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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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CORREVA L’ANNO - # 19 - 1988
26/03/2013 (6222 letture)
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La tempesta metallica non accennava minimamente a diradarsi: come era stato per tutti gli anni ottanta e parte dei settanta, anche il 1988 si annunciava come un'annata prolifica, che avrebbe fatto la gioia degli appassionati, bardati di toppe, borchie e gilet in jeans sdruciti. In questi dodici mesi si ebbe innanzitutto la solenne e sacrale incoronazione dei marziali Manowar, che avevano già segnato la storia dell'heavy metal epico e arcaico con un ciclo di masterpieces inarrivabili; dopo un più moderato Fighting The World, i quattro americani tornarono in pompa magna con Kings Of Metal, un poderoso concentrato di epos e potenza dai tratti più moderni, che sembrava superare quanto di eccezionale fatto in precedenza: il suono era più fresco e dinamico, annetteva tendenze power-oriented e garantiva la consueta messe di gloria, onore, testi autoreferenziali e lodi all'Acciaio. Il nuovo corso si intuiva già dalla devastante opener Wheels Of Fire, una corsa ritmica up-tempo arricchita da uno stordente assolo melodico e da riff di basso e chitarra semplici ma prestanti; la titletrack era un tipico brano manowariano, tanto saltellante e catchy nella musica quanto tamarro ed apologetico nel testo, mentre Heart of Steel si proponeva come un episodio da brividi, struggente ed eroico nel crescere dall'arpeggio iniziale al maestoso e tonante sprazzo epico centrale: sulla scia di Mountains o Gates of Valhalla, la traccia garantiva emozioni indescrivibili grazie al suo incedere lento e suadente. Probabilmente il massimo vertice evocativo veniva raggiunto in The Crown And The Ring (Lament of the Kings), una sinfonia di battaglia priva delle chitarre, affidata ai cori e all'ugola dell'immenso Eric Adams, il quale toccava irraggiungibili apici interpretativi nel corso dell'intero full length. Ogni amante del metallo puro ed incontaminato non può che emozionarsi, leggendo le omeriche strofe che compongono le varie tracce, sciorinate in onore dei veri defenders sullo sfondo dei campi di battaglia; potenza e rocciosità tornavano prominenti in Kingdom Come, ma la perla assoluta era Hail And Kill, immediatamente assurta a brano per eccellenza dei quattro Kings: una cavalcata da pelle d'oca ed un testo straripante orgoglio, innescato dopo il malinconico arpeggio iniziale. Non erano semplici invettive sceniche, quelle dei Manowar, bensì autentiche metafore di vita: ogni giorno dipinto come una piccola guerra da vincere, la distesa di menzogne e tradimenti che attende la nostra avanzata, la difficoltà esasperata nel trovare un brother of metal, ovvero una persona di cui fidarsi per davvero e con cui condividere passioni o ideali. Criticare l'eccessiva esaltazione manowariana significa non comprendere il significato nascosto dei versi, e soprattutto l'importante consiglio di fondo: affrontare le avversità della vita con spirito e coraggio, senza lasciarsi deprimere dalle circostanze. Il metal stesso nasce sulle medesime premesse, e infatti quasi nessuno può vantarsi di essere alfiere dell'Acciaio più dei Manowar: attraverso la granitica chitarra di Ross The Boss ed il basso corposo di Joey DeMaio risuonava ancora il Suono del Martello degli Dei, completato dal vigoroso lavoro ritmico di Scott Columbus. In particolare, Ross The Boss affinava qui la propria tecnica, regalando all'ascoltatore degli assoli pregevoli, melodici ed ispirati, molto più che in passato: la stessa Hail And Kill ne era la conferma. Il disco si concludeva con Blood of the Kings, un tripudio imponente di acciaio cromato: un pezzo dinamico e tostissimo, nel quale venivano chiamate a raccolta le Armate Metalliche di tutto il mondo, con le varie Nazioni citate una ad una, assieme all'elenco di tutti i dischi e delle canzoni dei Manowar stessi. Sull'artwork di copertina giganteggiava un erculeo guerriero senza volto, ai piedi del quale campeggiavano le bandiere dei Paesi più disparati; ricorda Joy DeMaio, il cui basso manteneva un ruolo centrale e decisamente corposo all'interno del platter: 'Avevamo tentato qualcosa di simile già in occasione di Hail To England, anche se devo ammettere che le figure dei due guerrieri avevano davvero poco in comune. Quella fu la seconda copertina che Ken Kelly realizzò per noi, finendo per diventare il nostro disegnatore di fiducia; il suo guerriero senza volto è una sorta di simbolo vivente dell'heavy metal: la sua faccia è oscura perché l'heavy metal non ha volto, può benissimo essere il mio, il tuo, quello di qualsiasi fan. Egli rappresenta tutti coloro che da sempre fanno vivere questa musica'. Il disco portò con sé anche alcune critiche: gruppi femministi puntarono il dito contro il brano Pleasure Slaves ed il verso 'woman be my slave', mentre alcuni visionari tacciarono addirittura la band di simpatie naziste, sia per l'aquila (da sempre simbolo del gruppo, ma per ragioni riconducibili alla mitologia: il volatile, infatti, era icona di Zeus e dell'antica Roma) che per il verso 'back to the glory of Germany' presente in Blood of the Kings: solo uno stolto mal informato poteva affermare una simile sciocchezza, in quanto il suddetto verso non faceva che omaggiare il fedelissimo popolo tedesco, considerato una vera e propria roccaforte del true metal. I Manowar supportarono il loro nuovo disco con un lungo tour che si sarebbe protratto lungo tutto il 1989 e che sarebbe durato ben tre anni; l'act americano dovette però far fronte alle dolorose dipartite di Ross The Boss e Scott Columbus: il chitarrista preferì dedicarsi ad un progetto parallelo di natura rock-blues e fu rimpiazzato da David Shankle, mentre il drummer preferì abbandonare la vita on the road per dedicarsi al figlio malato di leucemia (anche se nel 2010 smentirà tale giustificazione) e fu rilevato da Kenny Earl Edwards, ribattezzato Rhino: si chiudeva così la prima gloriosissima decade dei Re. Nello stesso periodo, anche i gloriosi Virgin Steele rilasciarono il disco che coronò e concluse il primo frammento di carriera: Age Of Consent. Il lavoro era fresco e dotato di melodie valide ed atmosfere epiche, ma non fu supportato adeguatamente dalla SPV: ne conseguì un riscontro deludente dal punto di vista delle vendite, anche se il prodotto era squisito. Lo stile dei Virgin Steele era ancora evidente e primario, anche se le composizioni sembravano più orecchiabili: l'ascolto correva veloce, con l'ottimo David DeFeis trascinante nelle sue vocals e il sempre efficace lavoro di Edward Pursino alla sei corde. L'opener On the Wings of the Night era un brano vivace ed evocativo, praticamente irresistibile; Tragedy suonava toccante ed introspettiva, ma permeata da un'aura onirica molto positiva; Seventeen e Stay on Top assumevano i lineamenti di un hard rock accattivante e pimpante, mentre l'epica romantica, rocciosa e passionale tipica dell'act americano emergeva con tutto il suo fulgore in Chains of Fire, accesa da un trepidante guitar-solo, nell'anthemica We Are Eternal o nell'emozionante Lion in Winter. Uno dei picchi qualitativi dell'album corrispondeva alla ridondante Burning of Rome, incentrata sulla vicenda di Nerone e sull'incendio della Città Eterna (uno dei più grandi falsi storici di sempre): riffing tonante, affilatissimo, e performance vocale pregna di enfasi all'inverosimile; il refrain era da brividi lungo la schiena, sorretto da trame musicali mozzafiato. Una composizione maestosa e che sfoggiava un assolo articolato ed una reprise esaltante nel finale. La veloce Let it Roar poneva l'accento sull'aggressività con le sue ritmiche martellanti, e formava un contrasto netto e significativo con la struggente ballata Cry Forever: i due estremi del Virgin Steele-sound, una band immensa capace di spaziare a 360 gradi tra le varie sfumature del genere metallico. DeFeis, che si occupava anche di suonare le tastiere, affermava: 'Quando io ed Edward suoniamo insieme la musica diventa piena, satura, è un mood particolare, un feeling difficile da spiegare a parole'. Purtroppo questo disco non ricevette quanto meritava, e per i warriors a stelle e strisce iniziò un piccolo periodo di declino, con una parziale scomparsa dalle scene: solo il tempo avrebbe fatto giustizia, riportando in auge questi compositori straordinari.
