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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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29/09/2018
( 1917 letture )
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Follow the dark sign Follow the north sign Follow the wolf sign Follow the ravenheart Troppo facile? Forse sì. Iniziare a parlare di Kvass citando il ritornello di uno dei pezzi più “catchy” della carriera dei Kampfar è forse una mossa scontata. Ma il testo -stranamente per questa fase della loro carriera- in inglese, riprende tematicamente i nuclei concettuali tanto cari ai quattro norvegesi. Blasfemia, profondo nord, ma anche un interesse per l'ambito naturale (declinato a volte anche in musica) che non è comune a tutti i gruppi black metal. Kvass non fa eccezione. Possiamo affermare ciò non solo per quanto concerne Ravenheart, bensì riguardo alla release nella sua interezza. Essa aderisce fedelmente alla linea già tracciata precedentemente dai norvegesi, risultando tuttavia uno dei dischi migliori di una band che comunque non ha mai sbagliato un colpo in tutti i suoi ventiquattro anni di carriera.
Sei atti che non scendono mai sotto i sei minuti di durata, che rimangono ancorati al sound Kampfar sia nelle strutture che nel modo di articolarle. In tal senso è già l'opener Lyktemenn ad indicare la via, tra cori quasi solenni e urla ferali di Dolk che vanno, di proposito, a mandare in picco il microfono. La prova di Per-Joar Spydevold è infatti estremamente intensa per interpretazione, incisiva nell'aggredire i brani con quel suo mid screaming grezzo e senza particolari effetti (al di là dei voluti eccessi di saturazione). Non è lui a far risaltare i refrain poiché, nonostante l'architettura melodica in cui questi esplodono, il suo cantato rimane sempre aggressivo e senza pietà. La componente melodica è invece a quasi totale appannaggio di Thomas, che, dietro la sei corde, costruisce una struttura relativamente complessa di riffing serrati e non sempre lineari e, soprattutto, arpeggi in tremolo picking dimostranti un gusto melodico insolito per un chitarrista black metal. Quest’ultimo mostra un approccio talvolta inusuale, specie quando nelle due tracce conclusive (Hat og avind e Gaman av drømmer) abbandona in parte le classiche scale minori per infilare armonizzazioni maggiori e creando -in particolar modo nella seconda- un'atmosfera quasi festosa, persin più festosa di quanto sembrerebbero consentire i richiami folk che ogni tanto compaiono in tracce come Ildverden).
La sezione ritmica (tutt'ora spina dorsale della formazione), esordisce per intero proprio in questo album, segno che Dolk e Thomas (che si erano fino ad allora occupati, rispettivamente, di batteria e basso), avessero il desiderio di concentrarsi maggiormente sul loro ambito e -nel contempo- volessero aggiungere musicisti in grado di valorizzare le loro composizioni. Al cinque corde troviamo dunque Jon Bakker, che si cala da subito a meraviglia nelle alchimie del gruppo, portando un suono rotondo e aggressivo sulle basse frequenze a lavorare quasi in parallelo con le chitarre di Thomas. Le linee spesso si imitano, ma il mix chiaro consente quasi sempre di udire i due strumenti separati -ma che lavorano in sinergia. Ci sono ovviamente dei momenti in cui Jon si stacca dalla tonica e improvvisa passaggi più lenti, quasi doom nella costruzione delle linee, che ben si confanno ai momenti più lenti delle composizioni (sentire, di nuovo, Ildverden per credere). Dietro le pelli Ask dimostra padronanza delle principali figure estreme. Egli porta difatti avanti quasi costantemente un drumming malvagio e tirato, tra blast beat, tappeti di doppia cassa e un uso largo dei piatti. Questi ultimi tuttavia non vanno mai troppo in conflitto con le chitarre sulle alte frequenze. L’impressione che si ha è quella di trovarsi dinanzi ad un batterista istintivo, perfettamente in grado di veicolare un’interpretazione efficace ma non chirurgico come altri suoi colleghi. Alcuni passaggi sembrano vagamente imprecisi e, nel complesso, non emerge quell'effetto “drum machine” che affligge le produzioni di altri gruppi (anche in presenza di batteristi molto più puliti e precisi di Ask).
