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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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25/02/2023
( 1389 letture )
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Time And A Word. Tempo, tanto tempo, 53 anni per l’esattezza, e una parola: Yes. Immancabile tappa di chi vuole apprezzare la bellezza e l’unicità della formazione originale, con la grande particolarità dell’orchestra che ha reso questo album una perla (quasi) irripetibile. Siamo agli albori del movimento progressive, lontani da Canterbury, a Londra, ma non si fa fatica a comprendere, già dalla seconda uscita, che questo complesso formatosi nella capitale britannica è pronto a fare la storia di questo genere musicale. Come nell’esordio, rilasciato l’anno precedente, troviamo una cover: Sweet Dreams, non particolarmente entusiasmante nè riuscita. I nostri daranno il meglio di sè proprio alcuni mesi dopo, nel biennio 1971-1972, sia perchè in questo disco non erano ancora riusciti a scrollarsi di dosso alcune sonorità anni ’60 per abbracciare appieno il progressive, sia per la presenza di una cover e per l’esperimento non perfettamente riuscito di conciliazione con un’orchestra. Quest’ultima motivazione, tra le altre, portò alla rottura con il membro fondatore e chitarrista Peter Banks. Ecco perché vale la pena togliere la polvere da questo LP per andarlo a riscoprire, riascoltare e riassaporare, ultimo atto della inimitabile e irripetibile formazione originaria degli Yes.
No Opportunity Necessary, No Experience Needed ci annega nell’organo di Tony Kaye che, abbinato alla maestosità del suono dell’orchestra, dona alla traccia un’apertura aulica e solenne. Davvero questa è la stessa band che neanche un anno dopo ci regalerà una canzone come Roundabout? Con questa provocazione non si intende affatto affermare che non siamo davanti ad un materiale di qualità, ma indubbiamente l’ingresso di Steve Howe ha segnato quel cambio di marcia che li ha portati ad essere annoverati nell’Olimpo delle migliori band della storia. L’orchestra è piacevole e solenne, ma a tratti stona e sovrasta eccessivamente la qualità del quintetto che non dovrebbe mai essere oscurata. È compito del basso di Chris Squire elevare la qualità complessiva del pezzo e renderlo comunque godibile. Ci pensano ancora i tasti di Tony Kaye ad aprire la successiva Then, qui l’orchestra si fa meno insistente e la batteria di Bill Bruford entra prepotentemente nelle partiture del pezzo. Bello e molto cantabile il ritornello, ma decisamente più interessante la sezione strumentale dopo la metà: ecco i veri Yes. Brano maestoso. Allo stesso modo, anche Everydays accelera ed esalta proprio dopo la metà, in corrispondenza di un’altra memorabile sezione strumentale dove Peter Banks si dimostra un chitarrista tecnico e preciso, peccato per inizio e finale molto tediosi e ripetitivi, a tratti una cantilena non necessaria. È poi il turno della cover Sweet Dreams, molto cantabile e dai toni anni ‘60, a chiudere il lato A del disco. Senza infamia e senza lode, avremmo sicuramente preferito un bell’inedito in quanto il problema, anche qui, è la ripetitività di un motivetto portato all’estremo.
Il lato B si apre nuovamente con l’organo di Tony Kaye, dai toni gravi, irregolari e quasi funerei. L’intro è molto lunga, totalmente strumentale e occupa metà brano, poi la protagonista diventa la voce iconica di Jon Anderson, si cominciano ad intravedere le linee guida dei futuri dischi degli Yes, soprattutto in queste sezioni dove l’orchestra interviene poco o nulla. Un brevissimo brano, che potremmo quasi definire un intermezzo, tra le più lunghe The Prophet e Astral Traveller, l’orchestra si fa di nuovo più presente e accompagna la voce del frontman onirica e malinconica, fino al finale in fading. Siamo negli anni della corsa allo spazio, o meglio, della corsa alla Luna. C’è tempo anche per un testo dedicato ai viaggi interstellari, Astral Traveller. Il ritmo assume i contorni di un viaggio e di un crescendo, la quiete prima, il racconto e l’esplosione strumentale poi. Il ritornello finale, accompagnato dalle voci di più membri in coro, è acido e psichedelico. Sicuri che il viaggio fosse reale e non figurato? Siamo arrivati alla conclusione, del lato B e del vinile, e troviamo la traccia che dà il nome al lavoro in studio. Non sentiremo più momenti di tecnica né sezioni strumentali, il finale è affidato alla voce di Jon Anderson che si occupa di raccontarci una bella storia di diffondere amore verso il prossimo, prima di chiudere il sipario, con vari ritornelli ripetuti e un pomposo coro finale, accompagnato dagli archi.
Che dire, i momenti meglio riusciti di Time And A Word sono proprio quelli in cui l’orchestra lascia spazio alla tecnica magistrale dei singoli musicisti chiamati in causa. Una certezza in questo, come nei successivi album, è il basso di Chris Squire, coadiuvato dall’ottimo lavoro alle pelli di Bill Bruford. Molto valide le parti in cui trova spazio da solista Peter Banks, purtroppo ridotte all’osso, non a caso da qui cominceranno le divergenze con i suoi compagni di band che da lì a poco porteranno ad una rottura insanabile, preparando il terreno per il leggendario Steve Howe. Se volete conoscere chi furono gli Yes prima del successo planetario, prima di Fragile e Close to the Edge, questa è una tappa fondamentale per conoscere e comprendere la genesi del loro sound. E poi, questa è l’ultima occasione per apprezzare la lineup fondatrice, coloro i quali, nel bene e nel male, hanno formato l’inimitabile quintetto. Un esperimento da non gettare completamente via quello dell’orchestra, da accantonare invece l’inserimento in scaletta di cover e rivisitazioni. Da qui a poco i londinesi abbandoneranno definitivamente le contaminazioni con i suoni degli anni ’60 per diventare maestri del progressive rock ed entrare nella leggenda, ma prima prendetevi una pausa per apprezzare il secondo disco degli Yes, non una pietra miliare, ma unico e irripetibile a suo modo.
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2
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È a partire dall’album successivo che cominceranno a pubblicare pietre miliari del prog, ma che avessero idee e capacità non “ordinarie” lo mettono in mostra già dagli inizi. Questo secondo album vede secondo me una band in crescita (rispetto all’esordio) ed è sempre piacevole riascoltare pezzi come Then o Everydays, anche se sono passati 53 anni. Voto 81 |
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1
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Ottimo lavoro...i capolavori verranno dopo ma e\' doveroso ricordare Banks per il grande contributo ai primi dischi di questa storica band. voto 80. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. No Opportunity Necessary, No Experience Needed 2. Then 3. Everydays 4. Sweet Dreams 5. The Prophet 6. Clear Days 7. Astral Traveller 8. Time And A Word
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Line Up
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Jon Anderson (Voce, Percussioni) Peter Banks (Chitarra) Tony Kaye (Tastiera, Organo) Chris Squire (Basso) Bill Bruford (Batteria, Percussioni)
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