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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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CORREVA L’ANNO - # 31 - 1995 seconda parte
10/02/2014 (4109 letture)
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Chi raggiunge la perfezione può permettersi di sperimentare a proprio piacimento, per dare completo sfogo alla propria Arte. Chi ha plasmato il death metal e lo ha poi trainato verso labirintici parametri tecnici, inoltre, può liberamente decidere di spaziare all'interno del genere stesso, iniettando dosi di melodia e cospicue architetture progressive: archiviati gli anni gore, rimarginate le ferite rimediate in trincea, Chuck Schuldiner era, nel 1995, un musicista completo e consacrato e l'aura di padrino del death metal gli era riconosciuta ormai all'unanimità, con dischi immensi come Human e Individual Thought Patterns a sancire la prova provata della sua tecnica incredibile, del suo genio sopraffino. Non aveva più nulla da dimostrare, Schuldiner; finalmente poteva permettersi di vivere della propria arte, scegliendo i musicisti di cui attorniarsi senza correre il rischio di nuovi tradimenti: aveva imparato la lezione, ed in quel momento più che mai teneva saldamente tra le sua mani le redini dei Death, la sua Creatura. Il nuovo lavoro della band americana, Symbolic, era molto più melodico e progressivo dei predecessori: ricercato, maturo, si districava tra mid-tempos potenti e desolanti, intrisi di malinconia e atmosfere oscure, riducendo in parte le veloci serrate ritmiche che fino al disco precedente erano sempre state presenti. Anche lo stile vocale di Schuldiner si fece leggermente più catchy nei refrain ed acuto nella timbrica, sterzando verso una sorta di screaming-growl che verrà perfezionato nel lavoro successivo. Le strutture, per quanto meno brutali e veloci, restavano complesse e molto articolate tanto nei riff quanto nelle trame e nelle sublimi sezioni soliste, trepidanti tempeste di note attraverso le quali lo shredder di casa ad Orlando riusciva ad esplorare tutte le più introspettive emozioni umane. Come la musica, anche i testi riflettevano il momento positivo vissuto dal chitarrista, dopo tanti anni di ostacoli e complicazioni di ogni sorta: a ventotto anni, Schuldiner sublimò il suo songwriting filosofico, mettendo da parte la rabbia e la forza a vantaggio di musiche e tematiche molto introspettive, riflessive e contemplative. Era il momento per guardarsi indietro e rimpiangere l'adolescenza perduta, era il momento per parlare di serenità e porsi delle 'eterne domande' sulla vita e sulla morte; liriche decisamente intime e personali, che sostituivano dunque i vecchi testi in cui il musicista si scagliava contro la falsità umana, i tradimenti, le bugie e le ignobili ingiustizie realizzate dalla decadente razza umana. Il nuovo sound dei Death era perfettamente esplicitato nella titletrack, Symbolic, un raggelante esercizio di truce ed avvolgente melodia progressive-death. Pezzi come Zero Tolerance, Empty Words o Sacred Serenity esprimevano con enfasi la curva tecnica perseguita dalla formazione americana, che nella monumentale Crystal Mountain dava una superba dimostrazione di tecnica e melodia; la velocità straripante e l'aggressività di sempre venivano concentrate in episodi devastanti come 1,000 Eyes o Misanthrope, oppure in sparute accelerazioni vorticose, innescate in brani progressivi e cesellati, ma tutte le composizioni che definivano il disco rappresentavano la definitiva dimostrazione di come Chuck Schuldiner sapesse mozzare il fiato non solo con la brutalità o con la tecnica, ma anche soltanto con la melodia. Certo, la componente melodica era presente anche nei dischi precedenti, ma in essi era perfettamente e simmetricamente bilanciata da peculiarità fondamentali come la velocità, la veemenza ed il virtuosismo, che nell'album seguente sarebbero tornate ad incastrarsi perfettamente, mentre ora rivestiva un ruolo centrale e assoluto. Era sorprendente come Schuldiner riuscisse ancora a cucire riff geniali e poderosi con assoli ancora una volta scintillanti, imprimendo nelle proprie composizioni melodie sinistre e stridenti, capaci di inscenare un senso angoscioso di disagio e desolazione: nonostante fosse più sereno che in passato, Evil Chuck manteneva i piedi per terra, ben conscio di come mai nella vita è possibile adagiarsi sugli allori. Tra i solchi del platter facevano comunque capolino argomenti spinosi come la religione, la tendenza del Sistema ad annientare e bollare come nemico chi 'usa e possiede la propria mente' -fino a costringerlo ad isolarsi da solo contro tutti- o la ricorrente falsità umana, un tema molto delicato per il chitarrista newyorkese. Perennial Quest era forse l'emblema stesso dell'equilibrio raggiunto da Schuldiner: '‘Da fiumi di dolore a oceani colmi di speranza: io li ho attraversati. Ora, non c'è modo di tornare. Il limite, il cielo'. I Death si erano rinnovati in tutto e per tutto, con le spigolature smussate nel logo e due nuovi musicisti -il bassista Kelly Conlon ed il guitarist Bobby Koelble- a raccogliere l'eredità pesante di due miti come Steve DiGiorgio e Andy LaRoque, troppo impegnati con le rispettive band per potersi stabilizzare nella line-up della Morte, che comunque si avvaleva ancora del drumming poderoso del ciclopico Gene Hoglan.
