni sono bene equilibrati e Petri Lindros dimostra come sempre un’ottima resa vocale anche in sede live, aiutato dai compagni d’asce Markus Toivonen e Sami Hinkka nei passaggi puliti. Janne Parviainen alle pelli è un chirurgo, feroce nelle mitragliate di doppia cassa, letale nei tupa-tupa. Le asce non hanno dei suoni troppo incisivi, ma riescono ad amalgamarsi con il basso ottenendo un suono selvatico, in cui Emmi Silvennoinen enfatizza la componente epica con le proprie tastiere.
La band è compatta e presente durante l’esecuzione, mostrando un’attitudine rodata e vincente nell’interazione col pubblico: il quintetto non intende far prigionieri e cerca di sfoderare le proprie carte migliori, giocando soprattutto su brani ariosi e dai cori facilmente cantabili (Treacherous Gods, Warrior without a War) tra cui non può mancare Burning Leaves:

Burning leaves
Turn to ash before my eyes
Crushed my dreams
Long gone
Burning leaves
Dead branches reach to the sky
The flame within me
Is gone


Dall’altra parte, la band spinge sui grandi classici (l’immancabile Lai Lai Hei, Ahti), col risultato di scegliere un set che in media preme meno sull’acceleratore o sugli episodi solisti (degno di nota il fraseggio di Lai Lai Hei) a privilegio dei grandi ritornelli e le melodie di facile presa (Twilight Tavern).
Il risultato sembra funzionare e il pubblico apprezza la prova dei propri beniamini, anche se è con brani come l’incalzante From Afar ed i suoi blast-beat a sottofondo solenne che dimostra la maggiore partecipazione: il connubio tra il pathos delle tastiere sinfoniche, le melodie di Toivonen e lo scream lacerante di Lindros ha esito fatale e conquista sempre l’audience.
L’ora in compagnia del quintetto scorre in fretta ed i nostri riservano per il finale la gaia Two of Spades con il suo intermezzo rockeggiante e gli echi quasi pop in alcuni passaggi, strappando più di qualche sorriso ai presenti.

Conviviali!

POWERWOLF
Veri protagonisti del secondo giorno, i saarlandesi capitanati da Attila Dorn hanno visto una partecipazione pressoché costante al Summer Breeze dal 2011 ad oggi, vedendo in contemporanea la propria fama accrescersi sempre di più. Merito di una proposta che funziona, regalando quel mix di heavy/power e divertente blasfemia, ma soprattutto di una cura maniacale degli show dal vivo, dimensione in cui la band riesce decisamente a dare il meglio di sé, grazie al frontman ed al folle tastierista Falk Maria Schlegel.
Le scenografie allestite per l’occasione sono magnificenti: un enorme fondale dipinto come le vetrate di una cattedrale, su cui campeggia ironicamente un lupo con le ali d’angelo, fuoco a volontà e la bellezza di due postazioni synht per Schlegel, libero così di correre da una stazione all’altra e andare ad incitare il pubblico nei momenti di pausa dal proprio strumento. Il resto della band, Attila a parte, è così libero di focalizzarsi appieno nell’esecuzione ed il risultato si fa vedere, con una formazione rodata e in grado di eseguire con grande perizia i propri brani. Unico neo, l’esordio del vocalist, che nei primi brani manca ripetutamente qualche nota, quasi come se non si fosse scaldato a sufficienza prima dell’esibizione.
Poco male, perché da Armata Strigoi, anche la resa vocale raggiunge il proprio massimo. Tra l’epica Sanctified with Dynamite e la quadrata Army of the Night, la neoclassica Resurrection by Erection e l’immancabile Kreutzfeuer, i nostri mostrano di saper allestire uno spettacolo memorabile, giocando anche sui brani più particolari come Werewolves of Armenia.
Negli intermezzi tra un’esecuzione e l’altra, Attila Dorn non manca di spendere due parole, rigorosamente in tedesco (anche se a più riprese si sentono i presenti canzonarlo per la sua pronuncia non proprio ortodossa), con il pubblico, prolungando a volte di parecchio i tempi morti nella setlist. D’altra parte il frontman non manca di chiedere devozione e silenzio al proprio pubblico mentre lo benedice con l’incenso o mentre beve da una coppa di sangue (prima di attaccare con la classica We Drink your Blood), sfidando Schlegel a dimostrare chi è il più bravo ad aizzare i presenti in una gara ad elezione per acclamazione o ancora chiedendo alla folla di ripetere i propri fraseggi fino a salire a vertiginosi acuti che rasentano il falsetto.
Nei settantacinque minuti a propria disposizione i Powerwolf riescono a mettere letteralmente a ferro e fuoco il palco, portando a casa uno show convincente ed estremamente divertente. I cinque non mancano di incendiare un’ultima volta il palco con la doomy Lupus Dei, in un solenne commiato tra gli ululati.

