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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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19/03/2022
( 1469 letture )
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In una delle interviste rilasciate ormai qualche tempo fa, il chitarrista Victor Griffin ebbe a rivelare il proprio disappunto per aver permesso, agli inizi degli anni Ottanta, che la sua band, i Death Row, cambiassero nome per ridare vita ai Pentagram dopo qualche anno dall’ingresso di Bobby Liebling in formazione. Il disappunto nasce dalla constatazione che se i Death Row erano a tutti gli effetti una band nella quale i membri si trovavano allo stesso livello, i Pentagram, al contrario, erano e sarebbero sempre stati la band di Liebling e di nessun altro. Un piccolo “errore” strategico, che si sarebbe rivelato fondamentale nel tempo, quando il cantante avrebbe dimostrato quanto il suo attaccamento al gruppo lo avrebbe portato ad assumere sempre più il ruolo di vero e proprio “dittatore”, decidendone destino e fortuna -o sfortuna- e non consentendo a nessun altro di mettere in dubbio il suo controllo decisionale. Se un “duro” dal carattere tutt’altro che facile come Griffin finirà infatti per entrare e uscire dal gruppo con una frequenza allarmante, destino ancora più instabile toccherà a tutti gli altri membri della band e perfino all’altro grande ex, il batterista Joe Hasselvander. Dopo l’uscita di Griffin negli anni Novanta, infatti, i Pentagram proseguiranno con i soli Liebling e Hasselvander, i quali, trovato un contratto con l’italiana Black Widow, daranno vita a un periodo di stabilità che porterà con sé la pubblicazione di due album da studio (Review Your Choices e Sub-Basement), un disco dal vivo (A Keg Full of Dynamite: di fatto, un bootleg ufficializzato da registrazioni del 1978/79) e una generale riscoperta della band, con la pubblicazione da parte della Relapse della raccolta First Daze Here, contenente materiale inedito delle session delle prime incarnazioni settantiane e un’altra raccolta, Turn to Stone, a opera della Peaceville. Ma il momento di stabilità era destinato a infrangersi contro l’indisponibilità di Liebling ad accettare il crescente peso di Hasselvander nelle decisioni relative alla band e al suo indirizzo artistico, che per molti stava andando decisamente troppo vicino a sonorità stoner, a causa della distorsione utilizzata dal batterista/polistrumentista. Tempo quindi di sancire la sua uscita dal gruppo e Liebling onora il contratto con la Black Widow reclutando in massa i tre membri degli Internal Void e pubblicando con loro il sesto album da studio, Show ‘em How: un titolo che è già una rivendicazione, seppure proveniente da un brano degli anni Settanta.
Con queste premesse, il disco sarà uno dei più controversi della pur burrascosa carriera della band americana. In sostanza, la nuova line up di quello che è uno dei big four del doom ottantiano (gli altri essendo Candlemass, Saint Vitus e Trouble) non aveva ancora avuto il tempo di stabilizzarsi e scrivere brani a sufficienza ed ecco quindi la necessità di andare nuovamente a pescare nel repertorio di inediti settantiani. Il nuovo album sarà infatti composto da sette brani provenienti dal cassetto di Liebling e tre composti invece per l’occasione assieme a Kelly Carmichael, talentuoso quanto se vogliamo sfortunato contraltare del cantante in questa avventura. All’epoca non furono in pochi a storcere la bocca: le due anime della band, quella storica e la nuova, tentano di convivere, ma inevitabilmente il peso delle vecchie composizioni sposta con forza il baricentro verso sonorità vintage. Il risultato, come contestato da molti, è il disco meno doom e più rock di quelli pubblicati fino a quel momento, con una forte impronta seventies che non può non emergere, facendo assomigliare molto il nuovo album alla raccolta First Daze Here, che conteneva in effetti due dei brani reinterpretati dal gruppo in Show ‘em How (gli altri andranno invece su First Daze Here Too, pubblicata nel 2006). Eppure, se si lasciano da parte le polemiche e si ascolta il disco, per quello che è, è davvero difficile non rendersi conto che si tratta di una delle migliori uscite in assoluto a nome Pentagram. Anzitutto, vengono accantonate le contestate sonorità stoner: la distorsione della chitarra torna a essere potente, sepolcrale, scura e polverosa; i tre ragazzi degli Internal Void sanno il fatto loro e suonano alla grande e Carmichael è un Signor chitarrista, calato al 100% al servizio della band. Liebling, da par suo, pur con tutti gli anni e gli eccessi che ne danneggiano la salute, resta un interprete fenomenale, fin troppo insostituibile per la musica da lui stesso composta e propone l’ennesima prestazione di livello assoluto, in una scaletta che non concede tregua, né alcuna flessione qualitativa. Sicuramente la vena più rock emerge dall’ascolto del disco, ma chi dice che questo sia un difetto non ha idea della potenza che un brano come Wheel of Fortune possa scatenare sull’ascoltatore. L’effetto è quello di un rullo compressore e la ribollente base ritmica offerta da Heinzmann e Smail, con la colata di watt incandescenti liberata da Carmichael costringono Liebling a tirar fuori il meglio del suo repertorio. Quanto a carica, Electra Glide, uno dei tre brani inediti, non teme confronti con nessuno e la sensazione di