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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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SINE QUA NON - # 29 - 'Sad Wings of Destiny' e '2112'
20/07/2019 (1688 letture)
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UN ANNO INCREDIBILE TRA ANNI INCREDIBILI 1976. Un anno caratterizzato dall’uscita di alcuni album che saranno per sempre destinati a rimanere scolpiti in una ipotetica Top Ten di genere permanente. Certo se poi si va a guardare a fondo lo si può dire praticamente di ogni anno, ma in effetti non capita poi così spesso di considerare come uscite "secondarie" (si fa davvero per dire) un Presence (Led Zeppelin), un No Heavy Petting (UFO), oppure Blue for You (Status Quo), per non parlare di un Tejas (ZZ Top), Look Into the Future (Journey), Gimme Back My Bullets (Lynyrd Skynyrd), Calling Card (Rory Gallagher), A Trick of the Tail (Genesis), Still Life (Van Der Graaf Generator), Too Old to Rock 'n' Roll: Too Young to Die! (Jethro Tull), High and Mighty (Uriah Heep), della doppietta Born to Die/ Good Singin’ Good Playin’ (Grand Funk Railroad) e, volendo, perfino di un Destroyer (Kiss). Di Technical Ecstasy (Black Sabbath), invece, è più difficile dire qualcosa di realmente positivo, quindi cominceremo semmai ad alzare il tiro snocciolando Frampton Comes Alive (Peter Frampton), Hotel California (Eagles), Jailbreak (Thin Lizzy), A Day at the Races (Queen), Agents of Fortune (Blue Oyster Cult) e un quartetto a dir poco impressionante: Rocks (Aerosmith), Rising (Rainbow), Sad Wings of Destiny (Judas Priest) e 2112 (Rush). C’è di che far tremare dalla gioia chiunque solo a mettere in fila titoli del genere e, come dicevamo, se non di tutti gli album citati, almeno degli ultimi quattro possiamo davvero dire che ciascuno merita la Top Ten di genere, se non quella assoluta in ambito hard'n'heavy allargato. Tra questi, puntiamo il riflettore in questa occasione su due in particolare, riservandoci di tornare sugli restanti in un altro momento.
SAD WINGS OF DESTINY Ovverosia, quando il Prete di Giuda trova la sua strada e la sua vocazione e inizia a predicare l’heavy metal alle masse. Heavy Metal che, come è facile leggere ovunque, era un termine già in uso a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e che, per tutti i Settanta, identificherà alcune band classificate come particolarmente aggressive, ma che non è ancora considerato, al momento dell’uscita del secondo album dei britannici, un genere a se stante. Intendiamoci, band come Sir Lord Baltimore, Captain Beyond e Dust, giusto per citarne alcune che non rientrassero nel lungo elenco soprastante, avevano già ampiamente sfondato qualunque barriera e condotto per mano coloro che avevano seguito la loro strada ai confini dell’heavy propriamente detto, mettendo perfino ben più di un piede oltre la linea di demarcazione dall’hard rock. Ma se il dibattito tra quale sia il primo album della storia dell’heavy metal o quale sia la prima band, rischia di concludersi senza un reale vincitore dopo Vincebus Eruptum o il debutto dei Black Sabbath, è indubbio che dopo questi apripista che tracciarono una via, Sad Wings of Destiny rappresenti una sorta di prima pietra miliare della strada lastricata del percorso che porterà poi alla NWOBHM e alla trafficata autostrada del metal ottantiano. Il debito che i Judas Priest accumulano nei confronti dei predecessori è tutto saldato con Rocka Rolla, debutto invero a volte fin troppo criticato e che ha di fondo l’unico torto di essere ancora pienamente settantiano, nelle intenzioni e nel suono, a differenza del suo successore, che è in pratica quasi interamente lanciato nel decennio successivo e reale anticipatore di sonorità che tutto lo spettro metallizzato andrà robustamente a saccheggiare, che si parli di heavy propriamente detto, inglese, statunitense, scandinavo o tedesco, di thrash statunitense o tedesco, di power statunitense o europeo e perfino