Agalloch: prodotto resinoso e profumato che si forma sul legno di alberi di Aquilaria, grandi piante sempreverdi originarie del sud-est asiatico sacre per alcune culture, quando vengono infettati da un particolare tipo di fungo parassita, che ne causa la secrezione. Tale resina, nota anche come agarwood, oud o eaglewood, è apprezzata per il suo profumo caratteristico e viene usata per produrre incenso e fragranze. Il suo alto costo è legato alla sua rarità: dalle Aquilarie infettate è possibile difatti estrarne una quantità molto limitata e l’ampio loro sfruttamento sta portando la specie all’estinzione
Quasi profetica, la scelta di nome per una band quale gli Agalloch: come un incenso prezioso, hanno attirato l’attenzione di estimatori provenienti da tutto il mondo con la loro proposta musicale particolarissima e sfaccettata, in continua evoluzione, degna figlia della loro natale Portland, salvo poi spegnersi improvvisamente, senza quasi preavviso, lasciando amaro in bocca, ma anche profonda soddisfazione, tra coloro i quali negli anni li avevano apprezzati. Quali sono stati i capitoli più significativi della loro lunga (anche se mai abbastanza) carriera? Cosa ci ha fatto negli anni innamorare di loro e, per quanto speranzosi, probabilmente non ritroveremo nelle due formazioni fresche loro figlie, Pillorian e Khôrada?
1. This Old Cabin Come tutte le band, anche i primi passi degli Agalloch vennero mossi nel mondo dell’undeground e delle demo. Per quanto la permanenza in questo universo fu ben breve per questi talentuosi statunitensi, ci rimangono due prove dei loro esordi: From Which of This Oak, cassetta uscita in 200 esemplari nel 1997 per la sconosciuta piccola label First Light Of Dawn Creations di Tigard, a pochi passi dalla nativa Portland, e Promo 1998, autoprodotta anch’essa in formato tape, portata alle stampe in sole 30 copie. Per durata e varietà, certamente delle due la più rappresentativa è From Which of This Oak e, in particolare, il brano più lungo in essa contenuto rimane ancora oggi nel cuore dei tanti supporter della band. Stiamo parlando chiaramente di This Old Cabin, non a caso riproposta dalla formazione stessa in due delle sue tre compilation, The Demonstration Archive: 1996-1998 (2008) e The Compendium Archive (2010). Nei suoi abbondanti tredici minuti, il pezzo, per quanto ancora comprensibilmente da sgrezzare e da affinare tecnicamente, ci offre un’interessante panoramica su quello che, di lì a breve, sarebbe diventata una gemma pronta da presentare al mondo: il riffing appare già piuttosto convincente e cresce con il passare dei minuti, la voce di John Haughm sa già alternarsi senza troppe difficoltà tra un harsh più legato alla fiamma nera ed un clean studiato, intrecciandosi anche con i vocals femminili di Karen Cox, e fa capolino persino un breve intermezzo acustico, striminzito preludio a quello che verrà. In molti ancora oggi si chiedono come mai questa canzone non sia mai stata ri-registrata o inclusa nel successivo full-length Pale Folklore, vista in particolare la difficoltà di reperire copie della demo in cui è originariamente contenuta, e a ragione. Ma probabilmente, visto il destino del gruppo, tale auspicio è destinato a non realizzarsi mai.
2. She Painted Fire Across the Skyline Innumerevoli sarebbero le band che, per un debutto sulla lunga distanza come Pale Folklore, farebbero carte false, pagherebbero di tutto e venderebbero persino i parenti più prossimi. Facili battute a parte, è difficile non rimanere onestamente colpiti da questa prima ora dei ‘veri’ Agalloch e da otto canzoni che, nonostante la durata superiore ai cinque minuti ciascuna (con la sola eccezione di She Painted Fire Across the Skyline, Part 2), si fanno portatrici di uno stile originale e intrigante nelle sue sfaccettature, fresco, molteplice ed emozionante, nonché in questo caso ancora pienamente fruibile da un pubblico piuttosto vasto. Uscito per la newyorkese The End Records, che li accompagnerà per diversi anni, questo disco si apre con una suite tripartita, intitolata She Painted Fire Across the Skyline, che mette subito nero su bianco tutti gli splendidi aspetti a cavallo tra black, ambient e folk su cui la formazione deciderà di porre le proprie fondamenta. Un’atmosfera profondamente legata alla natura, in particolare a quella invernale, un viaggio oscuro in cui l’ascoltatore viene guidato dalle ormai distintive vocals di Haughm (nuovamente accompagnato da una voce femminile) tra romanticismo e disperazione, suggestione e dramma, senza mai scadere nel ridonante o nello scontato. Un biglietto da visita di certo non da poco.