Liturgici

BLOODBATH
”Agli inglesi piace doppio” è quanto viene da pensare quando si scopre che anche Nick Holmes vuole seguire le orme di Dani Filth esibendosi sia con i Bloodbath che con i Paradise Lost. Il secondo giorno è il turno della superformazione autrice del recente Grand Morbid Funeral, un ensemble fatto di professionisti ampiamente rodati che nel tempo libero si dedica al death metal. L’esperienza del quintetto si fa sentire da subito, all’attacco di Let the Stillborn Come to Me: i suoni sono possenti e grassi, con il putrido basso di Renske che straborda di frequenze distorte e le asce di Blakkheim e Sodomizer ribassatissime, ma ricche di calore. I suoni si mantengono a livelli del disco, allontanandosi parecchio da quelli asettici di The Fathomless Mastery (che viene peraltro sfiorato di striscio con la sola Mock the Cross), il drumming di Axenrot è preciso e grezzo, come se non suonasse altro che death metal. La prova vocale di Holmes è perfettamente in linea con quanto proposto nell’ultima fatica: un timbro gonfio, a tratti quasi bolso, laringe scardinata e flusso d’aria fuori controllo, ad ottenere un growl marcescente, quasi come passasse in un tubo di carne corrotto, fermentato. I passaggi atmosferici, piccole chicche celate all’interno dei brani, sono la vera perla della prova di Nyström e soci: episodi in cui una vena melodica si annida nelle nebbie maligne, lasciandosi amplificare dall’incertezza.
Poche parole tra un brano e l’altro (salvo la battuta di Holmes “We’re Bloodbath from Sweden…and Yorkshire”, nulla da segnalare), formazione compatta e discreta presenza on stage, tutto lo show sembra focalizzarsi sulla resa sonora -impeccabile- dei pezzi; ecco allora ampio spazio per i grandi classici di Resurrection Through Carnage (Cry My Name, Like Fire, So you Die) e Nightmares Made Flesh (Eaten, Cancer of the Soul, Soul Evisceration) oltre a qualche episodio dall’ultimo album in studio naturalmente (Unite in Pain, Anne, Mental Abortion), ma anche anche un paio di chicche dagli EP: Breeding Death e Weak Aside.
Poco altro da aggiungere, i Bloodbath sono sinonimo di qualità e professionalità, anche se personalmente non riesco ancora a fugare del tutto qualche dubbio sulla scelta di Holmes.

Sanguigni!

TRIVIUM
Il quartetto americano non si è certo risparmiato per quest’occasione allestendo tutto il palco come per uno show promozionale del futuro Silence in the Snow (in uscita il prossimo ottobre): oltre ad una gigantesca scenografia con un palazzo orientale, due enormi teschi oni con gli occhi che fungono da fari sono stati eretti ai lati del palco, insieme ad un impianto di luci extra.
Si comincia con l’intro sinfonica Snøfall che prelude alla titletrack del nuovo lavoro album: un brano diretto e carico di groove, seppure appaia più studiato e meno immediato di altri vincenti episodi prodotti dalla band, vicino al suono di Vengeance Falls. La band gode di suoni impeccabili e sfodera una prestazione ineccepibile, con il batterista Mat Madiro sugli scudi che si muove senza esitazione tra le partiture ereditate da Travis Smith e Nick Augusto, carico di groove e brutale quando i passaggi si fanno più serrati.
Come di consueto, Heafy e Beaulieu si spartiscono non solo i doveri chitarristici, ma anche i compiti vocali, lasciando che il primo si occupi prevalentemente delle clean vocals (con Gregoletto di supporto nei cori) ed il secondo delle harsh, seppure in qualche occasione anche Matt Heafy si lanci in potenti urla. Il leader dei Trivium è un frontman carismatico e riesce ad entrare in sintonia col pubblico facilmente, tessendo più volte le lodi del pubblico e degli open air europei, in particolare dei fan tedeschi. Sorprende un poco quando l’americano rimpiange di non poter assistere all’esibizione dei Marduk di cui indossa una t-shirt a causa della sovrapposizione con il proprio show.
Come di consueto i quattro snocciolano una serie di classici pescati da tutta la discografia, chiedeno a più riprese al pubblico di saltare e dare sfogo alle proprie energie durante l’esecuzione: si va da Like Light to Flies all’anthemica (vero e proprio inno dei Trivium) We are the Fire, toccando Shogun con il trittico Down from the Sky / Into the Mouth of Hell we March / Throes of Perdition e non mancando di citare l’album del successo Ascendancy con Pull Harder on the Strings of your Martyr e A Gunshot to the Head of Trepidation.
I brani si susseguono senza sosta, con una band in gran forma tanto nelle ritmiche, quanto negli assoli (perfino Paolo Gregoletto ne esegue uno in Becoming the Dragon), mettendo un piedi uno spettacolo frutto di grande lavoro, ma al tempo stesso di grande passione, fatto che non manca di trasparire quando Matt Heafy ha occasione di fare due chiacchiere con il pubblico.
Gran finale con il classico In Waves per cui viene richiesto un ultimo sforzo ottenendo un gigantesco urlo corale di tutta l’audience di fronte al Main Stage.
Senza esitazione posiziono i Trivium tra i migliori act visti finora.