Una delle realtà più consistenti e affermate del panorama ottantiano, i Metallica, tornarono intanto a scuotere il pianeta nonostante la tragedia che nel 1986 li aveva privati del carismatico bassista Cliff Burton: chi li dava per finiti poteva mettersi il cuore in pace, perché i californiani stavano per ribadire la loro supremazia in ambito metal, forti di un disco potente e iper-tecnico come …And Justice For All, il quarto della loro discografia. I Quattro cavalieri avevano testato le doti del nuovo bassista Jason Newsted attraverso l'EP di cover Garage Days Re-Revisited, oltre che in una serie di concerti culminati con la colossale esibizione del Monsters of Rock 1987 ed erano determinati a tornare a dominare sulla scena thrash internazionale: le canzoni che componevano …And Justice For All erano complesse, potenti e devastanti come sul precedente capolavoro, Master Of Puppets, ma godevano di un tasso tecnico ulteriore: i riff sembravano centuplicarsi, gli incroci sezionali, gli stacchi e le ripartenze andavano a comporre strutture in continua evoluzione, mentre il drumming di Lars Ulrich era scrosciante, compatto e ricco come mai in precedenza; Hetfield era la solita fucina di riff incandescenti, sparati su metriche spesso frenetiche e completate dagli squillanti assoli di Kirk Hammett, che grazie alle lezioni di Joe Satriani aveva raggiunto il culmine dell'equilibrio tra senso melodico e preparazione tecnica. Inoltre, Hetfield offriva forse la migliore prova vocale della sua carriera, prestandosi a strofe e refrain cupi e trascinanti. L'opener Blackened era un perfetto biglietto da visita per comprendere il thrash tecnico della formazione americana: un nugolo di riff e ripartenze, accelerazioni e modulazioni in diverse metriche, riff affilati e taglienti, un assolo stordente ed un impatto senza pari. 'Musicalmente questo brano è un po' diverso da quello che si può considerare il tipico pezzo d'apertura dei Metallica', spiegava al tempo Ulrich: 'Nel corso dello svolgimento ha un paio di brusche svolte e diventa quasi un ciclo completo. Va proprio da un estremo all'altro e poi indietro ancora. Questo è un pezzo che esplode subito, bam! Fin dal primo verso'. La contorta e granitica titletrack attaccava la corruzione giudiziaria col suo incedere minaccioso, mentre Shortest Straw era un esercizio di thrash più secco e integerrimo; proprio del pezzo che dava il titolo al disco il danese diceva: 'E' una composizione lunga più o meno dieci minuti. Anche qui si procede per varie stronzate, con atmosfere varie e un mucchio di accordi. E' un brano agitato per buona parte ma è a sua volta diverso, per noi, nel senso che il riff principale si basa su una complessa figura ritmica in cui mi sono imbattuto un giorno durante le prove in studio'. Tra le varie tracce spiccava la mirabile One, classica ballata in stile Metallica: un arpeggio decadente, una melodia struggente e raggelante, il successivo crescendo clamoroso, che traghettava il pezzo in un assolo vorticoso ed in poderosi break da headbanging; One fu anche il primo videoclip per i thrashers di San Francisco, ma non si trattava di una mossa commerciale: le patinate produzioni di MTV disdegnavano la cruenza delle immagini e la crudezza degli argomenti, incentrati sulla storia vera di un ragazzo rimasto mutilato in guerra, privato degli arti ed incapace di comunicare col mondo esterno. Attaccato ai macchinari, non poteva 'né vivere né morire', ovvero non poteva chiedere che gli fosse staccata la spina e doveva soffrire in condizioni disumane. 'E' qualcosa che spaventa e affascina al tempo stesso', affermava il drummer: 'James aveva delle idee per il testo e allora il manager Cliff Burnstein mi suggerì un libro intitolato Johnny's Got a Gun, che parla di un reduce dalla guerra ridotto così. James ne ha preso qualcosa'. L'eutanasia non era il solo tema profondo e sottile affrontato dal four pieces americano, che poneva il mirino anche sull'autodistruzione tra gli uomini e, di conseguenza, del nostro pianeta (Blackened), denunciava l'invasività con la quale i liberi cittadini vengono continuamente schedati e spiati (Eye of the Beholder, quadrato e possente mid-tempo dal ritmo trascinante) o attaccava l'insopportabile peso impositivo con cui i genitori, spesso, tarpano le ali ai propri figli, quasi volendo vivere la loro vita: è il caso della violentissima Dyers Eve, un riferimento diretto di Hetfield alle sue sofferenze adolescenziali, con feroce e piccata dedica ai suoi genitori. Dyers Eve era, assieme a Damage Inc del 1986, il pezzo più brutale mai scritto dai Metallica: possedeva un riffery letale e fulminante, incedeva come un treno in corsa a velocità massacranti e sfoggiava ritmiche telluriche, sospinte da un poderoso utilizzo del doppio pedale; anche la sezione solista era fiammante ed irresistibile, una trepidante cascata di note incandescenti lasciata esplodere a folle velocità. Anche se il testo fu concepito da Hetfield quasi a ricalcare le sue vicende personali, fu il sempre loquace Ulrich a spiegarne i contenuti: 'A grandi linee parla di un ragazzo che i genitori hanno nascosto al mondo per tutto il tempo della sua infanzia e adolescenza; e adesso che il ragazzo deve vivere la vita, non sa come affrontarla e medita il suicidio. E' una lettera di questo ragazzo ai suoi genitori, lui si chiede perché si sono comportati in quel modo: è un tema di un certo peso e il nostro management è convinto che arriveranno dei guai. Ma a noi sta bene così'. La tracklist era completata dal macigno Harvester of Sorrow, dall'heavy-thrash notevole di Frayed End of Sanity e dal monumentale assemblaggio di riff ed intersezioni che corrispondeva alla strumentale To Live Is To Die, dedicata a Cliff Burton: un pezzo solenne ed intimidatorio, ma con alcune sfumature commoventi ed introspettive, arricchite da una poesia scritta dallo stesso Cliff e donata ad Hetfield dalla sorella dell'ex bassista. James recita quelle parole profetiche lasciandoci scossi e toccati nel più profondo, in quanto capaci di farci riflettere sulla grande sensibilità del compianto genio di Castro Valley: 'Quando un uomo mente, uccide una qualche parte del mondo; queste sono le pallide morti che gli uomini credono siano le loro vite. Non posso più sopportare di essere testimone di tutto questo: il Regno della Salvezza non può portarmi a casa'? Ancora Ulrich esaminava il pezzo: 'E' la nostra strumentale obbligatoria. Rispetto a The Call Of Ktulu ed Orion ha una sonorità per certi versi ancora più grande e maestosa. Per certi versi è anche più fuori schema, nel senso che predomina un certo gusto jam-session, senza vincoli. E' un brano che potrebbe spingere qualcuno a spararci addosso, perché contiene deipassaggi scritti da Cliff pochi mesi prima della sua morte; ma la verità è che si tratta di riff così universali e con un suono così tipico per i Metallica che non potevamo non usarli. Non è certo nostra intenzione cercare di sfruttare la morte di Cliff o altro del genere; semplicemente ci viene da usare le idee migliori che abbiamo a disposizione, come questa'. Anche i pezzi meno celebri del disco contenevano una grande qualità, come ricordato da Lars: 'Frayend Ends of Sanity, ad esempio, è una canzone ancora più intricata di altre sull'album; ha una bella parte centrale piuttosto lunga, con un mucchio di accordi e alcune belle melodie tranquille. Un pezzo molto complicato, potrebbe non bastare un solo ascolto per entrarci. …And Justice For All era un nuovo masterpiece, il quarto capolavoro assoluto per i Quattro Cavalieri: una dimostrazione di forza e tecnica impareggiabile, che dimostrava come il thrash potesse convogliare a nozze anche con architetture intricate e ricche di dettagli. Alcuni criticarono la produzione, o il fatto che il basso si udisse poco (la leggenda vuole che Ulrich ed Hetfield si recassero nottetempo negli studios per abbassare i volumi di Newsted, ritenuto indegno di Burton e pertanto vessato anche da continui scherzi e maltrattamenti), ma nel complesso il platter fu una delle uscite migliori in assoluto di quell'annata e non solo; all'inizio doveva essere prodotto da Mike Clink, artefice del successo dei Guns N'Roses, ma i Metallica, insoddisfatti del suo lavoro, lo silurarono in corsa, rifugiandosi nell'operato rassicurante del solito Rasmussen. Fu un sospiro di sollievo per i fans, che avevano temuto un ammorbidimento del sound: per loro fortuna, Justice era potente e distruttivo come i suoi tre predecessori, immerso nella solita atmosfera oscura ed opprimente, compatto e quadrato nel suono, nichilista nelle liriche: lo stesso titolo non era che l'ultima frase della Costituzione Americana, utilizzato con un ironico gioco di parole (And Justice si pronuncia nello stesso modo di Unjustice) per puntare il dito contro la discutibile trasparenza del Sistema. David Ellefson, bassista e membro fondatore dei Megadeth, lo spiegherà così: 'Justice era così progressive, così complicato! All'inizio ci vantavamo tutti di quanto eravamo veloci, poi ci fuil momento in cui il nostro vanto era diventato l'essere complicati. Orgoglio intellettuale da musicisti'. Fleming Rasmussen aggiunse in seguito: 'Il suono era completamente asciutto, immediato e senza riverbero. Complesso, duro e fragoroso'. L'artwork di copertina, caratterizzato da colori chiari e ruotanti attorno a diverse sfumature di bianco e grigio, raffigurava la statua della giustizia, con i piatti della bilancia tracimanti dollari ed alcuni argani indirizzati all'abbattimento della scultura: nel memorabile tour di supporto al full length, sul palco compariva una ricostruzione fedele della statua, che veniva fatta schiantare al suolo con clamore nel corso dello show.
A maggio i Metallica partirono per un grande tour itinerante, ribattezzato Monsters of Rock come il leggendario festival europeo; per prepararsi a tale evento, la band effettuò due concerti di riscaldamento sotto il falso moniker Frayed Ends; i tempi lunghi del tour, dovuti ai difficili e consistenti spostamenti del carrozzone, permettevano a Hetfield ed Ulrich di recarsi in studio con costanza, per seguire da vicino il missaggio. Il tour si mosse in Ohio, Maine, New Jersey, Texas [dopo una settimana di sosta], Indiana, Tennessee, Missouri, Minnesota, quindi fece tappa al Candlestick Park di San Francisco e si trasferì sulla costa opposta, a Seattle e Denver; il festival terminò a giugno, e il pubblico elesse i Four Horsemen, assieme ai Kingdom Come, come band migliore del lotto. I thrashers californiani erano eccitati dall'uscita imminente del loro nuovo disco e fornirono ogni sera una prestazione urticante e devastante; ricorda Lars Ulrich: 'E' stato grandioso. Eravamo in fondo, schiacciati tra i Kingdom Come e i Dokken. In quel periodo iniziavamo a bere appena alzati; finivamo il concerto per le tre di pomeriggio e poi avevamo otto o nove ore per bere. Era terrificante. Era la prima volta che ci esibivamo di fronte a grandi platee di cinquantamila persone, ogni giorno. Beh, praticamente eravamo sempre ubriachi. Le ragazze nel pubblico ci volevano scopare ma noi allo stesso tempo potevamo mescolarci con la folla. Ci sono foto di noi in cima allo stadio di Tampa con i pantaloni calati, mentre mostriamo il culo a tutti! Sono le 16 e siamo già ubriachi fradici. Il livello di strafottenza era al massimo'. Sembra che in quel periodo Kirk e Lars abbiano avuto qualche esperienza con sostanze stupefacenti, anche se il chitarrista dichiarò in seguito che la coca gli portava depressione quindi la abbandonò subito; anche Ulrich non ci trovava granché ed infatti il suo utilizzo di sostanze illegali non ha mai preso la forma di una dipendenza o di una consuetudine. In stato di grazia, il letale four pieces americano supportò l'uscita del disco con il memorabile Damaged Justice Tour, che lo condusse in ogni angolo del globo, accrescendone la fama ed il rispetto: notte dopo notte, città dopo città, la violenza dei cavalieri del Fulmine non smetteva di riversarsi, spietata, sulle platee in delirio adrenalinico. Il rapporto tra i 'vecchi' ed il nuovo Newsted era complicato, perché il bassista fungeva da vittima di scherzi e cattiverie, come avrebbe ricordato in seguito: 'Era un esame continuo, mi prendevano in giro per vedere se reggevo. E' andata avanti così per un anno. Volevano vedere se cedevo. ho retto, ed è andata'. A settembre partì la leg europea del tour, con al fianco anche i progster Queensryche, che ben completavano lo spettro tecnico intrapreso dai Nostri. La carovana toccò Ungheria, Italia, Svizzera, Spagna, Regno Unito, Francia, Irlanda, Danimarca, Finlandia, Svezia e Norvegia, Germania, Belgio, ancora Francia e in Germania, quindi si spostò Olanda: gli incendiari assedi dei Metallica non facevano prigionieri, grazie a scalette dinamitarde che ripercorrevano con forza sorprendente l'intera carriera del combo capitanato da James Hetfield, in forma smagliante tanto col microfono quanto con la sua lucente chitarra bianca. Alla conclusione della tournèe seguirono dieci giorni di pausa e nuove date in tutto il Nordamerica, quindi fu pubblicato il videoclip di One; qualche fans restò interdetto, perché i Metallica avevano sempre giurato che mai avrebbero realizzato un video per un loro singolo. Tuttavia One era cruda e lontana dai variopinti standard di MTV, come detto: niente di cui vergognarsi. I consensi furono unanimi, anche sulla stampa non specializzata: persino quotidiani importanti pontificarono sulla direzione intrapresa dai Four Horsemen, elogiati per gli importanti valori sociali dei loro testi; era quanto si leggeva su testate come New York Times (metallo pesante e parole importanti), Washington Post (La marcia di platino dei Metallica: la band e il suo allontanamento ad alti decibel dalla forma mentis dell'heavy metal) e Los Angeles Time (I Metallica e la poesia del power chord; il nuovo metal è musica soul per ragazzi di periferia), ma anche sul troppo mainstream Rolling Stone ('I ritmi vertiginosi e la tecnica strabiliante della band impressionerebbero persino il più elitario appassionato di jazz fusion'); Jason Newsted non si faceva travolgere da tanta fama, e rimaneva coi piedi per terra, lasciando che fosse la musica ad avere la precedenza sulle parole: 'Probabilmente circa metà dei nostri fans fa caso ai testi; gli altri apprezzano solo la heavyness della musica, quando arriva il ritornello, conoscono le parole, e questo è tutto. L'altra metà invece li esamina a fondo e tira fuori le sue interpretazioni pesanti, impegnative. Tendono ad analizzare troppo. Mi piace di più quando si fanno coinvolgere dall'argomento della canzone, ma finché sono contenti di ascoltare la musica: la mia preoccupazione principale è quella'. Non aveva tutti i torti, Newsted e la qualità della musica proposta dalla sua band non faceva che sublimare la sua affermazione.