di epic o primordiale prog metal. Tutti, proprio tutti, si sono abbeverati alla fonte di Sad Wings of Destiny, le cui soluzioni ritmiche e solistiche, la voce acuminata e invincibile di Rob Halford, la quadratura della sezione ritmica che abbandona lo stile "saltellante" e jazzistico importato nel rock da batteristi come Ginger Baker a favore di uno stile sobrio e potente, sono un vero e proprio libro di testo per gli studenti a venire del metal. Il riffing, gli intrecci solistici, le atmosfere ossianiche e dannate di brani come The Ripper (basti ascoltare il tributo dei Mercyful Fate per rendersi conto del debito accumulato, perfino da questi altri "mostri") e Victim of Changes, l’aggressività puramente metal di Genocide, Tyrant, Deceiver e Island of Domination, segnano un distacco netto e dettano gli standard per una rotta che saranno migliaia a seguire. Perfino la venatura ancora quasi prog di Dreamer Deceiver e Epitaph resta a livelli altissimi, regalando nel primo caso brividi sia per la clamorosa prestazione di Halford che per la strepitosa sezione solista e per uno Ian Hill in primissimo piano. Un disco che è uno scrigno di pietre preziose e di ispirazione e che ancora oggi, anche a livello di produzione, risulta perfettamente godibile e capace di offrire spunti. Un Halford a questi livelli fa semplicemente spavento e con lui il resto della band, perfettamente consapevole e anzi decisa a lasciarsi alle spalle le influenze esterne, creando il proprio trademark e, con esso, una identità così forte da diventare fonte inesauribile per chiunque sia venuto dopo. Al secondo album non è cosa da tutti. Con questi risultati, è vanto davvero di pochi.
2112 2112 è un disco di cui fa quasi paura parlare: troppo grande, troppo importante, troppo bello. Un capolavoro di impressionante fulgore e di incredibile e fertile progenie. I Rush sono una di quelle band a cui tutto il mondo dovrebbe tributare eterna gratitudine e rispetto, inchinandosi spontaneamente al passaggio. Lo sarebbero anche solo per questo disco che, peraltro, nel suo splendore inimitabile, forse non è neanche il loro migliore, anche se senza dubbio uno dei più importanti. A differenza di quanto si può dire per Sad Wings of Destiny, la situazione in casa Rush è tutt’altro che serena: la band è al suo quarto album e stenta a trovare una consacrazione, anche se ha raggiunto ormai un seguito da "cult" e Caress of Steel ha venduto benino. La verità è che se 2112 avesse fallito, probabilmente la band avrebbe perso il contratto discografico e si sarebbe sciolta. Sembra assurdo scrivere oggi una cosa del genere, ma la situazione era questa. Fu a questo punto che anche i Rush, come i Judas Priest dall'altra parte dell’Oceano, decisero di fregarsene letteralmente di quanto gli stava succedendo attorno e spingere all’estremo la propria ispirazione, cercando di raggiungere una propria dimensione al di fuori delle influenze originarie. Echi di quanto troveremo nel "nuovo" album si trovano evidentemente nei dischi precedenti, ma 2112, come Sad Wings of Destiny è di fatto un disco degli anni Settanta che guarda fortemente avanti e che può essere definito infatti come propriamente prog metal. Fortemente tinto di hard rock, come gli album precedenti, ma al contempo, sia nelle strutture che nelle soluzioni, anticipatore in tutto e per tutto di quanto seguirà. Lo straordinario concept elaborato da Neil Peart, ispirato alla novella Anthem di Ayn Rand con la forte critica a qualunque autoritarismo che vende felicità e prosperità ai propri sudditi in cambio dell’assoluta rinuncia alla loro libertà e al loro libero arbitrio sulle scelte della propria vita; la musica, vista come occasione di riscatto ed elevazione personale (semplicemente meravigliosa la commovente scoperta di una chitarra da parte del protagonista e i tentativi di accordarla in Discovery); i tratti fantascientifici che diventano distopici nel momento in cui si scopre che il Sistema Solare descritto è seguente