trovarsi di fronte a un nuovo classico è tutt’altro che fuori bersaglio. Il primo scontro tra stili arriva invece con Starlady: il brano, con i suoi chiaroscuri rimembranti il dark sound settantiano, suona indubbiamente datata; eppure, non è proprio possibile resisterle e si finisce per cadere presto vittime del suo fascino arcano, con l’ottima prova strumentale che conferma quanto la scelta dei tre partner fosse stata felice da parte del cantante, che ricrea la classica formazione a suo tempo composta da McAllister, Greg Mayne e Geof O’Keefe. Altro classico da paura, Catwalk cala un riff da settecento chili e delle spettacolari armonie vocali, con i consueti break svitacollo. Il secondo brano inedito, Prayer For an Exit Before the Dead End, è un tentativo palese di riprendere le sonorità di Starlady e aggiornarle con lo stile puramente doom inaugurato nella seconda fase del gruppo e il risultato è eccellente, con arpeggi inquietanti e spettrali che si alternano a riff potenti e Liebling che spadroneggia, per un brano drammatico e particolare, con un Carmichael incontenibile. Bellissima Goddess, piccolo capolavoro firmato dal cantante in solitaria, tra sonorità surf e doom settantiano, con un’atmosfera unica. Tre minuti di puro piacere auditivo, che aprono al terzo inedito, City Romance. Ennesimo grande brano di un disco poco compreso; basti in tal senso l’urlo ferino del singer a sublimare un crescendo irresistibile a descrivere il pathos evocato. La parte finale si inaugura con un clamoroso blues a titolo If the Winds Would Change, nel quale Liebling è assoluto protagonista, con quei riff inquietanti e sottilmente macabri assolutamente irresistibili e l’ennesima ottima prova solista di Carmichael, sottolineata dalle potenti rullate di Smail e dalle splendide punteggiature di Heinzmann. Ecco poi che la band serve due capolavori, uno dietro l’altro: Show ‘em How è semplicemente strepitosa, tensione a mille, atmosfera ossianica, ululati di chitarra, scontri di vuoti e pieni dinamici, finale incendiario; Last Days Here è semplicemente la ballad perfetta, affidata a una band che non sembra capace di proporre una ballad e che invece tira fuori un brano da pelle d’oca, con quel giro arpeggiato, la melodia sul quale Liebling si inerpica cercando una dolcezza che la sua voce non sembra conoscere e che non riesce a mascherare la bramosia e la perfidia e quegli obbligati da urlo, la sublimazione dell’assolo, il finale in un crescendo emozionante che vorresti durasse per sempre. Sembra un brano dei Blue Oyster Cult e invece sono i Pentagram.
Padre padrone, persona dal comportamento spesso disdicevole e costantemente al limite, eppure artista straordinario, compositore e cantante di livello assoluto, seppur senza possedere una voce particolarmente dotata né di estensione né di timbrica, Bobby Liebling è i Pentagram. Una condizione che loro malgrado tutti i musicisti transitati nella band hanno dovuto accettare, dopo gli eroici esordi settantiani, purtroppo mai baciati da un contratto discografico, per quanto prolifici e antesignani. La rottura -quasi- definitiva con la seconda incarnazione della band, con l’abbandono di Victor Griffin e poi la cacciata di Joe Hasselvander, viene superata ingaggiando tre grandi musicisti, provenienti da una piccola quanto valida band e dal recupero di parte di quell’enorme patrimonio di splendide canzoni che costituivano il tesoro nascosto del cantante. Un processo a dire il vero già iniziato nei dischi precedenti e che in Show ‘em How vede invertite le proporzioni rispetto alle nuove composizioni. Il risultato è un disco clamoroso, non si può aver paura di dirlo, a dispetto di quanti all’epoca storsero la bocca, composto di dieci brani uno più bello dell’altro. Purtroppo, anche questa incarnazione non sarà destinata a durare e, nonostante il profluvio di ringraziamenti per avergli di fatto salvato la vita scritto da Liebling nel booklet dell’album, i tre partner saranno di lì a breve congedati a causa dello stato di salute del cantante, che renderà impossibile proseguire un’attività live e in studio. Ennesimo splendido capitolo di una band enorme, Show ‘em How resta purtroppo l’unica testimonianza di una formazione ottima, che avrebbe meritato ben altra fortuna. A voi riscoprirne il valore.
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3
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Bel disco, ma inferiore ai precedenti secondo me. Voto un po' esagerato. Comunque i Pentagram non hanno mai sbagliato un colpo. A quando la recensione dell'ultimo? |
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2
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Non lo ascolto da una vita, ma ho un bel ricordo di questo album. 75 |
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1
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ma che te lo dico a fare, bellissime recensioni le tue Lizard. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Wheel of Fortune 2. Electra Glide 3. Starlady 4. Catwalk 5. Prayer For an Exit Before the Dead End 6. Goddess 7. City Romance 8. If the Winds Would Change 9. Show ‘em How 10. Last Days Here
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Line Up
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Bobby Liebling (Voce) Kelly Carmichael (Chitarra) Adam Heinzmann (Basso) Mike Smail (Batteria)
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