Fuoriclasse!

CRADLE OF FILTH
Dopo le perplessità sollevate dalla prova dei Devilment è turno di mettere nuovamente alla prova Mr. Filth, stavolta alle prese con la band madre, quei vampiri britannici che negli ultimi anni sembra abbiano spuntato i canini e messo su qualche chilo, adagiandosi e producendo una serie di lavori di qualità discutibile. Sorprendentemente, lo show si apre sulle note di At the Gates of Midian, cosa che lascia ben sperare in una setlist che dia spazio anche ai primi, spettacolari, dischi dei Cradle of Filth. L’attacco di Cthulhu Dawn, opener di Midian, non lascia dubbi: i Nostri hanno in serbo uno show speciale e non intendono focalizzarsi sul recente Hammer of the Witches (cosa che desta più di qualche perplessità, dato che sarebbe un’ottima occasione per promuoverlo), che nel corso dello show si limiteranno a lambire con la sola Right Wing of the Garden Tryptich. La band mostra subito di essere in ottima forma, con Martin Skaroupka in gran spolvero che martella implacabile il proprio drumkit e scandisce implacabile il tempo dei brani, in un’esecuzione ricca e mai limitata alle consuete ritmiche estreme. Le chitarre di Rich Shaw e Ashok macinano i riff con naturalità, senza far rimpiangere la mano di Paul Allender, coadiuvati dai suoni monolitici e volumi imponenti; mentre la tastiera arcuata di Lindsay Schoolcraft inserisce melodie gotiche.
L’unico punto debole del sestetto sembra essere la voce di Dani, visibilmente in difficoltà nelle incalzanti strofe dell’opener e spesso costretto ad utilizzare il registro medioso alternandolo a qualche urlo piazzato ad hoc. Solo dopo qualche brano il timbro sembra migliorare ed amalgamarsi meglio con la parte strumentale. Se a fronte di una band compatta e strumentalmente molto valida il leader appare in difficoltà con l’esecuzione, non si può dire che dal punto di vista scenico Dani Filth se la cavi molto meglio:salvo incitare la folla urlando di continuo ”Make some fucking noise!” e chiedendo di essere acclamato, il vampiro di Suffolk non riesce a fare molto di meglio. Il che, messo a confronto con una sfilza di musicisti visti in questi giorni che spendono anche solo poche parole di ringraziamento e dimostrano di essere felici di trovarsi a suonare ad un evento con così tanti ascoltatori, finisce per rendere i siparietti del frontman dei Cradle of Filth un fastidioso intermezzo tra un brano e l’altro di cui in molti farebbero volentieri a meno. Per fortuna, un paio di donne vampiro compaiono ad intervalli regolari sul palco e giocano con fuoco, sangue finto ed oggetti di ferro simili a ventagli (che, all’occorrenza, è possibile incendiare) creando scenette suggestive, come la caccia del vampiro.
La setlist propone una serie di grandi classici delle band, con brani tratti da The Principle of Evil Made Flesh (A Dream of Wolf in the Snow, Summer Dying Fast), Cruelty and the Beast (Cruelty Brought Thee Orchids) e Godspeed on the Devil’s Thunder (Honey and Sulphur) oltre a qualche classico più gotico come la titletrack di Nymphetamine , Her Ghost in the Fog e Born in a Burial Gown.
Il tempo a disposizione del sestetto si conclude con la classica From the Cradle to Enslave, suggello finale ad una scaletta che in molti non avrebbero esitato a definire perfetta.
Non c’è che dire: i Cradle of Filth a sorpresa sfoderano una setlist appetitosa ed una prestazione davvero sorprendente, segno che conoscono bene i propri punti di forza, anche in sede live. Se non fosse per le difficoltà vocali di Dani Filth e la sua odiosa attitudine on stage, non esiterei a definirla una delle migliori performance a cui ho assistito nel corso del Summer Breeze.

Controversi

CONCLUSIONI
Si giunge al termine del secondo giorno dopo aver attraversato la tempesta, ma con un clima tutto sommato rinfrescato e più vivibile e l’assenza del famigerato pulviscolo. Le band succedutesi sui palchi hanno dimostrato il proprio valore, seppure la fascia pomeridiana sia stata meno appetibile del solito, con poche alternative ai nomi che popolavano i palchi principali.

CREDITS: report di Ensiferum,Powerwolf,Cradle of Filth,Bloodbath e Trivium, a cura di Giovanni Perin “GioMasteR”, report di Lantlos a cura di Massimiliano Giaresti “Giasse”.
Tutte le foto a cura di
Vincenzo Maria Cappelleri “Viç”, eccetto quelle di
Lantlos, a cura di Cristina Mazzero.



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