Nell'inespugnabile feudo teutonico, l'Acciaio Vergine continuava nel frattempo a pulsare con sempre maggiore intensità, sotto la prorompente spinta del power: la lezione impartita dagli Helloween aveva rivoluzionato il modo di intendere l'heavy classico, alzando l'asticella della potenza e della velocità, ma anche generando un notevole impulso tecnico e melodico: le Zucche di Amburgo ribadirono il proprio stato di grazia con la seconda parte del loro capolavoro inarrivabile, Keeper of the Seven Keys Part II, un prodotto che qualitativamente equiparava il predecessore e si ricollegava sulla medesima scia stilistica: melodia sferzante, velocità esorbitanti, riff taglienti, fraseggi di chitarra mozzafiato e vocals gioviali, imponenti e maestose, quelle irresistibili del giovane Michael Kiske, il nuovo profeta: bardato di luccicante pelle nera, il biondo cantante si ergeva sul palco a novello Bruce Dickinson, portandone all'ennesima potenza i vocalizzi acuti e le dinamiche di scena, costituite da sfibranti headbanging in concomitanza delle serrate galoppate ritmiche della band. Il motore pulsante del gruppo era costituito dai due chitarristi: Michael Weikath, duro e roccioso nel riffery, e Kai Hansen, più bonario di carattere e dotato di un tocco morbido; la melodia dei suoi assoli correva suadente e fulminea sulla sei corde, generando nuovi inni metallici: la devastante ed incalzante Eagle Fly Free, dotata di ritmi serrati e vocals colossali, la più ruffiana Dr. Stein, l'ariosa I Want Out, l'irresistibile Save Us, col doppio pedale a briglia sciolta, l'ennesimo assolo scintillante, l'atmosfera in costante crescendo emotivo ed il ritornello corale, prima da pugni al cielo e successivamente da brividi lungo la schiena. Il capolavoro assoluto del platter era March Of Time, un brano complesso ricco di riff elettrizzanti, accelerazioni melodiche e linee vocali epicissime e sognanti: impossibile, durante l'ascolto, non venir trasportati direttamente in un universo parallelo e coloratissimo, immerso tra cieli azzurri, prati verdeggianti e sontuosi castelli medievali. Sull'onda lunga scandita dalla potente doppia cassa di Ingo Schwichtenberg e sui fibrillanti e compositi assoli di chitarra, gli Helloween riprendevano i dogmi maideniani e li personalizzavano con copiose dosi di forza, velocità ed epos: non mancavano, tuttavia, brani più leggeri o mid tempo, nonché pittoresche divagazioni dalle tinte allegre ed irriverenti (Rise and Fall); il disco era completato e suggellato dalla grandiosa titletrack, una suite di tredici minuti all'interno della quale gli Helloween cambiavano ripetutamente registro, spaziando in tutto il loro repertorio: serrate speed-power, sfumature lente e malinconiche, assoli brillanti, passaggi mid-tempo. Weikath sapeva bene che la velocità fine a se stessa non poteva fare la differenza e doveva essere completata anche da altri elementi: 'La capacità di scrivere belle canzoni è la cosa più importante, anche se bisogna poi essere in grado di suonarle bene. Certo, esercitarsi sullo strumento è utile ed una buona padronanza tecnica è fondamentale, ma tutto ciò non deve essere l'unico obbiettivo; per quanto tu possa suonare tecnico e veloce, ci sarà sempre, prima o poi, qualcuno più tecnico e veloce di te. La tecnica va messa al servizio della creatività, poiché senza delle buone capacità creative non porta davvero a nulla'. Ricorda il bassista Markus Grosskopf: 'A livello musicale, ‘Keeper II’ fu la logica successione della prima parte, ma con questo album la nostra popolarità crebbe a dismisura. Cominciarono però i primi problemi all'interno della band, a causa di frequenti e furenti liti tra Kiske e Hansen, e di conseguenza Kai decise di lasciare gli Helloween per formare i Gamma Ray'. Proprio così: Kiske possedeva un ego molto forte e voleva imporsi all'interno della band nonostante fosse l'ultimo arrivato; anche Weikath era un gallo assai suscettibile e Hansen non ne poteva più delle continue diatribe: lasciò così la sua stessa creatura all'apice del successo, dopo aver contribuito in maniera determinante a dar forma e suono al power metal col suo chitarrismo possente e neoclassico. Nati sotto la stessa stella degli Helloween, i connazionali Blind Guardian ne riprendevano lo stile ampliandone gli orizzonti: originari di Krefeld, inizialmente formatisi sotto il nome di Lucifer's Heritage, i futuri Bardi possedevano un suono ancor più corposo e devastante dei loro ispiratori ed esibivano velocità ancor più tirate, ai limiti del thrash: il loro debutto Battalions Of Fear non venne immediatamente apprezzato, ma rappresentava un autentico gioiello. In esso si mescolavano la maestosità e la melodia dello speed-power teutonico, cucite insieme da tematiche fantasy e melodie travolgenti, dal profilo fluido ed avvolgente; le due asce gemelle di André Olbrich e Marcus Siepen erano un monumentale omaggio alla tradizione e colavano fiotti di note epiche e cristalline, affiancate a riff granitici ed impattanti. La velocità era in primissimo piano, esplosiva e determinante: a rotta di collo tra riff imponenti e fraseggi chitarristici, i Blind Guardian si districavano in strutture già complesse rispetto alla media dell'epoca, sebbene disco dopo disco si sarebbero evoluti in una progressione sorprendente; il tutto era infuocato dalla timbrica rude e passionale di Hansi Kursh, determinante per spiccare il volo definitivo verso lande fantastiche. La potenza espressa era più quadrata e compatta rispetto agli Helloween, e anche l'atmosfera appariva più cupa, praticamente seriosa, laddove le zucche prediligevano un appeal arioso; era tutto sintetizzato nella superba opener Majesty, suite introduttiva di sette minuti nella quale i colpi di scena si succedevano incalzanti: velocità, epica maestosa, una sezione ritmica prestante e corposa, riff avvincenti e di derivazione classica. Anche la titletrack era ben arrangiata, mentre l'irresistibile Run for the Night rappresentava uno sferzante esercizio di speed metal destinato ad ispirare intere generazioni. Nelle arcigne e scorrevoli strumentali By the Gates of Moria e Gandalf's Rebirth si udiva tutto il fascino neoclassico dell'act di Krefeld, che nei titoli omaggiava l'opera di Tolkien; potenza mirabile e cori colossali arricchivano episodi come The Martyr o l'autoreferenziale Guardians of the Blind, ma l'intera tracklist era ugualmente coinvolgente ed emozionante; sebbene qui i giovani tedeschi mostrassero spiragli di grande classe, come detto, nel complesso erano ancora alle prese con uno speed grezzo, immediato, melodico ma granitico, destinato a costituire lo zoccolo duro della scena germanica. Kursh, che all'epoca era anche il bassista della band, ricorda: 'C'era grande nervosismo, soprattutto in studio, eccitazione, energia, molta energia, forse addirittura di più che negli anni a seguire. Inesperienza, ancora una forte ispirazione da parte degli Helloween, anche se non eravamo una copia,e poco tempo in studio, anche se rispetto alla media abbiamo avuto a disposizione abbastanza denaro. Ci fu un po’ di delusione, anche, perché le aspettative erano enormi, dopo il disco ci sentivamo delle rockstar ed invece non era cambiato niente. Facemmo un tour in supporto ai Grinder, con una trentina di spettatori in media a serata e ci chiedevamo se un giorno o l'altro avremmo potuto vivere di musica, o anche solo se avremmo avuto la possibilità di realizzare un secondo album'. Ne avrebbero realizzati molti altri, e in una mirabile escalation di personalità.
