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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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25/05/2018
( 2725 letture )
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Ricordo ancora la prima volta che ascoltai Hisingen Blues in cuffia durante il tragitto casa-università. Siti specializzati e webzine, estere e non solo, lo incensavano, lo lodavano e ad aumentare la loro visibilità c’era anche un contratto firmato con il colosso Nuclear Blast. Se la memoria non m’inganna, correva l’anno 2014 quando lo ascoltai per la prima volta, e il poco tempo a disposizione, anche per cocciutaggine, non avevo intenzione alcuna di dedicarlo a questo gruppetto di band (nord-)europee, e non, sempre più numeroso. Errori di gioventù, ai quali ho rimediato per tutti i quattro anni successivi facendo mea culpa giorno dopo giorno e, fortunatamente, è grazie (anche) a quel peso massimo dell’hard/blues rock del XXI secolo (Hisingen Blues) se sono tornato a riscoprire e ad approfondire accanitamente opere d’arte dell’epoca d’oro del rock, trascurate maldestramente in precedenza, insieme a tutto questo filone contemporaneo revivalista, un po’ anacronistico, di cui fanno parte gli svedesi Graveyard.
Letto questo paragrafo, ci si potrebbe aspettare lecitamente una recensione condita di opinioni personali, nettamente favorevoli alla band: nella pratica, una venerazione costante e sfrenatissima di ogni nota suonata e cantata e, di conseguenza, un elogio poco sincero e oggettivo. Sarà un piacere smentirvi, e lo dico a malincuore. Giusto per mettere un pizzico di pepe al tutto prima di addentrarci nella canonica descrizione dell’album, è giusto avvisare che questo Peace si materializza sotto forma del secondo scivolone consecutivo del combo svedese, non scandaloso, ma preoccupante sì. Gruppo che, dopo la pubblicazione del primo passo falso discografico (Innocence & Decadence), ha vissuto un breve scioglimento, durato dal settembre 2016 al gennaio 2017, causato principalmente da dissidi interni, e durante questa pausa ha visto l’abbandono dello storico batterista Axel Sjöberg, prontamente sostituito da Oskar Bergenheim. Perché? Dove si nascondono le ragioni di questo declino? In quale angolo remoto della fantasia dei quattro musicisti soggiacciono, queste ragioni di “regressione artistica”? Scagliare la propria ira contro l’etichetta è fin troppo facile, e lo dice un hater (dato che fa più chic…) incallito del “suono Nuclear Blast”, trademark apparentemente avanguardista, poiché tende a svuotare ogni singolo strumento suonato del proprio animo, consumando beceramente, alle volte, la propria natura in partenza. D’altro canto, se le discutibili scelte effettuate in fase di registrazione/mixaggio possono essere considerate un vulnus della label tedesca, la stessa affermazione non la si può rivolgere a scelte discografiche messe in campo in sede di produzione/pubblicazione in tempi più o meno recenti con band, salvifiche in alcuni casi. Limitandoci molto sinteticamente alle sole uscite dello scorso anno, spiccano alcuni monicker storici della scena metal, come Accept (praticamente rivitalizzati con Blood of the Nations), Amorphis (Queen of Time), Cradle of Filth (Cryptoriana – The Seductiveness of Decay), Enslaved (E), Pallbearer (Heartless), The Night Flight Orchestra (Amber Galactic, 2017), Paradise Lost (Medusa) e virando poi su formazioni più recenti e più simili nelle sonorità dei nostri Graveyard, troviamo Kadavar (Live in Antwerp, 2014, Rough Times, 2017), Blues Pills (Blues Pills) e gli enfants prodiges The Vintage Caravan. Questa, una minuscola parte del toccasana artistico apportato dalla label di Donzdorf a realtà storiche che si trovavano allora in una fase calante della propria carriera, a gruppi appena riunitisi e a formazioni che si trovano, diciamolo, a cavalcare, nel bene o nel male, un trend. Giusto o sbagliato? Non si sa, ma lo fanno dannatamente bene, e la passione non manca. Ora sarebbe la volta dell’elenco, ma ve lo risparmio, di act storici accasatisi recentemente sotto l’ala protettrice di Nuclear Blast (vedasi Catharsis…), o di alcuni che ne facevano già parte (quali Eonian…) e che hanno spaccato, squassato anzi, l’opinione del pubblico, e anche quella della critica di settore.
