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07/02/25
LITTLE TIL AND THE GANGBUSTERS
CIRCOLO MAGNOLIA, VIA CIRCONVALLAZIONE IDROSCALO 41 SEGRATE (MI)
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Funeral - In Fields of Pestilent Grief
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02/03/2024
( 707 letture )
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Torniamo a parlare dei Funeral, una band talmente importante e fondamentale nel genere che dirlo sarebbe di un ridondante da far spavento, quindi, non rimane che addentrarci subito nell'analisi del disco in questione e riprendere da dove eravamo rimasti l'altra volta. Di Tragedies abbiamo già detto: un lavoro incredibile, ammantato di magia e che proprio per questo rimane incastonato in una dimensione artistica a sé stante, insieme alle altre innumerevoli pietre miliari degli anni Novanta. Discorso diverso per In Fields Of Pestilent Grief: pur rimanendo invariati gli stilemi di base e il genere di riferimento, era inevitabile che non potesse ripetersi l’unicità dell’atmosfera e del sound peculiare del precedente. Cosa è cambiato quindi principalmente? Innanzitutto, la formazione. Accennato dell’inserimento in formazione del tastierista Kjetil Ottersen , gli stravolgimenti di line up non si fermano qui, dal momento che Hanne Hukkelberg sostituisce Torii Snyen dietro al microfono e Idar Burheim subentra al posto di uno dei due chitarristi, Thomas Agnell. Rimane in pianta stabile nella formazione Anders Eek, oltre ai due mastermind che ancora non avevano lasciato questa terra. Un altro cambio da segnalare è quello di etichetta, dato che in questo caso i Funeral si avvalgono della nostra Nocturnal Music, che ormai non esiste più, ma che all’epoca aveva dato alle stampe anche lavori di band formidabili come Void of Silence e And Oceans, segno di un passato grandioso che purtroppo mai più tornerà.
Il background e tutto il percorso della band lo avevamo già delineato, ma se in Tragedies si era cercato di fare una recensione scevra da rigidi schemi data la peculiarità dell’album, temo che questa volta nessuno potrà salvarvi dal track by track e, se ci pensate, questo rende ancora più un episodio unico e senza aspetti negativi la release precedente. In Fields of Pestilence Grief non è da meno però, a dispetto del cambio di stile, molto più tendente al gothic si diceva, probabilmente dovuto all’ingresso del tastierista o, magari, al fatto che nei sette anni che intercorrono c’è stato uno stravolgimento di sonorità che dalla fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila aveva preso piede all’interno di alcuni sottogeneri, con molte compagini che avevano saltato il fosso e iniziato a cimentarsi in sperimentazioni elettroniche o ammorbidendo il sound, e i Funeral non sono sicuramente l’unica band norvegese in tal senso. Un cambiamento si ha anche nella tracklist, dal momento che nonostante il minutaggio sia leggermente inferiore al precedente, presenta il doppio delle tracce, compresi l’epilogo finale e l’intermezzo, dando una sforbiciata ai brani rispetto a quelle suite da dodici o quindici minuti che ci avevano deliziato in passato.
Tuttavia, questo non significa che la proposta dei nostri si sia fatta più leggerina, dal momento che basta sentire l’intro per capire di trovarci in una situazione profondamente drammatica. I vocalizzi della nuova entrata si ergono a fare da contraltare al mood tenebroso del brano, che si contraddistingue per questa epicità di fondo scaturita dal connubio messo in risalto dalle parti in causa e rincarata dai riff armonici con tanto di assolo sfoderato prima di una conclusione all’insegna di una batteria spietata. Truly a Suffering viene introdotta da riff più rocciosi, di matrice più riconducibile al doom vero e proprio, mentre in questo caso, più che mettere in scena il contrasto chiaro scuro simultaneamente, si opta per una scissione della composizione tra tema scandito da sezione ritmica e spazio riservato all’esibizione solista della voce, che guida il resto della band sorretta da un riff ossessivo e grattugiato di fondo. Le chitarre troveranno modo di dialogare in seguito, sia nella seconda parte del brano, ma soprattutto nella successiva The Repentant, dove le sei corde hanno un ruolo meno marginale e molto spesso tirano le fila del segmento compositivo, dall’inizio del brano fino all’assolo finale, passando per un break centrale affidato interamente a loro, concedendo ad Hanne Hukkelberg di rifiatare prima di sfoderare una prestazione maiuscola con gli acuti finali, accompagnati nuovamente da una coda di riff dinoccolati. Da menzionare in modo particolare il quarto episodio dell’album, ovvero The Stings I Carry, che saprà risaltare notevolmente all’interno del disco. Annunciata da una sviolinata alla quale fa seguito un corteo funereo quasi sinfonico, la canzone vede inserirsi nuovamente la commistione tra sezione strumentale e voce, rendendo la composizione molto più stratificata e movimentata, con una voce costretta a districarsi in modo agile tra i riff implacabili dei Loos e Burheim , delineando delle partiture per la linea vocale di notevole dinamicità. In seguito, si ha una breve pausa, con riff acustici ricamati in modo certosino e dal retrogusto medievaleggiante, quasi da clavicembalo verrebbe da dire, ma non meravigliatevi troppo, perché da qui in poi la batteria inizia a randellare che è un piacere, tirando bacchettate a destra e a manca, senza tralasciare quello che è uno degli assoli più belli dell’album, che passa in sordina tra un tripudio di pentatoniche. Dopo una traccia monumentale come questa, che da sola