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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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Ministry - The Last Sucker
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25/09/2021
( 1225 letture )
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2007. Zio Al ‘Alien’ Jourgensen chiude definitivamente la trilogia dedicata alla sua nemesi (George W. Bush) con un album multi-sfaccettato che racchiude un po’ tutte le anime dei Ministry versione 3.0, quelli diretti e senza fronzoli, votati alla velocità del thrash metal, alle sfuriate punk-industriali e agli assoli fulminei. In questo ultimo album della trilogia “W”, la band si presenta in gran forma con una formazione che non vede tra le fila il bravissimo (e compianto) axe-man Mike Scaccia, ma il funambolico Tommy Victor (Prong), accompagnato dalla chitarra ritmica dal fidato Sin Quirin, dall’ex-tastierista dei Fear Factory, John Bechdel e da un altro eroe scomparso, il bassista Paul V. Raven (Prong, Killing Joke). Una line-up di tutto rispetto che ha fatto tremare i pilastri del cielo in più di un’occasione.
Come suona The Last Sucker messo a confronto con opere eterne del calibro di Rio Grande Blood (2006) e i>House of the Molé (2004)? Suona pieno, limpido, ‘stupidamente’ Ministry in tutto e per tutto, dall’intro della monocorde Let’s Go al finale dilatato di End of Days Pt.1 / End of the Days Pt.2. E’ una chiusura degna di una trilogia spietata, frantuma-ossa e inossidabile. Un tris che il tempo difficilmente scalfirà e, in assoluto, la fase più adrenalinica e sfacciatamente metal della band texana. Pensare agli inizi new-wave elettronici di With Simpathy (1983) fa quasi ridere quando si ascolta la furia groove di Life is Good, i controtempi heavy di The Last Sucker o la voracità speed di No Glory. Come anticipato, l’album parte in quarta con la lineare Let’s Go, con un breve intro rumoristico-urbano e il suo riff destrutturato, accompagnato da voce narrante, basso pulsante ed effettistica. Non parliamo di un brano vorticoso, ma piuttosto di un biglietto da visita che setta le nuove coordinate -meno thrashy, ma non per questo meno incazzate- dei Ministry. Un bell’assolo di Tommy Victor ci traghetta verso la parte finale del brano, sempre giocato sul mid-tempo incalzante. Aumenta leggermente il minutaggio con la seguente Watch Yourself, come sempre introdotta da voce narrante e subdolo tessuto elettronico. Sfondiamo gli speaker con un riff squadrato e solitario, una batteria programmata ad-hoc e una vibrazione Carpenter-iana. È un pezzo antemico e altisonante, giocato su un susseguirsi di riff groovy, a cavallo tra rock ed heavy metal, con un favoloso giro di basso di Raven. L’accelerazione mediana con assolo distorto conferma la bontà della scrittura, prima di consegnarci un altro brano semplice ma ricco di sfumature quale Life is Good, che ricorda da vicino i Prong di Prove You Wrong, grazie anche a un tessuto effettistico poco invasivo e un ritmo martellante. Il ritornello, sporco e ripetuto, sottolinea il malessere urbano, mentre il programming di Jourgensen fa il suo dovere insieme ai contorni cromati di Bechdel. Il brano ha il doppio compito di chiudere la deliziosa tripletta inziale e anticipare The Dick Song, simpatica nelle intenzioni, ma fin troppo simile alle precedenti per poterci esaltare a dovere. Ma la sospensione d’entusiasmo dura poco, perché è subito tempo per la deflagrante title-track, squisitamente leggera come un pugno nello stomaco. Sei minuti di metallo squadrato, aperti da un mugugnante riff di Tommy Victor, raddoppiato dalla chitarra di Sin Quirin e dal basso di Paul Raven. Il capomastro Al Jourgensen recita il suo sermone con innata acidità e spregio, sfoggiando aggressività e growl a tratti. Il ritmo, in bilico tra groove e accelerazioni industriali, ci consegna un perfetto brano-perno che spezza in due la scaletta, facendo terminare il primo tempo con una sana dose di violenza, chitarre ora piene ora taglienti e atmosfera apocalittica.