E ora Peace, un album inciso dopo uno scioglimento, con un batterista nuovo in formazione, ma con la stessa etichetta che contribuì, meritatamente, a renderli famosi in tutto il globo grazie all’ottima promozione, e tratto da non sottovalutare, che ha ridato loro piena fiducia. Il singolo Please Don’t presentava come unico tratto saliente l’acuto sul refrain di Joakim Nilson e il tappeto di hammond sottostante. Viene poi il turno del secondo singolo, The Fox: dal titolo si poteva sperare in una qualche riproposizione/rivisitazione della celebre Johnny the Fox Meets Jimmy the Weed (Johnny the Fox), un funky danzereccio accelerato, invece si tratta sostanzialmente di un rock breve, anthemico, à la Creedence Clearwater Revival, costruito su un giro di bending d’altri tempi. Accettabile rispetto a ciò che verrà, e non ci riferiamo all’opener It Ain’t Over Yet, brano aggressivo, senza fronzoli, ma dotato di un main riff pacchiano. Pacchianità peraltro ravvisabile in più di un’occasione nella prima metà, segnata da The Fox, appunto. L’hendrixiana Cold Love, un brano tutt’altro che trascinante e incastrato fra due muri di bending posti in apertura e chiusura, precede la floydiana See the Day, uno degli episodi più riusciti del platter, ma anche il più inconcludente. Chitarre liquide, atmosfere rarefatte e poche note suonate fanno da ponte ai due singoli, puntellati da Walk On, dai suoi bending acidi e dal bridge centrale in cui si rende protagonista la sezione ritmica costituita dall’asse Mörck / Bergenheim, spesso in secondo piano. Ed è proprio verso la conclusione dell’album che si scorge la luce in fondo al tunnel, con la ballata Del Manic, impreziosita da cori d’effetto e da un giro di chitarra cupo e bluesy, con Bird of Paradise, altro tributo hendrixiano radio-friendly marchiato a fuoco da bending passionali e riuscitissimi (candidato a momento più alto dell’opera?) e con Low (I Wouldn’t Mind), la versione muscolosa di Ain’t No Change dei “cugini” Blues Pills, in cui tutto ha il sapore di una jammata sessantiana: cambi di tempo (e umore), e colate di fuzz predominano in questo brano.
Non un disco da bocciare, ma un disco che dovrebbe far porre ben più di un punto di domanda agli ascoltatori, ai Graveyard e alla Nuclear Blast stessa, non solo sullo stato di salute della band, ma anche su quello del sottogenere tutto. Se si sposta la lancetta del tempo a Lights Out, è possibile notare oggi, 2018, una formazione in decadenza, ma vista l’indipendenza artistica quasi certa avuta dai nostri in fase di scrittura, non si può rendere l’etichetta, anche questa volta, il capro espiatorio di questa situazione non atipica, tuttavia, in casa Nuclear Blast. Tale Peace, come il precedente (Innocence & Decadence, è frutto del loro talento, che pare stia sfumando drammaticamente, subendo la stessa sorte di quel decennio tanto decantato nei loro brani. Sprazzi dei fasti che furono emergono ancora (si vedano i brani posti nel finale), ma globalmente tutto è coperto da un coltre di noia, di posticcio e da un calo d’ispirazione evidente e non inferiore rispetto al full-length precedente. Cari Graveyard, in quale meandro delle vostre Gibson 335 ed SG si sono perse, amaramente, le frustate di Hisingen Blues e le toccanti ballate in stile zeppeliano di un quinquennio fa, e oltre?
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8
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questo nuovo album dei graveyard è veramente la riproduzione dell' hard rock come era negli anni settanta, veramente sembra di colpo essere tornati indietro di 40 anni, molto bravi. |
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7
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Album scialbo e piatto, purtroppo dopo i primi 3 dischi la band sembra aver perso il mordente...