Nelle interviste del tempo, Schuldiner confermava la sua visione del mondo più matura e pacata: 'La gente ha modo di leggere nella mia vita. Penso che molte persone si rendano conto di questo e mi dicono che i miei testi sono molto profondi, e sembrano essere dolorosi, talmente da far toccare a loro stessi quel dolore. La vita non é perfetta: ho momenti in cui mi sento sul tetto del mondo e altri in cui mi sembra di avere il peso del mondo sulle mie spalle. Depressione, felicità, siamo tutti sulla stessa barca. Sono meno arrabbiato di un tempo. Ho imparato ad interagire meglio con le persone, anche con quelle da cui subisco un torto, e sono più sereno e riflessivo. Ho deciso di far tesoro delle esperienze, per cercare di guardare alla vita con altri occhi. Sarebbe bello se esistesse una droga che ci potesse far ritornare all’innocenza di quando eravamo bambini, quando guardavamo il mondo da un’altra angolatura'. Vi era un feeling fortissimo tra Schuldiner e Hoglan, un'amicizia salda e profonda che veniva solidificata tanto dalla purezza d'animo di entrambi questi ragazzi quanto dalla loro incredibile competenza in materia; il loro rapporto fraterno era speciale, come quello con Steve DiGiorgio: un autentico toccasana per Chuck dopo le pugnalate alle spalle di tanti falsi amici. Hoglan stesso ebbe modo di dire la sua su Symbolic: 'La preparazione di Individual Thought Patterns era stata frenetica ed ero contento di come erano uscite le mie parti; ho però dovuto adattarmi, era l'unica cosa che contava allora. Ho avuto troppo poco tempo e principalmente mi sono arrangiato col mestiere, mentre per Symbolic avevamo più tempo, da marzo a settembre 1994, per provare il materiale. Ho avuto più tempo per assorbire le mie parti. Tutto ciò che io suono rappresenta qualcosa, niente su Symbolic è privo di significato e quindi penso che non potrebbe esserci un titolo più azzeccato. Penso che la gente capirà, perché è tutto molto personale. Mi sono lasciato ispirare, in un modo o nell'altro, da tanti batteristi che comparivano nella mia mente. Symbolic rappresenta il modo in cui mi sento in questo momento. E mi sento bene! Credetemi, raramente ho goduto così tanto, il drumwork su quel disco è molto ricco e divertente'. Ma nuove tempeste erano alle porte, con la Roadrunner che mal promosse Symbolic, premendo invece sulla musica 'nuova' che iniziava ad essere etichettata come nu-metal; quando a Chuck fu chiesto di avvicinarsi allo stile dei Korn, egli non esitò ad andarsene sbattendo la porta: 'Alla Roadrunner hanno preferito puntare su band come i Type O Negative e cloni dei Korn, perché per loro il metal è quello. Ci hanno lasciato in balia di noi stessi, senza alcun supporto promozionale'. Schuldiner si sarebbe preso due anni sabbatici, sparendo dalle scene e dedicandosi alla composizione di un disco di progressive power metal destinato ad un suo progetto parallelo, i Control Denied: aveva sempre sognato di poter mettere in piedi una band di metal classico, melodico come quello dei suoi idoli di ragazzino e avrebbe coronato anche quel desiderio. Era giunto il momento di tracciare un bilancio complessivo, per Schuldiner, che così ripercorse tutte le tappe della sua carriera: 'Sicuramente sono soddisfatto di tutti i nostri album, anche se su ognuno di essi ci potrebbe essere qualcosa da cambiare, o da fare meglio. Ogni album é stato molto importante, a suo modo e ha mostrato quello che stava accadendo nella mia musica e nella mia vita in quello specifico momento. Quando ascolto il nostro primitivo Scream Bloody Gore penso che sia stato un album senza grandi pretese, ma che ha posto le basi per ciò che i Death sono oggi. Mi fa sorridere pensare ciò di cui ci preoccupavamo allora, il modo di esprimerci, di pensare, quello che era importante per noi e quanto le cose siano cambiate nel corso degli anni. Leprosy era sicuramente un passo avanti. Era più tecnico ed era già chiaro dove ci saremmo diretti in futuro. Spiritual Healing é stato molto progressista soprattutto dal punto di vista della produzione, oltre ad essere stata la nostra prima collaborazione regolare con Scott Burns. Human é l'album più aggressivo e progressivo di tutti i precedenti e per di più molto cupo. Anche Individual Thought Patterns é stato un passo avanti: io dico sempre che non si può certo peggiorare, quando si pubblicano due album identici. Non voglio che la gente dica che ho ingannato. Non ho mai voluto ripetere ciò che la gente potrebbe già aver sentito da noi e non credo che si possa temere che accada questo in Symbolic'.
Il death metal stava vivendo un momento molto felice, sia dal punto di vista artistico che da quello commerciale: tante band valide davano alle stampe masterpieces in serie, portando all'apice il movimento originato dagli stessi Death tra 1987 e 1990; l'attenzione mediatica mossa nei canali specializzati era davvero considerevole, considerata l'efferatezza della proposta. I Morbid Angel erano tra i massimi rappresentanti della scena, forti di una carriera che li aveva visti figurare tra i pionieri del genere e produrre una serie importante di classici imprescindibili. Manifesto di furia e violenza, intransigenti crociati anticristiani, i floridiani erano freschi di masterpiece: Covenant, uscito nel 1993, era stato un apice inarrivabile, forse il migliore dell'intera discografia per il brutale quartetto americano, da sempre alle prese con fendenti killer e ritmiche spaccaossa. Domination era ancora più pesante e feroce dell'illustre predecessore: esso poggiava su un ceppo di mid-time granitici e ossessivi, squarciati da accelerazioni probanti, dai consueti riff dissonanti di Trey Azagthoth e dai suoi assoli disarmonici, elementi tipici ed inconfondibili del classico Morbid Angel-sound, tutti rintracciabili nella devastante titletrack. Pur non eccedendo nei virtuosismi, la band sfoggiava notevole destrezza tecnica e la produzione, compatta e pulita, esaltava la cura dedicata a riff, arrangiamenti e assoli di chitarra. Azagthoth stesso sapeva di aver creato l'ennesima pietra miliare, più che mai fredda e apocalittica: 'In 'Domination' il suono si è fatto ancor più livido e tetro. Se nei primi due dischi guardavamo principalmente alla velocità, man mano abbiamo inserito passaggi meno accelerati. Abbiamo iniziato a usare la chitarra a sette corde per il terzo disco e per questo quarto album abbiamo accentuato questa alternanza di riff, ora iperveloci ed ora lenti. Minacciosa e inquietante, la band si dimostrava truce e matura attraverso brani come Eyes To See, Ears To Hear, pezzo dal drumming scrosciante e dalla curata sezione solista, o Nothing But Fear, che si muoveva pachidermica prima di stendere l'ascoltatore con blastbeat repentini e accelerazioni improvvise; anche Dawn of the Angry si