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27/04/24
CRASHDÏET
VHS - RETRÒ CLUB, VIA IV NOVEMBRE 13 - SCANDICCI (FI)
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03/04/2019
( 4385 letture )
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A quasi due anni di distanza dalla pubblicazione di Evocation II: Pantheon, gli svizzeri Eluveitie tornano sul mercato col loro ottavo album di inediti, intitolato Ategnatos. Avevamo lasciato Chrigel e soci dopo una discreta prova interamente acustica, in grado di gettare una luce più che positiva su una formazione per metà rinnovata in seguito all’abbandono da parte di Anna Murphy, Ivo Henzi e Merlin Sutter, ora Cellar Darling. Col supporto delle nuove leve Matteo Sisti (cornamusa), Michalina Malisz (ghironda), Alain Ackermann (batteria) e Jonas Wolf (chitarra ritmica) e col sostegno vocale della giovane cantante Fabienne Erni, il mastermind d’Oltralpe è pronto a irrompere nella scena con un nuovo lavoro che vede la combo impegnata su strumenti elettrici affiancati al classico set folk. Cornamusa, flauti, archi, percussioni e corde sono ora calati in un full-length che, pur non essendo un concept album, sottolinea la presenza di un filo conduttore tra i testi dei brani inclusi: come da titolo tradotto dalla lingua gallica, è la rinascita il tema centrale del platter, elemento presente sia come sfondo dell’intera narrazione che come fulcro di interi testi (tra cui, su tutti, la quasi omonima Rebirth). I riferimenti astratti delle liriche di Ategnatos sono da attribuirsi ad una visione speculare del mondo odierno su quello dell’antica mitologia celtica -una proiezione sanguinosa, violenta e tetra. Ciò che spaventava, affliggeva e deteriorava gli esseri umani è più volte mutato di facciata ma non di essenza; le nostre forze e debolezze sono il pallido riflesso di quanto gli antichi hanno sperimentato a tempo debito, tramandandoci un bagaglio tanto splendido quanto oneroso. La bellezza e la bruttezza si sono susseguiti nel corso dei secoli giungendo fino alle società contemporanee, dalle cui fondamenta emerge (talvolta timidamente, talaltra con assordante ardore) l’ambizione al risveglio e alla rivolta, con le inevitabili conseguenze evocate abilmente dalla teatrale narrazione di Alexander Morton e dagli inserti apocalittici di post-produzione che troviamo, ad esempio, su Worship: urla, pianti, disperazione e sgomento sono più che un semplice rovescio della medaglia, a sottolineare il fatto che, per rinascere, è necessario perire. A guidare i testi del disco è, pertanto, una visione dell’uomo in bilico tra pessimismo e ottimismo: se da una parte l’essere umano non si è dimostrato capace di cambiare significativamente la propria condizione rispetto a quanto di irreprensibile accadeva nelle società migliaia di anni or sono, dall’altra emerge la consapevolezza che, nonostante egli stesso sia fautore delle mostruosità che lo terrorizzano, la speranza sia la vera chiave per il rinnovamento. Per quanto sia difficile imparare dai propri sbagli (e la storia, ahimè, offre molti spunti di discussione in merito a ciò), l’importante è credere nella possibilità di un nuovo inizio: finché anche la più piccola delle fiamme scalda gli animi e guida lo sguardo nelle tenebre, nulla è del tutto perduto.
L’ottavo capitolo discografico della folta schiera svizzera si compone di ben sedici tracce, per una durata complessiva di un’ora e venti secondi: pur non raggiungendo la vetta numerica rappresentata da Helvetios (con i suoi diciassette pezzi), si tratta del lavoro da studio con maggiore minutaggio mai composto fino ad ora dalla band. Vediamo nel dettaglio cos’hanno da raccontarci questa volta i nove musicisti col loro ritorno a sonorità non-acustiche. Ategnatos si apre con l’omonima traccia, un brano potente e diretto capace di sintetizzare a trecentosessanta gradi la proposta dei Nostri. All’intro della già citata voce narrante, che insieme agli archi cala l’ascoltatore in un clima cupo e glaciale, seguono le percussioni e il flauto, anticipando il motivo portante del ritornello insieme ai cori e alle sferzate di doppio pedale; è ora che fanno il loro ingresso gli acuti di Fabienne sugli strumenti a fiato, che cedono poco dopo il passo a Chrigel e alla vena death-oriented a cui il gruppo ci ha già abituati in passato. Se da un lato il duetto harsh-clean è penalizzato da un oscuramento in post-produzione della voce femminile, che risulta più “lontana” rispetto a quella maschile, dall’altro il punto di forza del brano è senza dubbio il connubio tra folk e sezioni più spinte, in grado di risollevare un brano che vocalmente spicca soltanto grazie ai cori e a Chrigel. Segue Ancus, il primo di svariati interludi: dodici secondi di parlato in gallico che avrebbero potuto essere tranquillamente fusi con il finale della titletrack o con l’inizio di Deathwalker, senza quindi costituire una traccia in sé. Prende il testimone di questa scelta un po’ azzardata l’appena citata Deathwalker, introdotta dalla ghironda e, poco