3. The Melancholy Spirit Rimanendo all’interno del medesimo album, dopo aver parlato dell’inizio di Pale Folklore è difficile tralasciarne la significativa fine, affidata a The Melancholy Spirit, traccia più lunga del platter e cavallo di battaglia storico di casa Agalloch. Sfidando nuovamente un minutaggio importante, in questo caso superiore ai dodici minuti, gli oregoniani si legano ancor più alla tematica naturale, elemento portante di quel cascadian black metal di cui si faranno in seguito fautori, con una preghiera/supplica alla goddess of these bleak woods, divinità del bosco di quasi indescrivibile bellezza, che tuttavia sfugge per sempre agli occhi di chi la cerca e sperava di ottenere da lei conforto. Indescrivibile bellezza è anche espressione quanto mai appropriata per descrivere questo pezzo, che coniuga arabeschi acustici a quelli elettronici leggermente effettati per poi chiudere, a sottolineare l’ineluttabilità della perdita, con un freddo pianoforte solitario, che toglie speranza e fiato a chi osa arrivare fino in fondo.
4. In the Shadow of Our Pale Companion Dischi come The Mantle, nonostante la loro relativamente giovane età, sono divenuti pezzi di storia che difficilmente hanno bisogno di presentazioni. Considerata da molti come la punta di diamante della produzione a marchio Agalloch, questa release conta, come sua prima vera traccia, un altro brano dalla considerevole durata. Nel quarto d’ora sfiorato di In the Shadow of Our Pale Companion, sicuramente tre le opere più conosciute del combo, fanno la propria apparizione sia elementi divenuti ormai immancabili per la band, quali l’avvicendamento fluente delle due tecniche vocaliche del loro frontman, che prime avvisaglie delle sperimentazioni che, da quest’uscita-caposaldo in poi, diventeranno loro pane quotidiano. Scelte peculiari come il lasciare ampi spazi ad una chitarra acustica che definire commovente è dir poco, utilizzando un altrettanto toccante chitarra elettrica a suo supporto, quasi come se si trattasse di un basso, rendono questa composizione unica e valevole già in sé del prezzo dell’acquisto dell’intera produzione. Eppure, siamo solo all’inizio…
5. You Were But a Ghost in My Arms In seguito alla terza e ultima strumentale dell’album, ecco You Were But a Ghost in My Arms, nel quale sanno maggiormente dominare, seppur in chiave più matura, non solo gli influssi black metal, ma anche la malinconia struggente già evidenziata in Pale Folklore. Tuttavia, in questo caso tutto diventa più greve, opprimente, elaborato e profondo: se, di nuovo, la disperazione e la tristezza hanno come sfondo un contesto naturale, la loro pesantezza non viene più principalmente rappresentata dai testi, poetici ma angosciosi, e dalla parte strumentale del pezzo (che si distanzia comunque in maniera distinguibile dalle precedenti, specialmente considerando l’abbondanza generale di passaggi acustici del full-length, qui ridotta in favore di riffing black decisamente più aspri), ma anche dalla voce guida, che varia ancor di più, giungendo sino ai lidi del sussurrato e del parlato. Impossibile non venirne rapiti.
6. Fire Above, Ice Below A contendersi da sempre lo scettro di opera migliore della band con The Mantle è la successiva e superba Ashes Against the Grain, uscita quattro anni dopo sempre per la The End Records. A fare da, consapevole o meno, trait d’union tra le due uscite appare la centrale Fire Above, Ice Below in grado, per calma e lentezza, da saltare all’orecchio dell’ascoltatore per la sua peculiarità. I begli intrecci di chitarra acustica che la caratterizzano, uniti ai vocals in clean e a passaggi corali, che ben interpretano il breve ma struggente testo, sembrano riconfermare come il tempo non scalfisca in alcun modo tangibile il talento degli Agalloch, nemmeno quando, per l’ennesima volta, il minutaggio dei singoli pezzi va in doppia cifra.
7. Our Fortress Is Burning Se l’analisi della carriera della band nordamericana si era aperto con una suite tripartita da quasi 20 minuti in totale, Ashes Against the Grain non appare da meno: i suoi quasi 19 minuti finali si snodano infatti nei tre definiti ma in realtà indistinti capitoli di Our Fortress Is Burning, due di essi interamente strumentali. A loro il compito di riportare l’ascoltatore al suo limitato mondo terreno, dopo un altro, ulteriore viaggio profondo e sfaccettato nel mondo di questi talentuosi ragazzi di Portland. Se il primo, dominato dalla chitarra, cresce man mano pur rimanendo in parte sinuosamente legato alla natura, il secondo si fa intenso, pulsante, distorto, portatore di un messaggio che, seppur nuovamente senza speranza, non è malinconico, bensì maggiormente rabbioso e disilluso. Chiudono un’ulteriore manciata di minuti strumentali, dove l’ambient elaborato mostrato sino a quel momento cresce in un vortice di effetti che spaesa e storde chi ascolta, come se il ritorno alla normalità quotidiana dovesse venire ancor più chiaramente marcato.