apriva granitica e slowly per poi sfociare in un'elettrizzante ritmica thrashy, molto concitata, accompagnata dall'infaticabile doppio pedale di Pete Sandoval e dai riff quanto mai lugubri di Azagthoth. Puntava sulla velocità immediata e sfrontata, invece, Thie Means War, terremotante fin dall'avvio e poi per tutto il suo letale scorrimento, sfrenato, rapidissimo emblema di un death metal crudo, potente e senza alcun compromesso. Where The Slime Live era cadenzata, insalubre, soffocante, così come Caesar's Palace, mentre un altro mid-tempo, Inquisition, mostrava il terrificante groviglio di riff contorti ed imbevuti nel veleno, inconfondibile trademark di Azagthoth. La marziale Hatework concludeva il disco con un incedere teatrale e apocalittico, rallentato in un torvo scenario di disagio e scandito da un drumwork intimidatorio. Sebbene potrebbe sembrare di facciata, l'analisi di David Vincent era corretta: 'Il nuovo album non ha nulla a che fare con i precedenti. Questo perché con ogni disco cerchiamo di non ripeterci ma di proseguire, affidandoci al nostro maggior talento: l'originalità'. Il cantante e bassista si distinse su questo full length per una prova vocale leggermente più corposa e profonda rispetto ai precedenti dischi: 'Ho semplicemente smesso di fumare, per questo la mia timbrica ha assunto altri toni. Ho deciso di abbracciare uno stile di vita più salutista, per cui anche la mia voce ha tratto giovamento, ora è anche più potente'. Trey Azagthoth, come di consueto stregato dalla mitologia sumera, non la vedeva proprio nella stessa maniera: 'E' la voce di Shub Nigguroth (divinità del mito di Cthulu, ndr) quella che canta per noi, perché può assumere ogni forma che vuole, anche quella di Dave'. Tuttavia Vincent stava per abbandonare la band, all'apice della sua gloria: le divergenze musicali con Azagthoth erano crescenti, come crescente era la partecipazione del cantante nel progetto industrial Genitorturers della moglie Gen. La rottura fu inevitabile, come testimoniato dal chitarrista: 'Dave ha preferito dirigersi verso altri territori. E' libero di farlo, ma non condivido nulla di quello che fanno i Genitortures. Tutto quel sesso fine a sé stesso, spiattellato in faccia. Non è erotismo, è pornografia, è volgarità pura'. Gli attriti riguardavano sia l'ambito umano che quello professionale, dato che Azagthoth non gradiva neppure la natura sempre meno spirituale dei testi scritti da Vincent, che diede il suo addio dopo l'uscita del live Entangled in Chaos, un epitaffio che celebrava sontuosamente la prima parte di carriera della band floridiana.
Se si parla di death metal o comunque di metal estremo, non si possono non citare i Deicide, artefici di un sound efferato e assassino. Dopo due dischi massicci e spinti, la creatura del truce ed eccentrico Glen Benton aveva affilato le armi per riproporsi con tutta la consueta brutalità ed il tradizionale astio religioso. Torvo e minaccioso, il nuovo Once Upon The Cross era più melodico dei predecessori ma altrettanto tremendo e spietato, con le sue repentine ritmiche a rincorsa, gli assoli fulminanti, le letali scale death metal, visionarie e perverse; i fratelli Hoffman creavano un muro sonoro spesso ed non scalfibile, arrangiando peraltro pezzi tecnicamente validi e riff intricati nonostante fossero emblema di un death metal lineare e glaciale. Le composizioni erano mazzate potentissime e prive di orpelli, concise e mai oltre i quattro minuti di durata. Rullate martellanti, sfrecciate di doppia cassa e rutilanti blastbeat costituivano una matassa brutale come poche altre all'epoca, mentre la voce di Benton diventava sempre più cupa e orientata al growl disco dopo disco; i refrain vocali erano semplici e imbevuti di adrenalinica veemenza. Un drumwork tellurico ed un refrain irresistibile incendiavano da subito il disco attraverso l'opener Once Upon The Cross, mentre un andamento pesantissimo introduceva alla perentoria mazzata che rispondeva al titolo di Christ Denied; le tematiche anticristiane nei solchi del platter erano feroci e infatti proprio in quel periodo la figura di Glen Benton assumeva toni più estremisti che mai, come confermato dalla blasfema copertina scelta per il disco e dalla conseguente censura europea: 'Questo mi dà molto fastidio! La copertina pubblicata in Europa non è quella che avevo scelto originariamente, dato che quest'ultima è stata censurata perché giudicata troppo blasfema. Quelli della casa discografica hanno quindi coperto il Cristo sbudellato con un lenzuolo in modo che i particolari più forti risultassero coperti. La vera cover è stata dunque riprodotta all'interno dell'album e mostra, come ho detto, Gesù Cristo smembrato, con gli intestini e le budella che gli fuoriescono dalla pancia aperta. Gli si vede anche il pene quindi non si può dire che non sia dettagliata graficamente! L'artwork è opera di Trevor Brown che con il suo lavoro è riuscito a creare proprio quello che desideravo, e cioè qualcosa di brutale che fosse profondamente offensivo nei confronti di quel perbenismo e moralismo cattolico che io tanto disprezzo. Del resto come ho espresso nella canzone 'Kill The Christians' io quei bastardi di Cristiani li vorrei vedere tutti morti! Il mio odio nei loro confronti è totale, li odio con tutte le mie forze e finché ne esisterà anche uno solo avrò quest'enorme rabbia che mi esplode dentro. Comunque, se loro non mi avessero rotto i coglioni così tante volte nel corso della mia vita probabilmente ora non sarei posseduto da tutto questo disgusto nei loro confronti'. Superata l'oscura e possente When Satan Rules His World si giungeva alla traccia simbolo dell'intera carriera dei Deicide, ovvero la già menzionata Kill The Christians, col suo accanimento ritmico terremotante ed il chorus irresistibile; incalzante era anche They Are the Children of the Underworld, con le sue repentine ripartenze a rincorsa e gli assoli acuminati, mentre il disumano e scrosciante drumwork di Steve Asheim veniva esaltato una volta di più da tremebonde bordate come la compatta Behind the Light Thou Shall Rise, attraversata dal growling cavernoso di Benton, che al tempo dichiarava: 'Sono molto soddisfatto del nuovo lavoro e sono sicuro che anche ognuno dei nostri fans lo sarà! Siamo tornati al sound dei nostri primi dischi e abbiamo così optato per un impatto estremamente pesante. Giravano voci che avremmo rallentato il ritmo dei nostri pezzi, ma erano tutte cazzate! I nostri fans possono essere sicuri del fatto che non ci venderemo mai! Ce ne fottiamo del successo commerciale, e anche se ora va di moda essere lenti e pesanti noi ce ne fottiamo, presentandoci al pubblico con un lavoro dannatamente veloce'! Violento e claustrofobico, il full length non lasciava filtrare nemmeno un filo di luce e speranza.