ad una guerra di invasione, ricondotto alla "pace" dai Sacerdoti di Syrinx che controllano ogni aspetto della vita degli abitanti sotto l’egida della Stella Rossa. Infine, il sacrificio del protagonista, cui segue il terribile ed enigmatico monito finale dell’invasione da parte degli "alieni", che forse potrebbero essere proprio gli stessi terrestri di ritorno al loro Pianeta Madre, in un clamoroso finale aperto che ha fatto Storia. Ma limitarsi all’aspetto lirico e concettuale di un disco del genere sarebbe un delitto, considerando la magnificenza della suite da venti minuti, a sua volta orchestrata in sette movimenti racchiusi tra l’Overture e il Grand Finale strumentali, di intensità incredibile, con i tre musicisti che tentano realmente di raggiungere il massimo livello espressivo, mentre Geddy Lee, oltre allo splendido lavoro al basso, è come di consueto impegnato con la sua voce acutissima a rendere merito alle stupende atmosfere di brani come Discovery, al contrasto tra l’entusiasmo del protagonista e l’astio violento dei Preti ai quali presenta "la musica" in Presentation, al magnifico saliscendi emotivo e dinamico di Soliloquy (forse una delle più belle canzoni mai scritte) o all’aggressiva The Temples of Syrinx. Assieme a lui, il talento di Alex Lifeson, in piena maturazione artistica e l’impressionante lavoro di Neil Peart che sì è l’autore del concept, ma soprattutto è uno dei massimi Maestri d’Arte della batteria rock di tutti i tempi. 2112 è semplicemente una delle suite prog più belle di tutti i tempi, uno dei vertici assoluti del rock mondiale e lo era allora come oggi, non avendo perso nulla della propria grandiosa espressività e dell’arditezza della costruzione. Anche qua, però, mettere in secondo piano tutta la seconda parte del disco -come fanno in molti- appare quanto meno avventato e sciocco. Tutto l’album costituisce una prova di classe e superiorità artistica e strumentale imbarazzante e Passage to Bangkok, lo splendido refrain di Something for Nothing che richiama i dischi precedenti, i contrasti tra l’acustica e l’elettrica che caratterizzano Lessons, con un Lee scatenato in sottofondo, o la dolcezza struggente di una Tears restano schiacciati dalla maestosità della suite, ma sono a tutti gli effetti brani di valore altissimo.
DUE DISCHI DA CONSEGNARE ALL’IMMORTALITA' Come fin troppo spesso capita di dover argomentare e difendere, in un periodo nel quale si è valutati per bravi per quanto si riesce ad assomigliare fino ad essere uguali a qualcun altro (vale tanto per le cover band, quanto -e a maggior ragione- per le tribute band, fino ad arrivare ai gruppi del retro rock), ciò che ha reso Grandi i gruppi che hanno lasciato un’impronta indelebile nella Storia della musica, oltre al loro inevitabile e superiore talento, è stata la volontà di essere unici, diversi da tutti gli altri. Così per i Judas Priest l’abbandono del rock psichedelico e prog tipico dei Settanta e l’approdo all’heavy metal, a prescindere dal fatto che si chiamasse così, e per i Rush la riuscita e rischiosa maturazione spinta all’estremo che li ha portati dall’hard rock zeppeliniano dei primi album ad una compiuta trasformazione in progressive rock band, proprio nel momento in cui i venti del punk stavano per esplodere, testimoniano il successo di un percorso che non per tutti è baciato anche dal successo discografico o dal riconoscimento artistico, ma diventa ragione stessa dell’essere artisti e del credere in sé stessi e nella propria identità di band. Nascono così due dischi capaci di innovare e gettare le basi per lo sviluppo di centinaia se non migliaia di altre band. Sad Wings of Destiny e 2112 sono due capolavori intoccabili e indimenticabili, oggi come quarantatré anni fa e lo saranno per sempre. Figli di un’epoca ricchissima di band che stavano creando realmente un nuovo mondo e quindi capaci di parlare a chi sarebbe venuto dopo, spianando per loro la strada e mostrando che sì, è possibile anche essere unici.