dopo, dai riff posti su una sezione ritmica soffocante, la quale diviene più spaziosa nelle strofe, lasciando così decollare l’arpa; a sostenere un ritornello sicuramente semplice e non dei migliori (in cui Fabienne è mero accompagnamento e non elemento portante) è l’attenzione meticolosa riposta da ciascun musicista nell’utilizzo del proprio mezzo, cura che traspare brillantemente nella sezione strumentale condita dagli harsh di Chrigel prima dell’ultimo refrain. Black Water Down, quarto brano dell’album, è uno degli episodi più riusciti: il flauto e le mandole introducono l’ascoltatore in una simil-ballad folk che cede il testimone al violino e alle harsh vocals spalmate abilmente su riff e batteria meno opprimenti; nel ritornello, la Erni si riscatta con una prova avvincente e trascinante, seguita da un intermezzo strumentale ai limiti del sublime. A Cry in the Wilderness è un’ulteriore prova superata da parte del gruppo: si tratta di uno dei brani più pesanti e al contempo più riusciti del disco, con un inizio dal piglio aggressivo (con rimandi al deathcore) in cui il flauto, la cornamusa e l’arpa riescono ad oltrepassare la barriera sonora posta dai riff e dalla sezione ritmica; totalmente assente la voce femminile, a farla da padrona è la prova graffiante del frontman, supportato da blast beat incalzanti e sezioni strumentali aperte e melodiche. Proseguendo, The Raven Hill risalta le origini più folkeggianti e meno aggressive del combo svizzero, in cui il cantato in gallico delle due voci si fonde con le atmosfere popolari suggerite dalle percussioni, dalla ghironda e dai fiati. È di nuovo tempo di pausa con The Silvern Glow, un minuto e dieci secondi dal piglio acustico incentrati su flauto, arpa e mandola; al contrario di Ancus si tratta di una prova più strutturata e convincente, che avrebbe reso maggiormente se posta in versione ridotta come inizio del brano successivo. Si arriva a metà disco con Ambiramus, uno dei brani più catchy del lavoro: l’esplosione iniziale di archi e cornamuse su base folk metal lascia presto spazio ad una prova vocale di Fabienne qui supportata in modo molto limitato dalle harsh vocals, risultando talvolta piacevole (nell’attacco con accompagnamento fornito dall’arpa), talvolta stucchevole (è il caso dell’ultimo ritornello, al di sopra di un’ottava, con acuto finale non azzeccatissimo). Dopo quasi tre minuti è la volta di Mine is the Fury, pezzo che rispecchia il titolo: si tratta di una sfuriata sonora dai tratti oscuri sottolineati da riff thrash-oriented, da veloci inserti folkeggianti e dal perfetto utilizzo della ghironda come accompagnamento di una sezione ritmica densa e accattivante. Tocca a The Slumber il compito di ammorbidire le sonorità, dispiegando una prova che, ancor più di Ambiramus, delude a causa di un ritornello scialbo e poco ispirato (che, en passant, ricorda davvero molto The Call of the Mountains): peccato, perché l’alternanza iniziale tra le due voci su una base folkeggiante ben modulata faceva ben sperare. Giungiamo all’undicesima traccia con Worship, brano che vede la partecipazione di Randy Blythe dei Lamb Of God, unico special guest di Ategnatos. Inutile dire che ci troviamo di fronte all’ennesima prova aggressiva degli Eluveitie, introdotta dalla voce narrante su base gotica e oscura arricchita dai cori e dalla ghironda, per poi cedere il passo alla sfuriata di blast beat e riff cavalcata dall’ospite e dall’instancabile Glanzmann: il pezzo scorre molto bene tra rallentamenti e riprese, tra cambi tempo e parti più circolari, tra sezioni folk e rimandi black/death metal, facendo dello stesso uno degli episodi più accattivanti dell’opera. Dopo un ulteriore breve intermezzo (Trinoxtion) in cui le liriche femminili si accompagnano a cornamuse e flauto, è la volta di Threefold Death, i cui riff serrati ricordano molto quelli di Bloodstained Ground (contenuta in Slania): qui l’alternanza tra clean e harsh vocals, le prime guidate dall’arpa, le seconde dall’oppressione di chitarre e batteria, appare spesso spiazzante, con passaggi da melodia a robustezza davvero molto repentini; tralasciando la mancanza di legame graduale tra le due anime della band, è un pezzo a modo suo interessante, diverso dagli altri episodi del disco. La catchy Breathe avvicina l’ascoltatore al finale dell’album, con una prova unicamente femminile in un mid-tempo folkeggiante che decolla soltanto grazie all’assolo di Rafael Salzmann; un brano che, sulla scia di Ambiramus, delinea il lato stilisticamente più debole e meno avvincente della band. Ugualmente sottotono è Rebirth: dopo quindici tracce scivolare nel vortice del “già sentito” è inevitabile, soprattutto se si tratta di un brano ripetitivo e povero di idee. Spetta a Eclipse il compito di chiudere il cerchio: i suoi tre minuti non sono altro che la versione unicamente vocale di Rebirth, con la Erni che intona per tutta la durata il ritornello della già citata canzone senza però un accompagnamento, fatta eccezione per alcuni effetti di post-produzione.