Più brutali, tecnici e furibondi che mai, intanto, i Suffocation tornarono col loro terzo Pierced From Within, innovativi a discapito dell'apparente semplicità dei devastanti riff, dei blast-beat e del profondissimo e oscuro growl di Frank Mullen. Il loro era brutal death feroce e massacrante, tra i più violenti mai uditi da orecchio umano, privo di ogni orpello ed espediente melodico. Un certo interesse venne riscosso anche da Haunted, debutto dei Six Feet Under, che introducevano alcuni elementi groovy su uno spartito di death metal tradizionale: a catturare orecchie e commenti contribuì la presenza al microfono di Chris Barnes, ex cantante dei Cannibal Corpse e al basso di Terry Butler, con un passato tribolato nei Death di Chuck Schuldiner. Completamente opposta era la direzione intrapresa dai debuttanti svedesi Opeth, che innescavano fughe di progressive settantiano e atmosfere eteree al'interno di scenari tipicamente scandinavi: il loro Orchid annunciava che qualcosa di importante stava per avvenire, ampliando gli orizzonti di quanto esplorato da visionari virtuosi dell'estremo come Cynic e Atheist. Raffinata ed elegante si era ormai fatta anche la proposta dei Paradise Lost: il lavoro che diedero alle stampe in quel 1995, Draconian Times, è tuttora ritenuto uno degli apici assoluti della band capitanata da Nick Holmes, che si era guadagnata grande rispetto nel corso degli anni grazie alla sua miscellanea di death, doom e gothic. Draconian Times ampliava queste vedute gotiche proiettando ai massimi termini la complessità degli arrangiamenti e creando truci atmosfere notturne. Nell'ambito del death melodico, un sottogenere che stava vivendo i suoi anni migliori, destò scalpore l'uscita di un disco importante come The Gallery, secondo lavoro in studio dei Dark Tranquillity: si trattava del full length più completo in assoluto della band svedese, che qui mostrava cenni dal debut Skydancer e anticipazioni di quello che avrebbe proposto negli anni a venire, cimentandosi in un death progressivo e dalle metriche atipiche, decisamente poco scolastico nonostante la presenza di melodie intense e assimilabili. Svedesi anche gli At The Gates, altra band seminale nella storia del death melodico: con Slaughter of the Soul essi dimostrarono di essere parecchi anni avanti rispetto a molti contemporanei, mescolando melodie cristalline e radici thrash al loro canovaccio death metal, ispirato dalle geniali intuizioni che i Carcass avevano dettato anni prima col sorprendente Heartwork. I loro connazionali Therion, fino a quel momento autori di un death metal discreto ma non trascendentale, sterzarono col quarto album Lepaca Kliffoth verso coordinate sinfoniche, assoldando due cantanti lirici e completando così le contaminazioni provenienti dal Jazz, dall'industrial, dall'heavy metal classico e dalla musica sacra, già avvertibili negli ultimi lavori. Da segnalare, infine, le pubblicazioni di Dismember (Massive Killing Capacity), Crematory (Illusions), Dissection (Storm of the Light's Bane) e Benediction (The Dreams You Dread), che sancirono l’eccellenza in campo estremo.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non tutte le icone del thrash metal ottantiano si erano convertite negli anni '90 a sonorità commerciali, anzi. I tedeschi Kreator tornarono sulle scena con l'impattante Cause For Conflict, a tre anni dal controverso Renewal: l'album del 1992 aveva rappresentato l'abbandono dello stile classico a favore di un thrash-industrial, più secco e monodirezionale, mentre il nuovo lavoro riportava l'act di Essen su coordinate più elaborate, per quanto non certo old school. Il disco, infatti, poggiava ancora su brani cupi e moderni nel riffing, veloci e prestanti ma ammorbati da un groove ossessivo e claustrofobico, compattato sotto la cruenza asettica dell'hardcore più feroce. Lo storico drummer Ventor se ne era andato, sostituito dal granitico Joe Cangelosi: ed era proprio il suo terremotante apporto ritmico a giganteggiare nell'album, togliendo la centralità alle chitarre, compresse e pesanti ma difficilmente autrici di riff al cardiopalma. Mille Petrozza, leader assoluto della band, guidava il quartetto con linee vocali rabbiose ma prive di refrain caratterizzanti: ne conseguiva un disco spesso, pesantissimo e dotato di pezzi molto duri, veloci e scanditi dal suono asciutto e asettico del doppio pedale, un lavoro inflessibile e moderno ma, per quanto più che buono, non all'altezza dei grossi calibri del passato, privato dei cari assoli al fulmicotone e di spunti memorabili. Bordate come Catholics Despot o Prevail martellavano gli ascoltatori con atmosfere insalubri e sonorità compattissime, alternando sfuriate tiratissime a massicci rallentamenti; Progressive Proletarians, tra i migliori episodi del full length, accendeva la miccia con repentine e velocissime ritmiche a rincorsa, figlie del più diretto thrash ottantiano contaminate con sonorità moderne e dense di groove. Anche Men Without God andava dritto al sodo con debordanti stoccate ritmiche, ma al contempo stupiva attraverso un atipico e dissonante riff centrale; Petrozza puntava il dito contro politicanti e clericali in testi al vetriolo, sfogando tutta la sua ira in velocissimi schiaffi senza