giustificherebbe l’ascolto dell’album, i nostri tentano di bissare il colpo con una titletrack di oltre otto minuti e qua non sto neanche a dire che più delle atmosfere disperate e sulfuree viene trasmesso un senso di desolazione di fondo facilmente tangibile. Di per sé, già dalla copertina con il cimitero, l’album sembra voler imprimere in musica un manifesto di quella che è la miseria della condizione umana, dominata dalla sofferenza e insignificante rispetto all’eternità; quantomeno, se la titletrack dovesse racchiudere il fulcro del messaggio, questo è quello che traspare maggiormente durante l’ascolto. In un certo senso, volendo azzardare una visione allegorica della questione, la voce che durante tutta la durata del brano cerca di rimanere a galla e non farsi sovrastare dall’oscurità della controparte strumentale, potrebbe trattarsi dell’esistenza umana, che cerca di sfuggire alla sofferenza e non farsi avvinghiare dalle spire della mortalità. Al di là di questi deliri da trattamento sanitario obbligatorio, la title track è veramente qualcosa di grandioso, piena di contrasti continui e cambiamenti repentini, con la voce che a volte cerca di stagliarsi sopra la sezione ritmica, mentre altre viene inevitabilmente sommersa dal riverbero catacombale. Giunge quindi il momento dell’intermezzo, lasciato interamente alle mani dell’altro nuovo entrato, con accordi di tastiera che danno all’album un alone malinconico. Se c’era un possibile barlume di speranza in questa vena malinconica, questa viene spazzata via dal rientro in pompa magna della band al gran completo, che irrompe con un riff luciferino, anche se l’andamento sonoro proseguirà con un ritmo meno sostenuto, mentre gli inserti di tastiera e i vocalizzi contribuiranno a dare al brano un aspetto rarefatto, quasi onirico, a confine tra i due mondi. Nel finale tornano a presentarsi i chitarroni con riff pesanti, sostenuti da qualche fill ben assestato di batteria. What Could Have Been è un altro degli episodi che vale la pena rimarcare e mettere in risalto, ed anche qui è la dinamicità a fare da padrone, con un che contribuisce a rendere nettamente più incisivo il brano, sostenuto da un riff portante dall’andamento marziale, sopra il quale possono ondeggiare le litanie della cantante. Breve ma intensa. Ci si appresta a vedere la conclusione della nostra permanenza nel cimitero con Vile Are the Pains: in quest’occasione i nostri si avvalgono di un coro ad introdurre la traccia, sottolineando la tragicità che permea attraverso l’ascolto. Anche qui, cambi di tempo come se niente fosse, con la differenza che qui è il growl a traghettarci nei meandri più oscuri delle catacombe, graffiando con la sua carica ferale finché non è l’intermezzo dell’organo ad avvertirci che siamo giunti nel cuore della tenebra, dove la sofferenza regna sovrana e raggiunge il suo culmine. Nel finale i riff sembrano disegnare lingue di fuoco mentre la voce gutturale ci ammonisce e annuncia la fine del nostro viaggio. L’epilogo ci consegna quattro minuti di solenne magnificenza, mostrandoci prima del nostro commiato quanto sia immensa l’eternità rispetto al passare delle nostre vite.
Se in Tragedies le pietre di paragone usati erano i Theatre of Tragedy, qui viene inevitabilmente più spontaneo il confronto con 3rd and the Mortal, My Dying Bride e, in misura molto minore, Paradise Lost, almeno per quanto concerne l’aspetto compositivo e limitandosi ai nomi grossi del genere. Questo è un album che aumenterà nettamente la divisione che si crea tra chi ha apprezzato la svolta intrapresa dalla band. Se avevate maldigerito la presenza della voce femminile nella release precedente qui vi sentirete allontanati ancora di più, essendo la sua predominanza ancora più accentuata. Specularmente, chi si era avvicinato alla band proprio grazie al cantato potrebbe gradire questo album anche rispetto al precedente e trovarlo il migliore della band. Altrettanto vale per la scelta di genere, essendo qui il doom non più l’elemento fondamentale, ma quello che ormai deve dividere il suo posto nella composizione insieme alla nuova infusione gothic, che progressivamente troverà sempre più spazio negli anni a venire, partendo proprio dal successivo From These Wounds. Ma lì, forse, parliamo addirittura di un’altra band.
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3
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Grande Album, ma anche in questo caso, secondo Me la Voce femminile troppo squillante, alla lunga molesta. |
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2
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Band autrice di dischi di gran livello,come questo. |
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1
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Quando dolore e malinconia erano davvero la forza propulsiva della musica e non un aspetto di facciata. Basti pensare al tragico epilogo di ben due membri della band negli anni successivi. Recensione che rende onore ad una pietra miliare del genere, album che non può essere dimenticato. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Yeld to Me 2. Truly a Suffering 3. The Repentant 4. The Stings I Carry 5. When Light Will Dawn 6. In Fields Of Pestilent Grief 7. Facing Failure 8. What Could Have Been 9. Vile Are the Pains 10. Epilogue
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Line Up
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Hanne Hukkelberg (Voce) Christian Loos (Chitarra) Idar Burheim (Chitarra) Kjetil Ottersen (Tastiera) Einar Ander Fredriksen (Basso) Anders Eek (Batteria)
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