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@Rob: ci mancherebbe!! Anzi sono dei titoli assolutamente fondamentali e almeno nel caso dei Boston e dei Ramones imprescindibile in senso assoluto. Quanta bella roba  |
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@Lizard: solo se mi concedi la licenza poetica (cioè un semi OT visto l'incipit) - l'articolo l'ho già commentato - mi permetto di aggiungere Kansas ((Leftoverture); Scorpions (Virgin killer); Boston (omonimo) e un paio di titoli da nerd che fa figo: l'omonimo degli Starz e i Flaming Groovies di Shake some action (e perché no il debutto dei Ramones). Insomma, come ho letto in un bell'articolo: "Un anno caratterizzato dall’uscita di alcuni album che saranno per sempre destinati a rimanere scolpiti in una ipotetica Top Ten".
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Non c'e' problema e anzi colgo l'occasione per farti i complimenti per l'ottimo lavoro su Metallized. |
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Uh hai ragione... Maledetta fretta 🤣 |
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Lizard e infatti se leggi il mio commento ho scritto "come nell'articolo",volevo solo rimarcare l'importanza del disco in questione  |
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progster78: ho citato anche i Queen, se controlli  |
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Certo che trovare un disco brutto dei Rush e' impossibile....2112 e' strepitoso,ma qui siamo di fronte a una band piu' unica che rara che non ha mai sbagliato un colpo,Sad Wings capitolo fondamentale dell'intera scena heavy metal mondiale e poi anch'io come nell'articolo vorrei agiungere A Day At The Races disco splendido con perle come Tie Your Mother Down, Somebody To Love e Teo Torriatte ma sarei riduttivo perche' i Queen sono la storia e ogni singolo brano e album sono pietre miliare del rock. |
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2112 dei Rush lo ascoltai tempo fa, non se definirlo Prog o una roba simile, di sicuro un bel disco, ma di questa band non sono mai stato un fan, ne ho ascoltato tutti i dischi anzi...
Sad Wings of Destiny non é uno dei miei album preferiti dei Judas Priest ma si tratta di un disco molto importante per la genesi di un genere che si stava codificando... di sicuro se fosse stato registrato come Unleashed in the east sarebbe stato un capolavoro inenarrabile. |
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Ottima scelta per questo "Sine qua non", sebbene a mio avviso - se ho capito lo spirito della rubrica - mentre Sad Wings è da considerarsi veramente come uno spartiacque ricco di canzoni stupende che hanno mostrato la via, 2112 non ha mai avuto epigoni. O meglio i Rush non hanno mai avuto reali epigoni. Suonavano una musica irriproducibile, originalissima (tolti i primi 3 zeppeliniani dischi) soprattutto tenuto conto che erano in 3. Cosa suonano i Rush? Ancora oggi non lo so saprei dire. Prog? Forse. Hard rock? Agli inizi. Synth rock? Sì, ma...prog metal? Uno dei pochissimi gruppi autenticamente indefinibili (con i Blue Oyster Cult). |
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Oddio, che cosa si può dire su questi due album che non sia stato già detto negli ultimi 40 anni? Tutti e due sono capolavori ma soprattutto tutti e due sono pietre miliari, due album per i quali - per alcuni aspetti - non è fuori luogo affermare che c’è un “prima” e un “dopo”. Passando al lato puramente soggettivo, anche per me entrambe le band faranno addirittura meglio successivamente. Pur dopo aver calato dei carichi da dodici come gli album in oggetto. |
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sia rush che priest sono tra i miei gruppi preferiti di tutti i tempi dei quali ho divorato le discografie. Però nonostante l'importanza storica e laqualità degli album in questione entrambi non sono tra i miei lavori preferiti dei gruppi in questione, il che la dice lunga sull'enorme qualità della loro proposta musicale, oserei dire sterminata. 2112 un capolavoro (la titletrack) ma a dire il vero non hanno mai sbagliato le suite (a dire il vero nemmeno i pezzi più easy), da by tor and the snow dog a cygnus x1, passando per la villa strangiato o xanadu. Comunque sono dischi che hanno fatto scuola e hanno creato muri portanti per il genere oltre che perlediscografie loro e di tanti che a loro si sono ispirati |
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Che dire oltre alle belle parole del recensore? niente, due cspolavori. I Rush mi riprometto sempre di approfondirli di più. Li conosco, ovviamente, ma non bene come credo meritino. Benchè personalmente preferisca i gruppi più epici al metallo "classico" I Priest sono Il Metal, punto. |
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E senza 2112, niente Metropolis: Scenes From A Memory. Santissimi Rush |
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