Quasi tutti i brani sono skippabili, personalmente dopo averlo ascoltato una decina di volte non mi ha lasciato nulla ahimè. |
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6
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@Metal Shock: mitico Metal, aspettavo il tuo commento di rocker incallito... Pensa che i Graveyard li ho pure inseriti tra le band in cui riponevo la mia fiducia per il futuro del rock d'antan, forse sarà meglio far aggiornare l'elenco ahahahahah!!! Dato che hai nominato "See the Day", e sono d'accordo su quello che dici, ne approfitto per spiegare (@Rob Fleming) quel mio "uno degli episodi più riusciti, ma anche il più inconcludente". Dunque, intanto siamo di fronte a un lavoro valutato 64 e non 80 o più. Per cui è uno dei brani migliori in questo contesto (mediocre). Spiego "inconcludente": non è un complimento, ma non è neppure un aggettivo connotato così negativamente. Non è osceno, squallido o infimo. Semplicemente non porta a nulla, non è neppure così originale, ma seppur ricordando un po' troppo Wish You Were Here nell'arpeggio posto in apertura, è più interessante dei brani più movimentati (A Sign of Peace), banali all'inverosimile. Tornando a noi, Black Heaven è una chicca... Lo preferisco sicuramente a questo, di gran lunga. |
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5
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Il precedente disco a me era piaciuto non poco, ma questo è una delusione. Sembra un disco fatto velocemente e senza troppa convinzione: prendiamo See the day, una canzone che sembra per esplodere ma poi finisce in un nulla di fatto. E le canzoni più dure?? Anonime a dir poco...mah!! Qualcosa di buono c'è ma poco e io non gli do' la sufficienza, rimandati.
Un grazie infine a Giaxomo per il suggerimento sugli Earthless: bello il loro ultimo disco, un po' troppo strumentale per i miei gusti (ma ho scoperto che è il primo disco dove compare la voce) ma un ottimo hard rock, loro si' promossi a pieni voti. |
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@Graziano: come si suol dire "la speranza è l'ultima a morire"..un saluto. |
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Nutrivo grandi speranze per questa band, purtroppo naufragata nella mediocrità. Peccato.... |
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@Rob Fleming: Ciao Rob, scrivimi pure nella mail, la trovi sulla mia pagina redattore.. A presto. |
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L'hard rock è il genere che preferisco in assoluto eppure per un caso non ho mai ascoltato una nota dei Graveyard, gruppo incensato più o meno da tutti. Per cui ero curioso di leggere la recensione dell'ultimo cd. Francamente non c'ho capito nulla o quasi. Nella prima metà, circa 50 righe, si parla di tutto tranne che dell'album ("Sarà un piacere smentirvi, e lo dico a malincuore". O è un piacere o è a malincuore; le due cose insieme mi sembrano contraddittorie). Nella seconda parte ho letto frasi del tipo: "la floydiana See the Day, uno degli episodi più riusciti del platter, ma anche il più inconcludente". O è riuscito o è inconcludente. Mi paiono concetti antitetici. In merito a The Fox mi concedo una provocazione: io invece speravo che fosse un rimando a "Fox on the run" degli Sweet. Tanto c'è sempre il termine "fox" nel titolo. In realtà, alla fine, le ragioni del voto sono comprensibili e ritengo ben espresse. Ma forse non è questa la sede adatta per fare troppe disquisizioni sull'esposizione linguistica. Se è così mi scuso e potete cancellare il messaggio dicendomi, eventualmente, dover postarlo (nella casella personale del recensore?) |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. It Ain’t Over Yet 2. Cold Love 3. See The Day 4. Please Don’t 5. Del Manic 6. The Fox 7. Walk On 8. Bird of Paradise 9. A Sign of Peace 10. Low (I Wouldn’t Mind)
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Line Up
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Joakim Nilson (Voce, Chitarra) Jonatan Ramm (Chitarra) Truls Mörck (Basso) Oskar Bergenheim (Batteria)
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