Come emerge dalla disamina, Ategnatos è un album con episodi molto buoni su cui gravano scelte non sempre azzeccate. In primis occorre menzionare il ruolo non sempre eccelso della cantante: spesso appare come semplice accompagnamento delle harsh vocals, senza spiccare in termini di mordente ed efficacia; talvolta osa (troppo), come nello stacco urlato di Rebirth o negli acuti tirati di The Slumber; e, ancora, è relegata a trecentosessanta gradi in pezzi dal piglio catchy che non sono in grado di valorizzarla tecnicamente. Che ci sia ancora molta strada da fare sul versante femminile è un dato di fatto e sono inevitabili i paragoni con la Murphy, di cui la band sembra sentire la mancanza. Spetta a Chrigel il compito di incrementare il mordente dei pezzi, e non è un caso che i brani più riusciti (Ategnatos, Black Water Dawn, A Cry in the Wilderness e Worship) siano proprio quelli con focus sulle harsh vocals. Ad ogni modo, tralasciando la componente vocale, si tratta di un disco che si pone esattamente tra l’ancòra inarrivabile Slania e il più diretto Origins: è un lavoro pressante, con degli spunti tecnici notevoli e un connubio tendenzialmente azzeccato tra folk e death. Di sedici pezzi, solo tre sono dei veri e propri episodi sottotono, ovvero The Slumber, Ambiramus e Breathe; i brevi interludi di pausa rappresentano un capitolo a sé, più o meno trascurabile in base alla fruizione del disco (trovano senso, seppur molto debolmente, se il lavoro viene ascoltato dall’inizio alla fine, altrimenti sono del tutto trascurabili). Ottimo, dal suo canto, l’apporto produttivo, in grado di far emergere puntualmente la nutrita ed eterogenea schiera di strumenti. L’album, nonostante gli aspetti negativi su cui migliorare, rappresenta un buon punto di partenza per i prossimi lavori degli Eluveitie in chiave elettrica: chissà se con qualche accortezza in più i Nostri riusciranno a scalare vette più alte di Slania, i cui fantasmi aleggiano ancora indisturbati…
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6
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Qualcosa di buono c'è, a tratti anche fresco, con un bel tiro... la cantante non mi sembra nemmeno malaccio, non mi piace !questo! growl invece. A tratti è proprio zavorrante e fastidioso IMHO |
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5
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Loro mi fanno proprio rodere, accanto a delle costruzioni folk spesso di ottimo livello affiancano l'ennesimo rutt metal scellerato con chitarre ribassate e noiose, peccato davvero. I soliti suoni stereotipati senza alcuna fantasia condiscono il tutto. Che fine ha fatto la dinamica nelle produzioni rock?? Che importa, senti come spaccano sti bassi, e che volume assurdo, loro si che sono cattivi come me, così la faremo vedere ai compagni di scuola che non mi invitano alle feste, loro non possono capire la bellezza del rutt metal, è per pochi, solo per noi Eletti santificati da Belenos. Che importa se in realtà sta roba mi fa schifo, la imparo a memoria e vesto nero come un corvo, prima o poi una gnocca metallara la troverò, giusto?? |
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4
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Voilà, un album abbastanza bello e piacevole da ascoltare. Alterna pezzi veramente coinvolgenti come Black Water Dawn, ad altri effettivamente un po' troppo easy. Però, l'alchimia tra le parti metal/growl e gli strumenti "folk" (se mi permettete la definizione) è ottimamente bilanciata. Saranno generi diversi ma mi sta prendendo molto di più Byzantine Horizons dei Crown of Autumn che spero recensiate. Au revoir. |
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3
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niente...per me un bell'album..anche buonissimo..con un inutile e poco originalissimo GROWL è come buttato nel cesso !!! |
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2
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@alfie: Grazie della segnalazione, abbiamo corretto il refuso! |
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1
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Il disco dura un'ora e venti secondi, non un'ora e venti minuti |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Ategnatos 2. Ancus 3. Deathwalker 4. Black Water Dawn 5. A Cry in the Wilderness 6. The Raven Hill 7. The Silvern Glow 8. Ambiramus 9. Mine is the Fury 10. The Slumber 11. Worship 12. Trinoxtion 13. Threefond Death 14. Breathe 15. Rebirth 16. Eclipse
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Line Up
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Chrigel Glanzmann (Voce, flauti, mandola, cornamusa e bodhran) Fabienne Erni (Voce, arpa celtica e mandola) Rafael Salzmann (Chitarre) Jonas Wolf (Chitarre) Michalina Malisz (Ghironda) Matteo Sisti (Flauti, cornamusa, mandola) Nicole Ansperger (Violino) Kay Bren (Basso) Alain Ackermann (Batteria)
Musicisti Ospiti: Randy Blythe (Voce in traccia 11) Alexander “Sandy” Morton (Voce narrante)
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