A livello di produzione, Kvass è un disco “finto-grezzo”. Capiamoci subito: non è assolutamente detto con un intento denigratorio, anzi. Il punto è che la combo norvegese ha negli anni saputo sfruttare i mezzi tecnici a disposizione per produrre album che fossero tecnicamente ben realizzati (e si percepisce infatti un aumento della qualità man mano che ci si avvicina alle produzioni più recenti. Il lavoro che stiamo prendendo in esame suona “istintivamente” grezzo, ma ad un ascolto più accurato, si rivela non esserlo per niente. Non c'è una compressione eccessiva sulle tracce finite, per quanto ciò impatti più l'ascolto complessivo che i dettagli dei singoli strumenti (visto che il genere è non è esattamente noto per l'uso magistrale delle dinamiche). La batteria e gli strumenti suonano poco patinati e diretti, come da una registrazione eseguita con buona strumentazione e buoni microfoni ma senza un eccesso di post-produzione. Basta però concentrarsi un po' di più per rendersi di come sia possibile cogliere ogni singolo strumento e ogni singolo pezzo del drumkit. Anche le alte frequenze delle chitarre, per quanto molto presenti, non sono la classica nuvola confusa dall'abuso della manopola “presence”, ma risultano ordinate e in grado di restituire ogni nota degli arpeggi in tremolo e del riffing serrato. Kvass è un platter di alto livello, di quelli a cui i Nostri ci hanno sempre abituato. Mesce, in una combinazione riuscita ed equilibrata, quelle loro tipiche componenti folk e melodiche con l'anima nera del black norvegese, permettendo l'ascoltatore di viaggiare tra sfuriate gelide, momenti solenni e passaggi dal sapore folk che riescono -incredibilmente- a non suonare decontestualizzati. Il tutto costruito da musicisti capaci e un frontman e mastermind che, per quanto aperto a sperimentazioni, rimane un vero esponente di una scena storica e che non perde di vista le tradizioni. Ce lo ricordano loro stessi in Ildverden:
Himmelen Brenner (Il paradiso sta bruciando)
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7
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Seguiti fin dagli esordi, non mi hanno mai deluso, forse giusto 'Mare' non mi ha convinto in pieno...Grande disco, bella recensione, 85 meritato. |
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6
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Grande recensione, complimenti: informata, tecnica, descrittiva, ben scritta. |
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5
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Grande grande band..eccome, oscuri e glaciali. |
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4
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I Kampfar sono una di quelle band di rara bellezza che il ricordo dei loro live li tengo vivi con ardore in petto pagano. Una di quelle poche band di cui e' valsa la ragione fare tanti km per sentire riproporre certi pezzi e certi album. I primi emblematici, quelli dopo enigmatici. Pochissime band riescono a trasudare l'aspetto naturalistico sommo, freddo, gelido, come fanno loro, probabilmente nessuna. Provate se non lo avete mai fatto, ad andare a fare trekking in altura vicino alle montagne con le cuffie alle orecchie ascoltando Kvass e capirete...contemplate |
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3
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Chiaramente, nel mio primo commento...intendevo lunga vita a Dolk. Maledetto telefono. |
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1
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A parte il fatto che non hanno mai cannato un album, dico che questo assieme a Mellom è tra i miei preferiti. Freddo e glaciale già a partire dalla cover. Chiaramente Ravenheart un classico, ma tutti e 6 i pezzi sono su alti livelli a partire dall'apertura. Band che ancora oggi si conserva in stato di grazia, lontano da tutte le cazzate e i cliché. Lunga vita a Folk e i Kampfar. Voto appropriato. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Lyktemenn 2. Til siste mann 3. Ravenheart 4. Ildverden 5. Hat og avind 6. Gaman av drømmer
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Line Up
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Dolk (Voce) Thomas (Chitarra e Piano) Jon (Basso) Ask (Batteria e Voce)
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