compromessi né inflessioni melodiche come la breve e concisa Dogmatic, dal taglio quasi hardcore. Crisis of Disorder, Lost e Isolation, tenebrose e più cadenzate, esploravano sentieri decadenti che sarebbero stati ripresi nel successivo Outcast, album che di thrash avrebbe avuto ben poco. Il thrash classico era evidentemente in crisi, tanto da sembrare terribilmente fuori moda: bisognava reinventarsi, e Petrozza voleva farlo senza abbandonare la consueta potenza di fuoco. Il chitarrista aveva optato per sonorità massicce e oscure, che potessero esprimere il suo forte pessimismo interiore senza perdere la rabbia e la velocità che erano tipiche dei Kreator: il risultato era controverso e non soddisfece i fans oltranzisti, ma Cause For Conflict non era affatto un brutto disco e potrebbe essere catalogato come il secondo esperimento -dopo Renewal- di thrash moderno per lo storico moniker tedesco, valido e per molti versi interessante. I loro connazionali Sodom, passati alla storia con epocali manifesti di thrash bellico come Persecution Mania ed Agent Orange, erano deflagrati addirittura in un superlativo death/thrash con Better Off Dead e Tapping The Vein, prima di assumere rabbiosi connotati hardcore in Get You What Deserve, il massacrante disco che nel 1994 introdusse nella band di Tom Angelripper il nuvo drummer Atomic Steif. Nel 1995 la band pubblicò il suo settimo lavoro, il tiratissimo e spietato Masquerade In Blood, ancora caratterizzato da uno thrash grezzo e minimale ma fortemente influenzato dall'hardcore-punk, oltre che caratterizzato da una produzione potente e corposa. La velocità restava dunque prominente e feroce, in pezzi diretti come mazzate nei denti e privi di compromessi: scorrevano velocissimi, senza rilevanti refrain vocali e riff da antologia, limitandosi ad un incessante martellamento ritmico dal quale non filtrava un solo istante di respiro. La band si limitava a pestare durissimo, senza imbastire strutture particolari e correndo a più non posso su un accanimento ritmico furibondo: la titletrack era uno degli episodi migliori e più violenti, così come la scorbutica Braindead -devastante nello scuotimento batteristico e nella sezione solista lancinante- o le esplosive Shadow of Damnation e Peacemaker's Law, autentici scatti di furia trainati da un riffato tagliente e ripetuto con dissennato furore. Il vocalism di Angelripper restava molto aggressivo, mentre il suo basso dava una robustezza inscalfibile alle tracce, tutte tiratissime e dal minutaggio risicato: forse la varietà era il difetto principale del platter, perché non vi era alcuna grande differenza tra le varie sassaiole che di volta in volta si chiamavano Murder in My Eyes, Unwanted Youth o Mantelmann. La sola Fields of Honour possedeva un andamento vagamente più orecchiabile ed era il classico pezzo casinista dei Sodom; cantata in lingua tedesca, Verrecke! era altrettanto tipica e strafottente, ma ben più veemente e caotica nello stile; forse erano Scum e Hydrophobia a rappresentare i momenti più vari del disco, grazie ad alcuni passaggi molto potenti e cadenzati dai quali si ripartiva con la consueta spietatezza. Come nel caso del disco precedente, l'album non era certo un capolavoro ma restava godibile ed efferato, un episodio di tutto rispetto che manteneva salda e credibile la reputazione dei tedeschi; alcune frizioni interne, però, portarono la band allo scioglimento dopo la pubblicazione, con Angelripper che decise di raccogliere i cocci e dedicarsi ad uno strampalato progetto personale nel quale rivisitava filastrocche popolari e canzoni natalizie. Il 1995 vide anche il debutto omonimo degli americani Nevermore, un thrash epico e ricco di riff e melodie che, pur ancorandosi ancora alla tradizione, mostrava diverse sfaccettature -ritmiche e vocali- atipiche per il genere, fatto che avrebbe portato una lunga discussione a proposito della classificazione di questo e dei successivi dischi del quartetto. Grande attenzione mediatica era concentrata attorno a Power of Inner Strength, debutto dei Grip Inc., band di groove thrash messa in piedi da Dave Lombardo dopo la dipartita dagli Slayer: 'Voglio mostrare a tutti che Dave Lombardo non è solo un metal maniac! Posso suonare hardcore, ma anche blues o funky, insomma ora posso esprimermi più di quanto abbia mai fatto con gli Slayer'. Gli ex Death Angel si facevano ancora sentire sotto il moniker The Organization e pubblicavano Savor the Flavor, mentre i DRI perpetuavano il loro crossover-thrash in Full Speed Ahead e gli Anthrax tornavano alla ribalta col modesto Stomp 442, una miscellanea di idee e stili che spaziavano da una sorta di pseudo-nu metal ad un post-thrash novantiano senza però mai entusiasmare: si trattava del secondo disco col nuovo singer John Bush, ma il livello era decisamente più basso rispetto al discreto esordio Sound Of White Noise, che ad ogni modo non si avvicinava ai grandi fasti thrash dell'era-Belladonna. Curioso e per certi versi sfizioso, Hidden Treasures era un EP contenente cover e b-sides, rilasciato da parte dei Megadeth di Dave Mustaine dopo il successo di Youthanasia: tra le altre spiccavano la cover di Paranoid dei Black Sabbath, di Problems dei Sex Pistols e la bellissima inedita Angry Again.