Classe, potenza e melodia avevano sempre caratterizzato l'epopea degli Iron Maiden, che dal 1980 dettavano legge in ambito classic-heavy; dopo la svolta dallo street metal degli esordi allo stile più epico e maestoso di The Number of the Beast, Piece of Mind e Powerslave, la Vergine di Ferro aveva aggiornato la sua forma arrotondando il proprio suono ma mantenendosi coerente e imperiosa in Somewhere In Time ed in quel 1988 stava per adottare nuove sensibili modifiche alle sue imprescindibili peculiarità musicali; i duelli di chitarra, i riff armonizzati, le galoppate di basso, gli assoli avvolgenti, le vocals monumentali restavano prioritarie, ma il nuovo Seventh Son Of A Seventh Son presentava anche trame progressive e ricami più raffinati. Il disco si presentava come un ambizioso concept-album nella quale la classica energia maideniana flirtava con atmosfere introspettive e melodie emozionanti, narrando canzone dopo canzone la storia del settimo figlio di un settimogenito, il quale acquisiva poteri sovrannaturali e veniva "conteso" tra il bene e il male; l'opera si ispirava a Il Settimo Figlio dello scrittore Orson Scott Card e si articolava in una nuova serie di cavalli di battaglia: la dinamica ed incalzante Moonchild, velocissima ed intricata da riff e assoli brillanti, la mini-suite in crescendo Infinite Dreams (dotata di stacchi e ripartenze notevoli), la radiofonica Can I Play With Madness o le travolgenti The Evil That Men Do e Only The Good Die Young, bollenti viaggi all'interno delle più forti emozioni umane; Bruce Dickinson, che nel disco cantava con un tono leggermente più aspro rispetto al passato, era autore dell'ennesima prova eccellente e qui lasciava che pathos e sentimenti prevalessero sull'epos e l'aggressività che invece dominavano in passato. La sezione ritmica era al solito solida e martellante, col basso di Steve Harris a creare quella magica atmosfera, tipica ed inconfondibile: le mitiche triplette maideniane non venivano meno, ben affiancate dai consueti assoli tempestosi di Dave Murray e Adrian Smith, eccellenti nell'imbastire le celebri cascate di note. Così si passava attraverso la solenne ed intimidatoria titletrack e la meravigliosa The Clairvoyant, col suo memorabile giro di basso ed il positivissimo riff melodico che la apriva, prima che Dickinson la impreziosisse con la sua performance ridondante. Questo disco rappresentò il vertice tecnico per la band inglese, che incorporava dunque architetture sopraffine e orientate al progressive metal, riflettendo tutto l'amore di Steve Harris per il prog-rock settantiano. Lo stesso Dickinson parlò a riguardo del processo compositivo dell'opera: 'Invece che affiancare diversi mattoncini l'uno all'altro, abbiamo essenzialmente cercato l'atmosfera giusta, il feeling appropriato; forse in altre occasioni abbiamo tentato un po' troppo di pianificare il lavoro, stavolta ci siamo lasciati andare di più, abbiamo sperimentato di più. In un certo senso abbiamo rotto lo stampo con cui avevamo plasmato gli scorsi album; c'è molta complessità nel disco, ma non ne risente la fluidità della musica, che permane limpida. In altre occasioni il muro di note che generavamo era difficile da scomporre durante l'ascolto del brano, mentre in questo caso tutto è limpido e decodificabile. Questo disco è diverso da ‘Somewhere In Time’ tanto quanto ‘The Number of the Beast’ lo è da ‘Killers’; forse è un po' più simile a ‘Piece of Mind’, ma è comunque differente anche da questo. Abbiamo composto il nuovo album nella fattoria di Steve, nell'Essex: un ottimo posto in cui dedicarsi alla composizione di un disco. Poi Adrian è venuto un paio di volte a casa mia e infine siamo andati tutti insieme per le registrazioni, abbiamo imparato che bisogna darsi un punto di partenza e da questo procedere tutti insieme, non ci si può annoiare e disturbare l'un l'altro fino a quel momento'. Fu in questo periodo che il singer iniziava a ragionare in maniera differente, ammettendo per la prima volta quel desiderio di novità che l'avrebbe portato alcuni anni dopo ad intraprendere una carriera solita: 'Dopo un po' di anni di tour e album abbiamo capito che la musica non è la realtà quotidiana, tende a portarti in una dimensione lontana dalla tua vita di tutti i giorni. Devi imparare a capire che stare on the road è solo una parte della tua vita e che, per fortuna, c'è tanto da vivere fuori dai tour bus e dalle arene dei concerti. Se oggi vuoi riuscire a dare il cento per cento di te stesso agli Iron Maiden lo puoi fare solo se incastoni gli Iron Maiden come una parte importante della tua vita. Quando hai diciotto anni tutto è semplice, anche perché non hai nient'altro da fare, ma oggi siamo tutti intorno ai trent'anni e le cose non stanno come allora'. Il Seventh Tour of a Seventh Tour partì con un paio di date segrete in Germania (sotto il moniker Charlotte and the Harlots), dopodiché dal 13 maggio il gruppo inglese inaugurò in Canada il tour vero e proprio, suonando una sessantina di volte sul suolo americano fino ad agosto; la leg europea iniziò ancora sotto il falso nome utilizzato ad aprile, prima che la Vergine di Ferro salisse trionfalmente sul palco di Castle Donington: un'apparizione storica e monumentale, documentata in parte nel doppio album BBC Archives; ai piedi dei titani inglesi si agitarono circa 107 mila persone, in un oceanico bagno di folla infervorato dalla scaletta tipica di quel periodo: Moonchild, The Evil That Man Do, The Prisoner, Infinite Dreams, The Trooper, Can I Play With Madness, Heaven Can Wait, Wasted Years, The Clairvoyant, Seventh Son of a Seventh Son, prima del gran finale affidato a classicissimi quali The Number of the Beast, Hallowed Be Thy Name, Iron Maiden, Running Free, Sanctuary e, in alcuni show, Wratchild, 22 Acacia Avenue, Still Life, Die With Your Boots On, Killers e la leggendaria 2 Minutes To Midnight. All'esplosiva performance di Donington seguirono altri nove spettacoli di livello internazionale, tra i quali spiccava la calata italica alla Festa Nazionale de l'Unità di Modena; gli Iron Maiden si spinsero anche a Budapest, Innsbruck e Losanna, suonando per la prima volta ad Atene e vennero affiancati dagli Helloween a Cascais e nel Nord Europa. Tra il 18 novembre e il 12 dicembre si tenne l'ultima porzione di tour, interamente in Inghilterra: il bellissimo video Made In England immortala la band nelle serate del 27 e 28 novembre al National Exhibition Center di Birmingham, tra incroci di luci scintillanti e straripanti galoppate melodiche; l'Hammersmith Odeon e l'Arena di Wembley ospitarono invece le ultime cinque date, ribadendo l'attrazione oceanica mossa dalla ormai storica corazzata di Sir Harris. Di tutto rispetto il plotone di band accompagnatrici: tra gli altri, spiccavano Megadeth, Guns N'Roses, Helloween e persino Kiss, che otto anni prima avevano tenuto a battesimo i giovani ed inesperti Maiden. Le scenografie utilizzate erano tra le più complesse e grandiose, sulla degna scia di quelle utilizzate per il World Slavery Tour: finti ghiacciai, fondali a tema, spie, rampe, il bianco come colore dominante e un Eddie chiaroveggente incastonato in una montagna di ghiaccio, la quale veniva fatta roteare durante l'esecuzione di Seventh Son. Quello del 12 dicembre all'Hammersmith Odeon fu l'ultimo concerto di Adrian Smith con la band: il chitarrista preferì dedicarsi ad una carriera solista, abbandonando quella formazione che il suo stesso tocco morbido, rapido ed avvolgente aveva contribuito a portare così in alto.