8. Black Lake Niðstång Dopo altri quattro anni, alte aspettative attendevano al varco gli Agalloch che tuttavia, con il nuovo Marrow of the Spirit, ritornarono sulle scene non riuscendo a dimostrarsi pienamente all’altezza del compito, portando alle stampe un platter che, più che un passo falso, per molti rappresenta un passo indietro rispetto a quanto sino a quel momento creato. Questo disco infatti spiazza, disorientando nel suo voler coniugare gli aspetti più peculiari dei tre pezzi da novanta che lo hanno preceduto, creando un nuovo prodotto il cui assemblaggio può risultare ad alcuni peculiare ed apprezzabile nella sua sperimentazione, mentre ad altri meccanico e indigesto, per il medesimo motivo. Preferenze personali a parte, è difficile rimanere impassibili o muovere critiche davanti ad una traccia come Black Lake Niðstång, senza alcun dubbio la più rappresentativa di questa produzione. In oltre diciassette minuti di pura epicità struggente, il brano costruisce la propria struttura con un incedere lento e dilatato, quasi doom, ricco di pathos emozionante seppur dimesso, che cresce senza fretta sino a culminare rabbiosamente in un finale che sa subito rimanere impresso nella memoria. Una perla rara.
9. Faustian Echoes EP alle volte ingiustamente tralasciato per il suo apparentemente breve e poco significativo contenuto, Faustian Echoes si configura come un’uscita anomala e particolare. L’unica ed omonima traccia in esso contenuta, capace di ergersi monumentale dall’alto dei suoi ventuno e più minuti di durata, rende giustizia alla volontà, espressa dalla stessa band, di utilizzare simili pubblicazioni come spazio per sperimentare sonorità nuove, senza per questo provocare rischiosi ribaltoni al sound generale da essa proposto. Nel caso di specie, Faustian Echoes sa ben coniugare un testo impegnativo, che tira in ballo noti personaggi della letteratura internazionale come Faust e Mefistofele, con una produzione dai tratti più violenti e incisivi soprattutto grazie al drumming del ‘nuovo arrivato’ Aesop Dekker (qui con maggiore carta bianca rispetto al suo debutto in Marrow of the Spirit) e che si mantiene su tratti maggiormente essenziali, ma sempre dinamici ed innovativi, senza per questo sacrificare il sempreverde tocco atmosferico. Ventuno minuti che di certo hanno saputo confermare, qualora ve ne fosse ancora bisogno, la vastità del talento dei musicisti in questione.
10. Celestial Effigy L’ultimo contributo al mondo della musica di John Haughm e soci come unica entità venne portato alle stampe negli stessi giorni di metà maggio durante i quali, due anni dopo, avverrà quella tormentata serie di dichiarazioni, accuse e smentite divenuta ormai doloroso ricordo di quanto non esiste più. Nell’ora quasi esatta di The Serpent & the Sphere, album indubbiamente meno immediato dei suoi predecessori (e, in parte, con meno mordente), si snodano infatti brani di intricata eleganza circolare, che tuttavia diventa accessibile solamente dopo numerosi, attenti ascolti da parte di un fruitore che, posto di non trovarsi di fronte alla migliore uscita del combo, voglia farsi accompagnare lungo i loro tortuosi ed atmosferici sentieri. La sua ‘sfericità’ si riscontra anche nell’anima delle nove tracce in esso contenute che, se da una parte, forti di una maturità consolidata da una carriera così ricca ed caleidoscopica, sono di vigoroso e sinuoso impatto evocativo, dall’altra volgono lo sguardo non solo al proprio passato recente, ma anche ai propri albori, in particolare a Pale Folklore. A ben rappresentare questo ‘tributo’ agli esordi a tinte black della formazione di Portland è la centrale Celestial Effigy, che per sette minuti quasi ci fa quasi dubitare di stare ascoltando materiale degli Agalloch appartenente in maniera esclusiva a questo millennio. La traccia, non a caso la prima di questa release ad essere presentata al pubblico, è forse la più ‘cruda’ e diretta dell’intero lotto, nonché senza dubbio la più fruibile, in quanto include tutti gli elementi più tipici della sfaccettata band oregoniana: vocals sibilanti, una solida struttura in mid-tempo, un basso agile e un fulcro che si alterna tra suggestivi passaggi atmosferici ed altri maggiormente fulminei e più puramente black metal, interpretati magistralmente dal duo chitarra-batteria, come se il tempo per Haughm e soci non fosse mai passato. Un piccolo, inconsapevole, canto del cigno.
Come è facile comprendere dalla selezione di titoli in questa sede proposti, non è certo impresa facile riuscire a raccontare una discografia e carriera così lunga e articolata come quella degli Agalloch scegliendone solo una decina di capitoli. Pertanto, pur lungi dall’essere pienamente esaustiva o inconfutabilmente corretta, questa selezione ha cercato di raccogliere l’essenza di quanto portato in vent’anni alle stampe dagli statunitensi, auspicando di fungere da primaria guida per coloro i quali si siano avvicinati solo saltuariamente alla loro musica (o che ne abbiano solamente sentito parlare), nonché di riportare alla ormai malinconica memoria qualche brano di particolare pregio e bellezza alla mente di chi, nelle ultime due decadi, già ha saputo apprezzarne talento e capacità. Un nostalgico sguardo indietro, mentre ancora riecheggiano tra le menti degli estimatori di più lunga data i tanti ‘chissà’ e i ‘se’ rimasti da un anno a questa parte galleggianti e sospesi, e che con tutta probabilità mai troveranno vera risposta.
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