Nelle viscere più profonde e sulfuree del panorama metal internazionale, quelle lande maciullanti e ossessive dominate dai signori del Destino, i Cathedral continuavano a recitare il ruolo di leader assoluti del movimento. Con The Carnival Bizarre la band di Lee Dorrian riprendeva il suo consueto doom figlio del Black Sabbath-sound, spruzzandolo di un'ulteriore spinta di hard rock settantiano rispetto al precedente Ethereal Mirror, che aveva ampliato la componente melodica rispetto al pesantissimo esordio Forest of Equilibrium: ecco dunque la band britannica alle prese con l'ennesimo capolavoro, innervato dai corposissimi e pesanti riffoni di chitarra di Garry Jennings ma caratterizzato anche da linee vocali più melodiche e certi mood più dinamici. I pachidermici giri di chitarra, peraltro eccezionali e gli assoli fluenti ricordavano in tutto e per tutto lo stile di Tony Iommi, ma al tempo stesso suonavano personali e capaci di garantire ai Cathedral un suono inconfondibile e caratteristico; le consuete avanzate catacombali, dal riffing maciullante e trascinato, rispondevano ai titoli di Night of the Seagulls, sette minuti di ossessiva ed inquietante psicosi ultra-slowly, Inertias' Cave -altra gemma oscura, una granitica spirale strizzacervelli inequivocabilmente devota al Sabba Nero- e Palace of Fallen Majesty; le venature seventy e gli innesti melodici rendevano più vario il poderoso sound dei britannici, le cui radici venivano manifestate con orgoglio dallo stesso Dorrian: 'Non ho mai tenuto nascosta la mia passione per gli anni settanta e anche, ovviamente, per il progressive rock. Mi è sempre piaciuto provare a far rivivere la musica, ma anche le atmosfere di quei tempi, soprattutto se unite ad un genere come il doom che, se ci pensi bene, proviene anch'esso da quell'epoca. La maggior parte dei gruppi si sono sempre limitati a seguire le lezioni impartite dai Black Sabbath, noi invece ci siamo spinti oltre, cercando di abbracciare un po' tutti i generi che hanno preso vita nei 70's'. Permeato da suoni profondi e da una inscalfibile potenza di fondo, il platter contava dunque anche su composizioni più variegate e dalle trame più elaborate: la grandiosa opener Vampire Sun e la straordinaria Utopian Blaster, che esplodeva dopo un attacco da oltretomba, erano cavalcate mortuarie ma dinamiche, create sulla falsariga di Children of the Grave ed impostate su riff granitici, svolazzi melodici e assoli bollenti. Assolutamente meravigliosa era Hopkins (The Witchfinder General), con le sue sezioni melodiche stupende, la sua chitarra rocciosa e quel mood suggestivo, praticamente irresistibile; ottimo pezzo anche la titletrack, un andamento saltellante con tanto di stridente refrain ipnotico, riff massicci e rallentamenti atmosferici davvero suggestivi. Più dura e moderna suonava Fangalactic Supergoria, che esibiva un vocalism molto più aggressivo -vicino a quello di Forest Of Equilibrium- ed un continuo movimento tra parti più esplosive ed altre cadenzate come la Morte. Blue Light era invece fortemente melodica e malinconica, con le tastiere ad accompagnare la recita evocativa di Dorrian. Interpellato sul suo remoto passato nei Napalm Death e sullo stile lirico e sonoro dei Cathedral, spesso ironici ma sempre introspettivi, Dorrian affermò: 'All'epoca dei Napalm Death non ero semplicemente un teenager arrabbiato. Ho avuto problemi con la polizia quando ho iniziato a far parte della band, e così ho preferito uscire dal giro. I Cathedral invece sono più come un viaggio mistico e magico, mi permettono di avere una visione introspettiva della vita, piuttosto che urlarle contro con rabbia. Riassumendo: i Cathedral sono più un viaggio, un percorso, coi Napalm era invece un brutale attacco'. La fatidica prova del terzo disco, dunque, sancì la grandezza di una band matura e ormai entrata di diritto nella storia del metal. In ambito doom, si fecero segnalare anche i My Dying Bride, col loro capolavoro The Angel and the Dark River: un album che perdeva alcuni elementi death precedentemente insiti nelle corde degli inglesi, che ora si facevano più malinconici e quasi romantici. Buono anche il ritorno degli storici Saint Vitus, che con Die Healing riabbracciarono il singer Scott Reagers ed un doom più granitico dopo qualche sperimentazione r'n'r avvenuta sul precedente COD; si trattava del settimo disco in studio per l'act losangelino, che tuttavia stava per andare incontro allo scioglimento temporaneo, figlio anche di un panorama non più attratto dalle sonorità classiche settantiane. Non erano prettamente doom, i portoghesi Moonspell, ma le atmosfere funeste e decadenti evocate dal loro ibrido di gothic, black, doom e symphonic rendeva bene l'idea del luttuoso stato di decadenza creato nel debut Wolfheart, accolto molto bene dagli esponenti della stampa specializzata.