Capolavori, niente di meno. Gli anni ottanta ne erano ricchi proprio perché le band non si limitavano a ripetere una formula vincente, ma erano sempre alla ricerca di un'evoluzione; così persino gli integerrimi Slayer mutavano nuovamente pelle, dopo un esordio imbevuto di NWOBHM e la maturazione avvenuta con le due releases successive, nelle quali avevano estremizzato le sorti del thrash metal orientandole prima verso strutture lunghe e articolate, quindi verso devastanti e concise mazzate dalla precisione chirurgica e dall'impatto apocalittico. Chi si aspettava una replica serrata del farneticante masterpiece Reign In Blood, che nel 1986 aveva sancito a pieno titolo l'ingresso nel plotoncino dei Big Four of Thrash Metal, sarebbe rimasto deluso: eppure South Of Heaven era un nuovo gioiello, un altro modo per permettere al male di reincarnarsi in musica. Le tinte sulfuree e cadenzate della titletrack introducevano al nuovo stile dell'act californiano, che restava comunque feroce e potentissimo: la canzone accelerava a tratti, pur senza riprendere le forsennate fughe di due anni prima; si correva più intensamente con la straripante Silent Scream, brano che ribadiva l'accresciuta forza melodica -se così possiamo dire- dei thrashers di Los Angeles, che ai riff letali e sanguinari di sempre aveva sostituito soluzioni più fluide ma intrise di trepidante flavour maligno. Le chitarre di Kerry King e Jeff Hanneman restavano fucina di riff al vetriolo e assoli lancinanti, anche se questi ultimi erano più curati e levigati che in passato; Tom Araya stesso cantava linee vocali vagamente più catchy, sebbene rabbia e aggressività restassero evidenti: più matura era anche la componente lirica, dato che ai consueti sfondi satanici o bellici la band aveva affiancato riflessioni su tematiche sociali, come per esempio l'aborto; Tom Araya ha in merito affermato: 'Non viviamo più in una società libera; l'analisi sociale è un tema che ci accomuna tutti. C'è sempre qualcosa da dire, perché c'è sempre qualche problema. La società è un luogo duro in cui vivere, ma la gente trova sollievo nelle buone canzoni, ovunque esse la trasportino'. Le bordate di Dave Lombardo davano al disco un'impronta ancora thrashy, violentissima soprattutto nella coda conclusiva di Live Undead, nelle sezioni soliste incendiarie di Behind the Crooked Cross o nei brani più furibondi, come Ghost Of War; la nuova faccia degli Slayer era invece percettibile in episodi più musicali, come il manifesto anti-bellico Mandatory Sucide. Tom Araya rispondeva così a chi non ha mai compreso l'evoluzione della sua band: 'Quelli che ci accusano di aver perso parte della nostra brutalità commettono l'errore di paragonare tutto a ‘Reign In Blood’; quando abbiamo inciso ‘Reign In Blood’ volevamo registrare un LP velocissimo, ma questo non significa che noi vogliamo suonare sempre e solo in quel modo. ‘South Of Heaven’ ci ha messo un po' ad essere apprezzato, ma credo che col tempo sia cresciuto agli occhi di tutti: lo avevamo fatto diverso di proposito'. E' curioso notare, tuttavia, che tra i primi a sostenere l'opinione dei fans più estremisti ci sia lo stesso Kerry King: 'Questo disco non mi piace quanto ‘Reign In Blood’, perché credo che Tom si sia trattenuto troppo nel cantare; o forse dovrei dire che ha aggiunto troppe parti 'cantate'. Onestamente, devo dire che è uno dei nostri album che mi piace di meno'. L'immagine della band era sempre cupa ed inquietante, ma ancora più seria e matura: la gente continuava a spaventarsi per l'alone di mistero e le esalazioni infernali che ne avvolgevano la figura, ma i ragazzi stavano crescendo ed avevano abbandonato gli eccessi correlati ad alcool e droga. La band mise a ferro e fuoco le resistenze degli headbangers durante il feroce World Sacrifice Tour, con i Nuclear Assault a supporto e suonò in seguito anche al fianco dei decani Judas Priest, omaggiati su disco con la cover di Dissident Aggressor, nel tour di Ram It Down. Due anni appena era durato il purgatorio dei bikers britannici: pionieri dell'heavy metal settantiano con almeno cinque dischi colossali e di importanza seminale per la creazione stessa del genere, fautori del tipico look costituito da cuoio, borchie e catene, giganti assoluti nella prima metà degli eighties con un ulteriore trittico di releases epocali, irrobustite nella potenza e nell'enfasi, i cinque musicisti di Birmingham erano scivolati col non eccezionale Turbo (1986), affiancando ai classici duelli di chitarra, alla screaming perentorio e al riffing affilato -da sempre marchi di fabbrica del loro sound- alcune peculiarità discutibili: refrain estremamente catchy, sintetizzatori, flirt visivi e sonori con il glam metal. Un passo falso inaccettabile per i defenders; per fortuna, la risalita iniziò fin da subito: il nuovo Ram it Down, aperto da una titletrack tellurica e travolgente, era un'autentica dichiarazione di intenti. Il Prete di Giuda voleva riprendersi l'altare e anche se il platter non era un capolavoro all'altezza dei classicissimi i fans potevano dirsi soddisfatti. La stessa Ram It Down era più potente e veloce che mai, pur restando l'unico episodio da antologia: per il resto, si distinguevano tante tracce buone come Heavy Metal, Blood Red Skies, I'm A Rocker o la robustissima Hard As A Iron, nonché la curiosa cover di Johnny B. Goode, del rocker Chuck Berry. Le dichiarazioni attribuite a Glenn Tipton nei mesi antecedenti erano state eloquenti: 'A questo punto della nostra carriera non possiamo permetterci di fare nulla che non sia pertinente ai Judas Priest. Il prossimo disco sarà zeppo di canzoni metal cattive, ruvide e terribili'. Gli inglesi riabbracciarono un look più aggressivo e prepararono il terreno per il nuovo capolavoro che sarebbe conseguito di lì a due anni, probabilmente il migliore della loro carriera; nel frattempo, i fedelissimi potevano tirare un sospiro di sollievo e accontentarsi di una risalita avvenuta a tutti gli effetti. Va precisato che in certi frangenti comparivano ancora reminescenze del platter precedente (synth e atmosfere poco convenzionali), ma nel complesso il prodotto era accettabile. Come un fulmine a ciel sereno, anche gli statunitensi Riot -fautori di un hard rock con riflessi metal ma inattivi da cinque anni- tornarono a farsi sentire e sferrarono una zampata colossale come Thundersteel, ritenuto all'unanimità un classico dello speed metal nonché un tangibile esempio di proto-power in salsa americana: riff sgargianti, cori epici e grandi melodie andavano a costituire l'ossatura di un album maturo e capace di ispirare anche le nuove leve di adepti europei. Tra le altre uscite 'classiche' meritevoli di menzione spiccavano Them di King Diamond, Digital Dictator dei Vicious Rumors, Out of the Abyss dei Manilla Road, Destiny degli iconici Saxon e Perfect Man dei teutonici Rage, che con questo lavoro svoltavano dall'heavy-thrash a coordinate più inclini al power. Capolavoro assoluto per i loro conterranei Running Wild: Port Royale era un disco sferzante e passionale, un heavy metal classicissimo e spigoloso che rifletteva nei testi le tematiche piratesche tanto care alla formazione di Amburgo. Oltre a questo autentico classico, i corsari teutonici pubblicarono anche il live Ready for Boarding, confermandosi in un periodo assai prolifico e fruttifero.
Anche il terzo disco dei Megadeth di Dave Mustaine -come …And Justice For All e South Of Heaven- rappresentava un nuovo pilastro del thrash internazionale, ed a sua volta mostrava segni di rinnovamento: So Far, So Good... So What! era leggermente inferiore rispetto al colossale e tecnico Peace Sells... But Who’s Buying?, ma ad ogni modo presentava una nuova serie di brani da antologia. Velocità abrasive, riff incendiari, sezioni mid tempo e assoli al fulmicotone si amalgamavano alla perfezione, esibendo ancora una volta la forza d'urto e la classe compositiva dei thrasher californiani, che qui si affidavano completamente all'ispirazione del loro deus ex machina dopo gli smottamenti in line-up: avvio affidato all'intricata e marziale Into the Lungs of Hell, strumentale nevrotica di grande impatto, proseguo trainato dalle improvvise accelerazioni di Set The World Afire e dal binomio di ritmi frenetici e riff letali che caratterizzava 502: un pezzo tra i migliori del lotto, scandito da una tellurica sezione ritmica iper-thrashy, da accelerazioni impetuose e da un'eccitante break centrale. Il full length era privo di punti deboli, scosso dalle rabbiose frustate della trascinante Hook In Mouth, intrisa di adrenalina e riff tonanti e di Liar, col suo irresistibile accanimento vocale; in particolare, Hook In Mouth degenerava in una sezione thrashy da headbanging ed in un assolo squillante, confermando come questo genere potesse godere anche di grande perizia tecnica, ed articolarsi in brani sferzanti all'insegna della poliritmia. Il brano più celebre era In My Darkest Hour, un mid-tempo lugubre e sinistro dedicato alla memoria del compianto Cliff Burton, l'unico componente dei Metallica con cui Mustaine aveva conservato un buon rapporto; la canzone esplodeva in un concitato crescendo ritmico finale, delineandosi anch'essa come episodio complesso e stratificato, capace di spaziare da trame più cadenzate a sfumature prettamente thrash. L'album era completato da Mary Jane, ulteriore dimostrazione del classico stilema Megadeth (avvio circospetto e vorticoso martellamento finale) e dalla cover Anarchy In The UK dei punk Sex Pistols, resa con più foga e qualità dell'originale. La produzione restava grezza, ma le prove dei singoli erano eccellenti: Mustaine sferrava una nuova messe di riff febbricitanti ed assoli ad alto contenuto orgasmico, dilettandosi con efficacia e velenosità anche al microfono; i nuovi entrati, il drummer Chuck Behler ed il guitarist Jeff Young, rimpiazzavano con dovizia i tossicomani Poland e Samuelson, mentre il fido Dave Ellefson puntellava il disco col suo stile solido e concreto. La band aprì il tour promozionale affiancando i Dio, quindi i leggendari Iron Maiden: un'accoppiata da sogno per ogni appassionato, che difatti regalò serate infuocate ed indimenticabili alle platee. I Megadeth calcarono anche le prestigiose assi del Monster of Rock, mitragliando il loro thrash esplosivo e composito di fronte a centomila persone; i problemi di tossicodipendenza erano però sempre più gravi, tanto che la partecipazione al cast europeo del carrozzone itinerante ne fu compromessa. Ricorda Mustaine: 'C'erano grande tensione ed eccitazione nell'aria quando il tour si aprì, e proprio quel primo giorno a Castle Donington l'eccitazione si trasformò in tragedia: due fans morirono schiacciati quando la folla si riversò verso il palco durante l'esibizione dei Guns'N'Roses. Ero triste e stavo male e anche se i Megadeth non furono direttamente coinvolti la cosa ebbe un brutto effetto su di noi. Poche ore dopo il concerto, Ellefson fece l'annuncio pubblico di voler lasciare il tour per andare in riabilitazione a causa della sua dipendenza dall'eroina; di per sé non sarebbe stato un grande shock per nessuno che seguisse il mondo dell'heavy metal apprendere che un membro dei Megadeth stava per rientrare in riabilitazione. Ma tutti davano per scontato che si sarebbe trattato di me, non di Ellefson'. Furono cancellati concerti in sette stadi, per la delusione di mezzo milione di fans: Mustaine era furibondo. Nuovi tumulti erano alle porte: in una bollente serata su un palco irlandese, il chitarrista -sbronzo e irritato da una moneta che lo aveva colpito in fronte- urlò 'ridate l'Irlanda agli irlandesi' dopo aver parlato con un ragazzo che invano aveva cercato di fargli comprendere la situazione politica locale e le questioni tra cattolici e protestanti; Mustaine era fuori di testa, non sapeva cosa stesse dicendo e nemmeno conosceva le delicate querelle sociali a cui si stava riferendo e di conseguenza ne nacque un putiferio. Il pubblico si scaldò, la tensione balzò alle stelle e la band fu scortata con un mezzo blindato fuori dall'impianto. Nel frattempo, il mercato aveva accolto una nuova uscita discografica attribuibile ad un componente dei Big Four, ovvero gli Anthrax: il loro State of Euphoria mostrava un incremento cospicuo del fattore melodico, sia all'interno delle tracce più thrashy sia nella folta serie di composizioni meno tirate; a conti fatti, la sola opener Be All, End All -eccezionale per la melodia e l'impatto trascinante, con sezioni rapide assolutamente eccitanti- era un brano di primo livello, mentre le altre tracce si assestavano su uno standard qualitativo discreto ma non leggendario come era accaduto con vecchi cavalli di battaglia quali Indians o Gung-Ho; si martellava con insistenza e con il consueto brio in Make Me Laugh o Finale, esaltando la componente thrash insita nelle corde del quintetto newyorkese, ma al contempo si lasciava ampio spazio alla melodia e ai chorus più catchy in passaggi come Antisocial (cover dei Trust), Who Cares Wins e Misery Loves Company: il risultato era positivo ma non colossale, un tentativo di rendere la musica degli Anthrax più varia e fruibile senza perdere in rozzezza e velocità. Valida la prova vocale di Joey Belladonna, autore di alcuni refrain molto accattivanti, così come quella delle due chitarre, col solito Scott Ian a tirare la carretta con riff rocciosi e semplici ma di sicuro effetto; scrosciante, infine, il lavoro di Charlie Benante alla batteria. Il thrash americano, impreziosito anche dal valido The Sane Asylum dei californiani Blind Illusion, rimaneva caratterizzato da una solida base compositiva, offrendo più spunti tecnici e melodici rispetto a quanto proposto dalle ruvide formazioni tedesche; di queste, i Destruction tornarono sul mercato proprio in quei mesi, assestando un nuovo colpo da knockout col tremendo Release from Agony, degno successore del masterpiece Eternal Devastation.