Droga. Corruzione. Perversione. No Glory riprende il discorso di Rio Grande Blood con una violenza speed fuori dal mondo: chitarre rasoio squarciano l’intelaiatura industriale e il programming ultra-violento ci percuote in modo cattivo, malsano e potente. È la glorificazione del potere, becero, corrotto e marcio fino al midollo. La doppia ‘W’ non ha scampo, non più, ed ecco l’armata procedere con furia iconoclasta, metallo pressofuso e assoli acidissimi. Brano breve ed esaltante, esattamente come la sua naturale controparte Death & Destruction, ironica, industriale e caotica. Rifferama thrash e risatine campionate. Una breve intro e poi si parte in sella al folle rodeo meccanico. Siamo pur sempre in Texas. Ci crogioliamo in una versione modernizzata dei Motörhead durante i 3 minuti e 30 secondi di morte e distruzione, con le tre chitarre a fare la voce grossa, grazie a riff incendiari, stop’n’go e brevi assoli. Finale in crescendo, con la sua doppia-cassa campionata, è un record di brutale violenza metallica. Ma non prendete fiato, perché la cover di Roadhouse Blues (The Doors) non è da meno, corroborata da azione non-stop, velocità a iosa e batteria incessante. Questo classico rock rivisitato in una versione grezza -punk/thrash- è da godere al massimo volume, mentre il vostro impianto hi-fi esplode e prende il volo durante il doppio assolo di chitarra/armonica. Fine dei giochi? Nemmeno per sogno. Prendete un allucinogeno a piacimento dal cassetto di Zio Al e mettetevi comodi sul divano: rush finale con la scanzonata Die in a Crash e la lunga suite finale, composta da End of Days Pt.1 / End of the Days Pt.2, dove troviamo il leggendario Burton C. Bell come ospite. La prima parte, breve e concisa, riporta in auge i riff heavy e squadrati di mister Victor, in un rimbalzate mid-tempo che profuma di fabbriche abbandonate. Bell, in una veste ruvida e filtrata, apparentemente inedita (ma già sentita in parte nei bravi City of Fire) convince appieno e traghetta la canzone verso un clamoroso wah-wah di un instancabile Tommy Victor. La seconda parte, che chiude l’album, fa il verso alla splendida Kyber Pass, con il suo andamento lento e ondulato. Psichedelia si mischia con un substrato industriale e dark. Ancora B.C. Bell a dettare le regole vocali in questo epilogo di The Last Sucker, tra cori angelici, chitarre discrete ma efficaci e ficcanti linee di basso.
E’ il 2007. La trilogia volge al termine e ci lascia un retrogusto polveroso. Album in parte meno vorticoso e folle dei suoi due illustri predecessori, The Last Sucker è una mini bomba atomica pronta a esplodere. Scritto benissimo e suonato ancora meglio, con una formazione da brividi e contenuti come sempre espliciti, non stanca e non annoia. 55 minuti di caos incubato, metallo pesante e deliri fanta-politici. Impossibile chiedere di più!
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5
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Vi consiglio di non ascoltare "let's go" mentre siete in auto per evitare multe (esperienza personale) |
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4
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Per me il migliore della trilogia, tutti pezzi bomba. Se non sbaglio doveva anche essere l'ultimo in assoluto dei Ministry che poi si sono riformati e dopo Relapse, From Beer To Eternity avrebbe dovuto nuovamente essere l'ultimo. Vedremo il nuovo in uscito se sarà di alto livello |
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3
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"let's go" è una bomba! |
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2
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Concordo con Galilee. Sicuramente non tra i migliori album dei Ministry, comunque sempre validissimo, ben suonato e ben interpretato. Adatto ad orecchie forti...😊😊 |
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1
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Ottima recensione per l'ultimo tassello di un "trittico" che ai tempi spaccò I culi ai passeri. Forse il più debole ma siamo sempre ad altissimi livelli. 80 |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Let's Go 2. Watch Yourself 3. Life is Good 4. The Dick Song 5. The Last Sucker 6. No Glory 7. Death & Destruction 8. Roadhouse Blues 9. Die in a Crash 10. End of Days Pt. 1 11. End of Days Pt. 2
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Line Up
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Al Jourgensen (Voce, Chitarra, Tastiera, Programming) Tommy Victor (Chitarra, Basso, Voce) Sinhue ‘Sin’ Quirin (Chitarra) John Bechdel (Tastiera) Paul Vincent Raven (Basso, Voce)
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RECENSIONI |
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