La gelida scena black metal, intanto, viveva i suoi giorni migliori. Battles In The North, terzo full length dei norvegesi Immortal, di fatto era la summa del genere stesso: un concentrato di ferocia disumana, un muro sonoro costruito attorno a pochissimi riffs morbosi, supportati da una batteria demoniaca e priva di ogni minima decelerazione, oltre che da uno scream vocale corrosivo. Senza mezzi termini: un autentico manifesto del genere. Coperto di sangue e corpse-paint, il chitarrista Demonaz Doom Occulta dichiarava al tempo: 'Con questo disco abbiamo voluto rendere omaggio alla storia delle nostre terre, da sempre bellicose, commentando i fatti ed esprimendo i nostri sentimenti. Al contrario di quanto la gente vuole credere, il legame degli Immortal con le tradizioni nordiche è però molto debole. Certo, non nego di portare dentro di me una parte delle nostre tradizioni, ma questa è una cosa personale e non riguarda la band: vogliamo che la gente ci guardi come musicisti e non come profeti di qualche astrusa verità! Non faccio altro che leggere articoli che ci dipingono come pagani o satanisti, questo è un mare di cazzate perché gli Immortal non sono una band religiosa, non adoriamo nessun dio. Di quello che accade nel circuito black metal non ci interessa niente, siamo sempre stati una band al di fuori di quell'universo e abbiamo sempre lavorato in solitudine'. La stampa dell'epoca fece notare i continui ritardi sull'uscita del disco, ma anche alcuni errori di batteria nello stesso, motivati così da Demonaz: 'Da quando esistono gli Immortal non hanno mai trovato un degno batterista, ne abbiamo provati una marea ma nessuno era in grado di tenere testa alle nostre velocità e questo ci ha portati a registrare il disco con Abbath, il nostro bassista e cantante, alle pelli'. All'efferato movimento contribuì anche Panzerfaust, quinta opera in studio dei Darkthrone, i quali avevano però già vissuto i loro momenti aurei nel biennio precedente. Guidati dal diciottenne cantante e chitarrista Nergal, i polacchi Behemot debuttarono con il magmatico Sventevith (Storming Near the Baltic), che si rifaceva ancora alla tradizione black metal norvegese. Ma non vi era solo il metal tradizionale, quello di cui vanno fieri i puristi, a popolare le giornate dei ragazzi di metà anni novanta, attratti in una certa misura anche dalle novità che soffiavano impetuose e venivano annunciate regolarmente attraverso le colorite pagine dei magazine specializzati. Con una colata di freddi suoni cybernetici e rumori metallici, i Fear Factory di Demanufacture sembrarono spazzare via il classico spirito rock'n'roll, tutto passione e genuinità: il loro secondo disco attaccava con sfumature ciniche e doppio pedale martellante, polverizzando le resistenze degli ascoltatori con riff modernissimi e glaciali. I puristi storsero il naso, ma di fatto la band del possente chitarrista Dino Cazares stava esplorando territori innovativi, portando il metal all'industrial tanto quanto i Rammstein di Herzeleid. Nello stesso anno ci fu anche il passo d'esordio per gli Strapping Young Lad di Devin Townsend, ancora grezzi nel loro Heavy as a Really Heavy Thing, un'altra band che in seguito sperimenterà con sonorità moderne e poco inclini al revivalismo a cui la musica metal ci ha sempre abituati. Cyber metal è una definizione strana, alle orecchie degli appassionati di metal classico, ma proprio in quella metà di anni novanta stava trovando una collocazione stabile ed un periodo positivo: il secondo lavoro degli svedesi Meshuggah, Destroy Erase Improve, era ancora permeato da fucilate thrash/death, eppure già esprimeva clangori asettici, anticipando il cyber-death 'matematico' che sarebbe seguito e rappresentando un'ottima sintesi tra vecchio e nuovo corso. In ambito alternative, da menzionare è l'omonimo disco degli Alice In Chain, triste, disperato e malinconico retaggio del movimento di Seattle; per quanto concerne il prog metal, invece, molti elogi furono ricevuti da Act II: Galileo dei nostrani Time Machine e da A Change Of Seasons, un EP dei Dream Theater contenente l'omonima suite -della durata di ben 23 minuti- oltre alle cover di gruppi come Deep Purple, Led Zeppelin, Queen e Pink Floyd, la maggior parte delle quali vennero arrangiate in un unico brano denominato The Big Medley. Il mini-album segnò anche il debutto in line-up del nuovo tastierista Derek Sherinian. Nell'ambito classico, già ampiamente trattato nella prima parte di questa retrospettiva, si segnalarono anche l'ottimo Masquerade dei 'pirati' Running Wild e il prepotente Black In Mind, ennesima fatica degli infaticabili Rage: ormai trovata una dimensione stabile ed una maturità consolidata, i devastanti tedeschi erano diventati a tutti gli effetti una realtà solida e apprezzata del power-thrash internazionale. E' anche l'anno del suicidio di Ingo Schwichtenberg, ex drummer degli Helloween, un dramma figlio della depressione e della tossicodipendenza, che getta un alone di oscurità sul colorato e apparentemente positivo universo power metal e non solo.