Tra le nuove leve del thrash ottantiano, i californiani Testament rivestivano un ruolo primario, dovuto ad una forza d'urto devastante e ad una elevata qualità tecnica e melodica: il debut-album The Legacy, rilasciato l'anno prima, sintetizzava la violenza sonora degli Slayer con il songwriting stratificato dei Metallica, e difatti il nuovo The New Order non fece che confermare lo stato di grazia del quintetto americano. Le canzoni proposte erano mazzate clamorose e frementi, rapide e potentissime ma al contempo articolate ed imprevedibili: Eric Peterson perfezionò dei riff dettagliati e letali, imbastiti in strutture curate e ben congegnate, mentre l'altro guitarist Alex Skolnick si confermò un solista straordinario ed ispirato, grazie al suo tocco avvolgente; il titanico nativo americano Chuck Billy irrorava un sound già tenace con le sue vocals trascinanti e feroci, mentre la sezione ritmica dettava corse sfrenate e devastanti: si accelerava e si rallentava di continuo nella sferzante opener Eerie Inhabitants, si picchiava durissimo nella letale titletrack: le serrate ritmiche erano perentorie ed incontenibili, l'alone intimidatorio cupo e costante, il senso di oppressione urbana sublimato da trame complesse e riff oscuri, velenosi e taglienti. Perfettamente a metà tra la veemenza esecutiva e la qualità degli arrangiamenti si collocavano i solismi di Skolnick, puliti, fluidi, scintillanti e sempre azzeccati: il coronamento di uno stile originale, impattante e destinato ad influenzare la storia del thrash metal. Brani come Trial By Fire dimostravano una volta di più che questo genere non doveva fossilizzarsi giocoforza su croniche fughe prive di variazioni, ma era ancora più letale se organizzato in composizioni poliritmiche e capaci di spaziare tra differenti metriche ed atmosfere; l'episodio migliore del lotto era la leggendaria Into The Pit, un orgasmico e massacrante inno al pogo: costituita da sfibranti e velocissime accelerazioni, la canzone godeva di un chorus da pugni al cielo e si candidava ad autentico cavallo di battaglia per i californiani, che con Disciples of the Watch immortalavano tutta la propria violenza spingendola ai massimi livelli: la rapidità e l'aggressività erano qui perentorie più che mai, ed anche in questo caso ogni appassionato di thrash metal non poteva che lasciarsi distruggere fisicamente dal moto perpetuo di un nuovo classico imprescindibile. A proposito di classici, va citata la fenomenale The Preacher, riproposta live puntualmente lustro dopo lustro ed incendiata da velocità urticanti e vocals al vetriolo. I Testament erano incalzanti ed implacabili quando avanzavano con forsennate sezioni strumentali a rincorsa e sfoggiavano una serie di riff annichilenti destinati al knockout: erano ormai divenuti una delle realtà più rappresentative della scena thrash internazionale. Ricorda Peterson: 'C'erano molte cose che contribuivano a creare un'atmosfera particolare all'epoca; prima di tutto, il fatto che molte band si fossero formate nello stesso momento pensando allo stesso tipo di musica. Era come se fossimo tutti insoddisfatti di quello che ascoltavamo e tutti avessimo pensato alla medesima soluzione: suonare più forte, più heavy, più veloce. Avevamo una sorta di odio per l'establishment discografico, eppure ci seguivano migliaia di persone. Avevano iniziato tutto i Metallica, ma in poco tempo l'infezione dilagò. Era una corsa a chi faceva il disco più duro, la canzone più truce o il testo più violento, ma eravamo sicuri che gli unici a prenderci sul serio eravamo solo noi stessi'. Invece, si stava facendo la storia. Nella tracklist del disco era presente anche una cover degli Aerosmith, Nobody's Fault, modellata sotto le caratteristiche tipiche del Testament-sound e seguita dalla dinamica A Day Of Reckoning (con la sua tellurica coda finale) e dall'outro stumentale Musical Death (A Dirge), una melodia decadente e articolata, arricchita da complessi giri di chitarra classica, che si rifaceva alle monumentali suite dei Four Horsemen, Orion e The Call of Ktulu. L'album fu supportato con un tour lungo gli States, con i Vio-Lence a seguito; dopodiché la formazione di San Francisco calcò il palco assieme ad autentiche leggende quali Judas Priest, Megadeth, Voivod ed Anthrax, facendo conoscere il proprio moniker a tutte le latitudini e presenziando al prestigioso Monster of Rock di Castle Donington, dove si esibì in forma stellare. Attraverso due dischi di thrash puro e stilisticamente complesso, i Testament avevano apportato nuova linfa vitale al proprio genere, arricchendolo di elementi importanti (le strutture più complesse) e rafforzando le peculiarità storiche dello stesso (potenza e velocità), fornendo alla massa urlante dei manifesti di proporzioni ciclopiche. Maestri ormai consolidati del thrash americano, anch'essi assurti alla gloria nel volgere di due full length, gli Overkill tornarono a far vibrare le proprie note con Under the Influence, leggermente meno brillante ed ispirato rispetto ai due predecessori; le atmosfere epiche e la tradizionale forza d'urto lasciavano il passo a brani più concisi e diretti, ma l'album -che pure non possedeva il valore qualitativo di Feel The Fire e Taking Over- restava un prodotto di buon livello. Anche le velocità non erano sempre marcate e devastanti come in passato: per molti si trattò di un piccolo calo qualitativo. Shred era un pezzo di apertura molto tagliente, affidato ad accelerazioni repentine e probanti; la saltellante Never Say Never puntava su un incedere nervoso ma senza toccare le grandi velocità thrashy; Hello From the Gutter, traccia dalla sezione solista e dal riffing classic heavy, di stampo quasi priestiano, era più dinamica ed eccitante nelle vocals e nei cori, mentre Mad Gone World era un brano spigoloso e compatto; per il resto, si passava tra episodi cadenzati con crescendo selvaggio (Drunken Wisdom) alle vocals più melodiche di End of the Line, concludendo con la ferocissima titletack, forte di riffato velenoso e tempi ultra-thrashy. Le performances dei singoli erano valide ma meno incisive, con un Gustafson soltanto discreto alla sei corde e Bobby Elsworth trascinante come suo solito soltanto a sprazzi. Molto incisiva fu, sempre in ambito thrash, la sensibile svolta tecnica che caratterizzò la seconda release in studio degli svizzeri Coroner, che sul debut R.I.P. avevano proposto uno stile impattante, rapido ma ancora debitore della rudezza più classica del genere: Punishment For Decadence era più curato e articolato nelle trame, pur rimanendo un prodotto velocissimo e pregno di atmosfere cupe; il guitar-work di Tommy Vetterli metteva in mostra uno stile progressivo e virtuoso che si articolava in riff atipici, mentre la sezione ritmica spiccava per controtempi e stacchi drastici. L'album influenzerà la scena techno-thrash in maniera evidente, diventando un autentico pilastro nel suo ambito e non solo; suonava più duro e compatto del predecessore, era maturo e ricercato nel songwriting e manifestava la chiara volontà, da parte dei suoi fautori, di evolversi senza mai fermarsi; una peculiarità che derivava dai background ricchi e variegati di questi musicisti, come testimoniato al tempo dallo scrosciante e tellurico drummer Marquis Marky: 'Abbiamo molte influenze e questo appare evidente nei solchi dei nostri dischi; ognuno di noi si dedica ad ascolti di vario genere, dal jazz alla musica classica, passando per la psichedelia. Praticamente ogni suono è una fonte di influenza. Uno dei problemi più seri della scena thrash è che le band ascoltano solo i loro simili, finendo poi per somigliarsi anche nei punti di riferimento, che continuano ad essere Metallica, Slayer ed Anthrax. Ci sono già loro che svolgono uno splendido lavoro, perché seguirne il tracciato in modo pedissequo? Penso che sperimentare con altri stili sia molto più divertente e creativo, ed è questo che conferisce ai Coroner una personalità definita. C'è bisogno di persone open-minded; in molti non sanno definire la nostra proposta proprio perché esula dai canoni classici del thrash'. Irresistibili erano pezzi come la devastante Masked Jackal, dotata di serrate ritmiche da paura ed assoli vertiginosi, o la strumentale Arc-Lite, arricchita da formidabili scale neoclassiche; infarcita di tensione, velocità e adrenalina, ma anche di contorti assoli di stampo classic heavy e riff cervellotici, Skeleton on Your Shoulder sintetizzava perfettamente le coordinate stilistiche degli elvetici, i quali esprimevano tutta la loro violenza in episodi insostenibili quali Shadow of a Lost Dream o The New Breed.
Progressione e tecnica erano anche gli elementi prominenti nel sound dei canadesi Voivod, i quali dopo un capolavoro di thrash progressivo come il visionario Killing Technology diedero alla luce l'ancor più psichedelico Dimension Hatross, nuova pietra miliare all'interno del panorama alternativo; un concept nella dimensione sub-atomica ed una svolta stilistica che abbandonava le componenti più furiose e lo screaming aggressivo dei dischi precedenti, confermando però lo status rivoluzionario dei nordamericani. Notevole era la mazzata thrash/hardcore scoccata dai nevrotici Nuclear Assault, che in Survive includevano tutte le loro peculiarità (fiondate ritmiche senza sosta e martellamento pedissequo); vigorose anche le rasoiate di Eternal Nightmare dei Vio-Lence, una formazione proveniente dalla Bay Area e completamente dedita ad un thrash furibondo, velocissimo ma assolutamente essenziale e conciso; alla chitarra si distingueva il lavoro frenetico e tagliente di Robert Flynn, mentre la voce di Sean Killian era acutissima e lancinante, un trapano acuminato che andava a triturare i padiglioni auricolori degli ascoltatori. Coordinate piuttosto classiche, che invece iniziavano a mutare forma nelle sonorità dei Death Angel, anch'essi provenienti dalla costa di San Francisco: i cinque cugini filippini erano entrati di diritto nella storia del thrash con il debut The Ultra-Violence, una fucilata esplosiva ma a tratti dotata anche di composizioni composite, un autentico gioiello considerata l'età puberale dei suoi fautori; i talentini scoperti da Kirk Hammett, tuttavia, erano già stanchi di dover seguire un canovaccio standard ed introdussero elementi jazz e funky nel loro stile, evolvendosi nello sperimentale Frolic Through the Park senza perdere la carica thrashy. La scena di Frisco stava esalando gli ultimi respiri, donando al metalrama internazionale gli ultimi capolavori: tale era anche Forbidden Evil dei Forbidden, band in cui aveva militato lo stesso Flynn e che si distingueva per una considerevole caratura tecnica, oltre che per la devastante forza d'urto sprigionata dagli incaponimenti ritmici del drummer Paul Bostaph. Naturalmente le qualità tecniche erano assoggettate al concetto distruttivo tipico del thrash,inversamente a quanto accadeva nella musica dei misteriosi tedeschi Mekong Delta: questi facevano prevalere le sfumature progressive agli elementi più aggressivi, e l'ibrido che ne nasceva -ed iniziava a percepirsi nel secondo full length della band, The Music of Erich Zann- era insolito e sorprendente. Niente paura, per i puristi: l'uscita del live Mortal Way Of Live, che immortalava i tedeschi Sodom in forma smagliante, permetteva agli appassionati di percepire tutta la violenza espressa sul palco dall'act di Gelsenkirchen. Esso rappresentava uno dei primi live-album rilasciati da formazioni appartenenti a questo sottogenere metallico; grande scalpore destò l'artwork di copertina, raffigurante un'orgia ambientata in epoca greco-romana. Il futuro del thrash metal era ancora difficile da immaginare: di certo nessuno poteva pensare che una piccola band texana, fino a quel momento attiva con uno stile abbastanza scialbo e tendente all'hair metal, si sarebbe presa sulle spalle i destini del genere. Eppure i Pantera stavano per invertire il registro: colpiti da dischi epocali come Master of Puppets e Reign In Blood, decisero di irrobustire le ritmiche e rendere più aggressivo il loro sound, rinunciando a phard e capelli cotonati. Il singer Terry Glaze non concepì questa scelta e mollò la baracca, finendo in un gruppo pop metal; fu sostituito dal più grintoso e carismatico Phil Anselmo, ex di Samhain e Razorwhite. Il disco che ne uscì si chiamava Power Metal e non era ancora definibile thrash: era però imbevuto di uno speed-metal molto più tagliente e aggressivo (power appunto) e rappresentava la svolta colossale rispetto alle sonorità precedentemente proposte dal quartetto. Rick Warden, un ragazzo appassionato di metal che presenterà i Pantera ai Metallica, frequentava i fratelli Abbott (chitarrista e batterista della band) con assiduità e del disco della svolta ricorda soprattutto lo stile vocale di Anselmo, non ancora personale e definito: 'Sul quarto album dei Pantera, Phil si ispira allo stile di Rob Halford; chi lo sentì all'epoca pensava di avere di fronte un nuovo Halford. Nessuno immaginava cosa sarebbe divenuto in futuro Phil Anselmo'. La band iniziò a farsi notare, tanto che Dave Mustaine offrì a Dimebag Darrell l'ascia dei Megadeth: il riccioluto chitarrista avrebbe accettato solo se il rosso di La Mesa avesse portato con sé anche il fratello, ma alla batteria dei Megadeth era appena arrivato Nick Menza e dunque non ne nacque nulla. Fu, di fatto, la rinascita dei Pantera, che in quel momento tagliarono i ponti col loro passato. Ricorda Vinnie Paul Abbott, il drummer: 'Tenemmo una riunione e decidemmo che il look spandex e lacca non era la musica: la musica eravamo noi, quindi decidemmo di vestirci casual, come persone normali'. Una scelta saggia, attraverso la quale l'act texano spostò l'attenzione dal contorno alla portata principale, che si stava facendo sempre più ghiotta. Un'altra uscita di proporzioni considerevoli fu Operation:Mindcrime degli americani Queensryche: per la band di Seattle si trattava del terzo studio album, escludendo l'EP omonimo di debutto e rappresentava il coronamento di uno stile che si era evoluto dal classic metal di The Warning ad un più complesso sound progressive, che già in Rage For Order aveva mostrato i primi segni; Operation:Mindcrime era forse il primissimo disco di prog-metal vero e proprio della storia, e presentava una scaletta ricca di tracce spettacolari ed un forte concept tematico; questo era incentrato sulla storia di un uomo deluso dalla società americana, il quale si allea ad una cospirazione di assassini per eliminare i leader corrotti. Con tutta probabilità, questo full length rappresenta il concept per eccellenza, in ambito metal; in esso spiccava il chitarrismo raffinato e la classe compositiva di Chris DeGarmo, a suo agio sia con atmosfere educate che con alcuni riff più potenti, ottimo in fase solista e assolutamente strepitoso nell'arrangiare una quindicina di tracce perfettamente incatenate. Un intreccio lirico e musicale di qualità immensa, nel quale spiccava l'interpretazione passionale del singer Geoff Tate, eccellente nel dare una marcia in più a brani curati nel dettaglio: l'opener Revolution Calling, la coinvolgente titletrack, le avvincenti Speak o Spreading The Disease, l'incalzante e dinamica The Needle Lies o l'epica Eyes Of A Stranger erano tutti brani destinati a fare scuola, fonte di ispirazione per i futuri colossi del prog: i Dream Theater. Operation:Mindcrime era il trionfo della musica, un caleidoscopio di sonorità, idee e stili che apriva le porte ad un innovativo modo di concepire il metal, senza che limitazioni alcune ne frenassero gli impulsi. La band supportò il disco con una importante serie di concerti, lungo tutto il 1988 e proseguiti nel 1989: si esibì anche a supporto dei Metallica, guadagnando consensi e facendosi conoscere ovunque. Meno influente fu l'impatto di No Exit, quarto disco dei Fates Warning: una release che non raggiunse il successo sperato, per una realtà che comunque godeva già di un notevole riscontro ed aveva a sua volta contribuito a diffondere i semi primigeni del prog-metal.
Un oscuro vento marcescente stava nel frattempo soffiando dalla Florida; come Kill'Em All era stato il disco che aveva sancito ufficialmente la nascita di un movimento già consolidato in ambito underground (il thrash), così Scream Bloody Gore era stato l'atto di nascita di un filone ancora più feroce, veloce, devastante: il death metal. Il nome derivava per l'appunto dalla band che ne aveva posto le fondamenta, ispirandosi al sound dei Possessed e portando alle estreme conseguenze i semi maligni diffusi dai Venom anni addietro: i Death. Più che una band, in realtà, erano un progetto solista: quello del giovane Chuck Schuldiner, chitarrista autodidatta, caratterino dominante e determinazione sterminata. Evil Chuck aveva inciso il debut a San Francisco, con l'ausilio del solo batterista Chris Reifert, ponendo nuovi punti cardinali in quanto a velocità ritmica, trasfigurazione vocale e morbosità del rifferrama; eppure aveva intuito con grande lungimiranza che la scena della Baia aveva le ore contate ed aveva preferito rimettersi in cammino, tornando in Florida e cercando nuovi collaboratori. Schuldiner aveva migliorato il proprio stile, facendosi più preciso e sviluppando uno stile più incisivo sia nei riff che negli assoli; i musicisti di cui si circondò -Rick Rozz alla chitarra, Terry Butler al basso e Bill Andrews alla batteria- non erano certo dei virtuosi, tanto che per le registrazioni del nuovo disco Chuck dovette semplificare alcuni passaggi di chitarra ed incidere personalmente le parti di basso, dato che Rozz e Butler non gli stavano dietro e, soprattutto, non si impegnavano per farlo: questo creava incomprensioni e grande rabbia in Chuck, un ragazzo già all'epoca dedito completamente alla sua musica ed interessato ad una evoluzione continua e costante. I suoi compagni si adagiavano sugli allori, passavano più tempo a sbevazzare al bar che in sala prove e dedicavano più attenzione alla cura del loro look piuttosto che al perfezionamento stilistico: era chiaro che sarebbe durata poco, vista l'ambizione smisurata di Schuldiner. Il prodotto che ne uscì era comunque eccezionale: Leprosy presentava composizioni velocissime, devastanti, sfibranti, proprio come il predecessore, ma era più pulito nella produzione, estremamente maturo negli arrangiamenti, più crudo e realista persino nei testi, che abbandonavano visioni splatter-gore per concentrarsi su tematiche più concrete quali la malattia o l'eutanasia. I Death sfoggiavano un repertorio completo e variegato di riff brutali, i più efferati e violenti in circolazione: avvolti da un alone sanguinolento di malvagità e perversione, correvano a mille all'ora con ritmiche furibonde e lancinanti assoli al fulmicotone. Era il primo passo verso la crescita e la progressione continua che avrebbe sempre caratterizzato questa band, come dichiarava lo stesso Schuldiner: 'Questo disco è stato un grande passo in avanti e la gente si è resa conto che abbiamo fatto molto più che produrre solo rumore. Anche la produzione è stata molto migliorata: volevamo un sound pulito, ma che fosse ancora brutale'. Apriva le danze la terrificante titletrack, capace di spaziare da ritmiche pesanti come pietre tombali ad accelerazioni massacranti, e si continuava in un mirabile esercizio di furia e desolazione: la disumana Born Dead, la trascinante Forgotten Past, Choke On It o la tellurica Pull The Plug, destinata a diventare un classico imprescindibile di tutte le scalette live, erano brani grezzi e aggressivi, incendiati da vocals mid-growling molto dure, ma sempre caratterizzate da una piccola componente catchy che le redeva travolgenti ed incisive. Tutti i pezzi erano ugualmente validi, garanzia di delirio; l'atmosfera che si veniva a creare era cupa e opprimente: se il thrash era un manifesto di ribellione, un inno all'insurrezione, il death era una sorta di fotografia annichilente di una realtà incontrovertibile, davanti alla quale si poteva provare solo furibonda rassegnazione. In quel periodo iniziò la lunga e fortunata collaborazione tra Schuldiner ed Eric Greif, storico manager della band; lo stesso Greif sottolineerà in seguito l'importanza che l'aspetto umano ha sempre rivestito nelle considerazioni del verace chitarrista americano: 'Nel 1988 Chuck e io cominciammo a parlare direttamente sulla gestione della band e ci intendemmo subito come fratelli. Stava cercando un manager che andasse oltre il semplice ruolo di business-man, che non guardasse solo al lato commerciale, ma che invece combattesse al suo fianco, in trincea'. In certi testi, si intravedevano riferimenti a fatti di cronaca, e difatti lo stesso Schuldiner faceva ben intuire quali fossero i suoi obbiettivi imminenti: 'I testi sono più seri e nel prossimo album conto di poter ottenere una dimensione ancora più realistica. Per ora le mie idee provengono da articoli di giornale'. La band si esibì in un mini-festival organizzato dalla Combat, calcando il palco insieme ai Raven, ai Forbidden ed ai Dark Angel del poderoso drummer Gene Hoglan: da questi spettacoli fu realizzato anche un video di bassa qualità, talmente scadente che Chuck esortò i fans a gettarlo in un falò. C'era un clima di fratellanza tra le band: i concerti andarono alla grande e il pubblico si sfiancava in maratone di pogo ed headbanging, riversando sul pavimento ettolitri di sudore, per la gioia di Schuldiner: 'Fu molto bello, tante persone del pubblico sembravano divertirsi ed è l’unica cosa che conta, infine'. I primi gossip diffamatori iniziavano però a colpire la formazione floridiana: alcune riviste scrissero che Chuck aveva rifiutato di aprire in Europa per band importanti come gli Exodus, ma il ragazzo -con il consueto carisma- spiegò che la sua band aveva troppi pezzi che i fans volevano sentire e avrebbero potuto suonare prima di altre band soltanto a determinate condizioni, dunque senza vedersi ridurre la scaletta in maniera eccessiva. Nel frattempo, Leprosy era già assurto al rango di pietra miliare della musica estrema; nel corso del 1989 i Death rimasero a lungo in tour, ma dovettero allontanare Rick Rozz a causa della sua staticità tecnica, come testimoniato in seguito da Sculdiner: 'Rick è stato praticamente cacciato dalla band a causa del fatto che ci stavamo tutti evolvendo come gruppo e migliorando come musicisti, mentre lui, semplicemente, non lo stava facendo. Mi impediva di scrivere il tipo di materiale che volevo scrivere, dovevo preoccuparmi continuamente di non scrivere materiale troppo complesso, perché per lui era impossibile eseguirlo; noi tutti sapevamo che era ora di cambiare'. A dicembre 1989 la band arrivò finalmente nel Vecchio Continente, ma dovette tornare in patria prematuramente a causa di alcuni problemi organizzativi: non fu una bella immagine per il gruppo, ma in ogni caso le assi europee aiutarono i Death a farsi le ossa ed imparare parecchie cose che sarebbero in seguito tornate utili.