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c'erano anche i Vader con De Profundis tra le migliori uscite death dell'est europa |
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tanta roba anche qui. A change of season una canzone della madonna, per me la migliore dei DT. e poi Fear Factory, The Gallery.. Rage. Ottimi anche per me i Time Machine, orgoglio italiano, bravi davvero. e poi purtroppo la morte di Ingo, un grandissimo. Rip. |
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bellissima seconda parte! Ottimissimi Paradise Lost, Running WIld in forma smagliante. Rage, graditissima la citazione sui Time Machine... quell'album l'ho letteralmente consumato!!! Deicide, Dark tranquillity, lo stupendo e sottovalutato Amok dei finnici Sentenced e visto che altrove si parlava di folk su tutti in questo anno quell'album da sogno che risponde al nome di The Silent Whales Of Lunar Sea degli Skyclad!!!!!!!! tanta, tantissima carne al fuoco, ragazzi! Altro che metal morto nei 90!!! |
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Certo, ma come vedi è una parentesi molto breve rispetto a quanto dedicato al resto, purtroppo qualcosa 'scappa' inevitabilmente e per questo contiamo anche sulle segnalazioni di voi lettori in sede di commento, in modo che potiate dire la vostra su eventuali uscite che io mi 'perdo' in un'immensità tanto cospicua di cose di cui parlare!  |
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certo, ma sai perché l'ho detto? perché hai parlato di rammstein, fear factory e alice in chains, quindi la parentesi sul metal alternativo l'hai aperta, e adrenaline dei deftones ci calzava a pennello, visto che assieme al debut dei korn rappresenta l'atto di nascita del genere "innominabile"... comunque fa niente eh...  |
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@Nu Metal Head: Come ho spiegato altre volte, in questa rubrica mi concentro soprattutto sul metal 'classico' (thrash, heavy, power, death, black, prog) e quindi è facile che 'salti' qualcosa appartenente a generi differenti e alternativi... Diciamo che non è questo il luogo, non epr discriminazione ma per scelta di programmazione. Anche eprchè altrimenti servirebbero 10 puntate per ogni annata per parlare di tutto!  |
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non per dire ma nella sezione "false metal" avete scordato adrenaline dei deftones (e non mi pare poco)... |
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"The machine is now alive/to wreak havoc in your lives/there's no use to hold me back/i am ready to attack!" Una sfracca di roba nel '95 Domination, Demanufacture, Symbolic, Slaughter of the Soul e devo ancora recuperare DEI, The Gallery, The Carnival Bizarre ecc. |
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Concordo con herr julius, io ho imparato ad apprezzarli con il tempo e molti ascolti, non è certo musica "immediata", ma se ti entrano nel cuore ci restano per sempre |
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@rada...gli aic sono una band difficile, o la si ama o la si odia, la via di mezzo secondo me non ci sta per una band che non ha mai sbagliato un colpo, compresi gli ultimi 2 capolavori post Réunion. |
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Eccellente articolo, ma avrei dato molto più spazio ai My Dying Bride ed al loro The Angel and The Dark River, secondo me pienamente alla pari dei Cathedral. |
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Ahahah Lux...si, detto alla brutto zio si, è proprio così!!!! Hai sintetizzato il Rada-pensiero!!! |
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@Rada: direi che si capisce, sintetizzando direi che li rispetti come artisti, ma la loro musica ti fa cagare a spruzzo!! ....Cmq strepitoso anno, oltre ai capolavori power della prima parte, qui altri oggetti da adorazione: per me in cima alla lista Death, Morbid Angel (primo disco acquistato il mitico domination a 13 anni), l'esordio fantastico degli Opeth, ad oggi uno dei miei preferiti della loro discografia, lo stra capolavoro dei Dark Tranquillity, l'ultimo gioiello degli AIC originali....pazzesco...penso però che il più consumato quell'anno sia stato un disco che mi è entrato nel cuore senza più uscirci: Draconian Times, per me top assoluto del gruppo...bell'articolo Rino!!! |
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Che dischi... i Death, i Morbid Angel con il capolavoro Covenant, gli Immortal, i Behemoth quando ancora suonavano ottima musica e non la merda di oggi, i Deicide... purtroppo nulla di tutto questo tornerà più... dischi immortali |
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herr julius: mhmmm...non so, è un disco di classe come molti degli Alice ma proprio non li digerisco, per quello che lo reputo così...non si può negare che sia una band di altissima qualità e anche questo disco non ne è da meno ma è il mio gusto personale che proprio non lo manda giù. Obiettivamente, da amante della musica, gli darei un voto superiore all'80 ma a me personalmente non fa impazzire come non fanno impazzire i dischi di questa band e il genere a loro correlati. Non so se si è capito il senso del mio post, forse è più facile dirlo a parole che scriverlo... |
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@Lord Ancalagon io avevo Legion, bello, potentissimo, ma dopo un po mi ha stufato. Poi ho chiuso definitivamente con i Deicide dopo averli visti live nel tour di "Once Upon...": inascoltabili, volumi altissimi (soprattutto delle chitarre) che facevano un miscuglio assurdo di suoni, non si riconosceva un pezzo dall'altro, una vera monnezza. Oltretutto finito lo show (cioè finito il rumore), Benton è sparito nel backstage senza fare un misero bis, un saluto, mi sarei accontentato anche di un dito medio alzato, manco quello. Per me i Deicide sono morti quella sera, e meno male perchè da Once Upon... in avanti hanno fatto solo dischi mediocri o penosi. |
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Ancora -come sempre- ottimo articolo, poii devo cercare vecchie interviste fatte al signor Benton, c'è da morire, spulcerò anche vecchie riviste di settore... |
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Grande annata senza dubbio, su tutti direi Symbolic, The Gallery e il devastante Battles in the North, questi ultimi due dei dischi che mi hanno introdotto al Metal estremo. Molto bello senza dubbio il masterpiece degli Alice in chains, anche se quella copertina m'ha sempre messo una tristezza infinita e forse Radamanthis a questo si riferiva. Sui Deicide che dire? I primi due dischi non si toccano, son storia, ma Benton come personaggio non l'ho mai digerito, un pagliaccio della peggior specie, forse del ferro rovente doveva farne un altro uso... ehm ehm. |
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definire l'omonimo Alice in chains (tripod) un obbrobrio è da reato penale... |
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Che album spettacolari in quell'anno: i meglio furono senz'altro Symbolic, Draconian Times e The Gallery, che letteralmente mi fulminò: fino a poco prima non avevo mai sentito nominare i Dark Tranquillity, e in brevissimo tempo mi presi anche il precedente Skydancer, fu l'alba di un nuovo amore per il death svedese. Per non parlare di Demanufacture e Slaughter of the Soul, altre due perle assolute, fantastici ! |
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@herr julius cosa ti puoi aspettare da un elemento che si stampa con un ferro rovente una croce rovesciata sulla fronte, si vanta di torturare e uccidere gli animali, e chiama il suo primogenito Daemon ?? |
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Seconda parte del 95 interessante per le uscite death, due dischi che tutt'oggi ascolto volentieri: Symbolic dei Death (strabiliante disco, ricordo l'Mc che Mauro My Refuge portava sempre in classe e via di walkman....(azz, bei tempi! ) e The gallery dei Dark Tranquillity. Ricordo anche quell'obriobrio degli Alice in Chains (mi fu regalato e non sono mai riuscito a sbolognarmelo....devo averlo ancora in giro da qualche parte...) e purtroppo ricordo Ingo...Altro non dico: solo silenzio in suo onore e in suo ricordo! |
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leggere le dichiarazioni di benton mi fa vergognare di essere metallaro, che coglione |
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un ricordo x ingo, r.i.p.! e una menzione x symbolic dei death: immenso! |
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