Dopo i tumulti e i cambi di formazione seguiti al seminale Scum, punto d'origine -e di non ritorno- del grindcore, gli inglesi Napalm Death tornarono sulle scene con From Enslavement to Obliteration, una nuova sequela di dissennati e caotici olocausti sonori: ben ventisette tracce concentrate in trentaquattro minuti di botte e grugniti, con i tre minuti di Evolved as One a rivestire il ruolo di composizione più lunga; i brani si stabilizzavano attorno ad uno o due minuti di durata, ma alcune tracce si esaurivano nel sussultorio volgere di cinque o sei secondi. Alla chitarra venne confermato il bravo Bill Steer, che suonava anche nei Carcass, mentre alla voce rimase il solo Lee Dorrian, che con il suo growl cavernicolo faceva tremare anima e corpo. Steer doveva fare la spola tra Birmingham e Liverpool, quartier generale dell'altra sua creatura marcescente: i Carcass, per l'appunto, formatisi come Disattack e giunti alla grande prova del nove: il debutto in studio. Reek Of Putrefaction presentava suoni sporchissimi, tempi velocissimi, canzoni molto corte, voci gutturali, tecnica approssimativa, chitarre fortemente distorte, strutture insensate; i testi erano macabri, necrofili, vomitevoli e provocatori, incentrati sulla narrazione di cadaveri in putrefazione, genitali tranciati, carni smembrate, eccitazioni morbose provocate dall'asfissiante odore di pus, croste scoperchiate, rigurgiti anali, colonie di vermi sottocutanee ed altre oscenità similari. Scarno, melmoso, estremo come non mai, il platter suonava amatoriale e raffazzonato, come un demo prodotto in qualche squallido scantinato; voci ultra-basse, blast beat imperterriti e saltuari rallentamenti mortali ne scandivano l'incedere, implementando l'azione di estremizzazione totale attraverso la quale ci si stava ormai discostando platealmente dalle origini classiche del metal: la scissione era ormai evidente, perché si stava effettivamente parlando di generi completamente differenti. In ambito estremo si segnalava anche In Battle There Is No Law dei britannici Bolt Thrower, fortemente influenzato dall'hardcore e Malleus Maleficarum degli olandesi Pestilence, un ibrido tra Possessed e Sepultura: un death metal molto violento, ancora scarno e rudimentale, con palesi reminescenze thrash metal, lontano dalle evoluzioni successive intraprese dalla formazione dei Paesi Bassi. Nell'intimidatorio Blood Fire Death i pionieri Bathory rallentavano le metriche e producevano un effetto cimiteriale, intercedendo dal black tradizionale ad un più particolare viking metal, peraltro già abbozzato in alcuni lampi esalati nelle releases precedenti; molto deludente fu invece il quarto disco dei Celtic Frost, che continuarono la loro opera di autodistruzione -per lo meno agli occhi dei fans puristi- con il più commerciale Cold Lake, definito da alcuni addirittura incline all'hair metal. A proposito di mainstream: Long Cold Winter fu un colpaccio per i Cinderella, capaci di sbancare le classifiche con i loro anthem, mentre Beast from the East dei Dokken e New Jersey dei Bon Jovi indicavano l'ancor discreto stato di forma del rock/metal patinato. In particolare il rocker di origine italiana, idolo assoluto delle ragazzine, confezionò un prodotto elettrizzante e passionale, trainato da pezzi come la stupenda Born to Be My Baby o Blood on Blood, degni successori dei tanti successi estratti dal masterpiece Slippery When Wet (1986). Al di là di questi excursus dediti alla forma prima che alla sostanza, lo scenario restava ricco e fertile: in quest'ottica bisogna citare il pregevolissimo Dragon's Kiss dello shredder Marty Friedman, il chitarrista riccioluto che grazie alle sue scale vertiginose e ai suoi esercizi di tecnica sopraffina si guadagnerà, di lì a poco, la chiamata nei Megadeth. In ambito doom, infine, erano ancora i losangelini Saint Vitus a dettare legge: un anno dopo il loro masterpiece Born Too Late, gli americani ribadirono il loro pesantissimo e dilatato sound pachidermico in Mournful Cries, release che ne confermava lo status di eminenze assolute nel settore. Anche se il documentario The Decline of Western Civilization II: The Metal Years metteva in risalto i risvolti meno nobili del microcosmo metallico, lo scenario heavy metal internazionale restava solido, fertile e in gran forma.
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Grazie dei consueti complimenti, esimio Marchese  |
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Wow!! Quando un articolo si può definire "monumentale". Voglio solo aggiungere che i Manowar sono in assoluto uno dei miei gruppi preferiti, emozionantissimi e carichi di pathos. Però all'epoca non ne avevo mai sentito nominare. Mi ricordo che l'album dell'anno, per me è stato Septembre Bleu di Dan Ar Braz. Qualcuno, maybe, se lo ascolti. |
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Ci sto lavorando ancora un pò di pazienza...  |
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Non resisto più quando il prossimo ? |
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Ma cero Rino, era solo per ricordarti che hai una fanbase . |
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Siete i numeri uno ragazzi... vecchia impostazione (web 1.0) ma piena di contenuti, cosa che con i nuovi restyling da web 2.0 si è perso il contenuto a scapito della forma (a mio parere orribile e piena di lucchetti). Continuate così, siete un sito formidabile. |
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pazienza ragazzi, al momento sono troppo incasinato  |
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Quoto Delirious Nomad!! |
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Ma come Rino, due mesi senza questa fantastica rubrica! Siamo sempre in attesa, non credere ! |
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Sergio@ l'importante è chiarirsi e penso che sei stato un grande a farlo! Pensavo il tuo intervento fosse stato l'ennesimo di qualcuno che per partito preso ce l'avesse con i Manowar e con chi li segue come va molto di moda fare ultimamente. Personalmente ancora oggi vado matto per il glam, l'aor e l' hair metal in generale ma anche io , come Thor, ho iniziato ad ascoltare metal "veramente" grazie ai Manowar e proprio a Kings Of Metal (che secondo me è stato e rimane il capolavoro della band assieme a The Triumph Of Steel). Cmq, chiacchiere a parte, come dicevamo, questo anno è stato fondamentale per l'hard n heavy! Arraya@ Ti quoto! Supporto la tua proposta!!! |
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Arraya@Anch'io e un mio amico spaziavamo dal Thrash allo street,glam ecc,però eravamo pochissimi a milano,negli anni 86/87/88 o eri un thrasher o un glamster,oppure ascoltavi SOLO i vecchi gruppi!Io invece adoravo e adoro un sacco di band tutte diverse,dalla vecchia guardia alle novità,e anche oggi,pur riconoscendo che la qualità globale dei dischi sia calata,son sempre affamato di gruppi nuovi!Ricordo degli amici inorriditi perchè uscito dal mio negozio preferito il mitico Mariposa di Porta Romana,a Milano,negozio cult insieme a Transex,con gli aquisti del sabato i Testament "The Legacy"ed il primo Poison!Poi a casa,e con un paio di birre goderne ,divertirmi e uscire con gli amici la sera per magiche bevute.....Indimenticabili! |
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Sergio accetto le tue scuse ma devo precisare che non ho voluto affatto sminuire l'importanza dell'aor e hard rock generi per cui ho grande rispetto che mi hanno appassionato da giovanissimo e che se capita in qualche locale ascolto volentieri ancora adesso,penso che nessuno sia nato metallaro e io sono fiero di essermi avvicinato al metal passando da quei gruppi piuttosto mi sarei vergognato se come purtroppo capita ai metallari moderni di iniziare ad ascoltare metal con roba tipo linkin park,slipknot,avenged sevenfold o bullets for my valentine. |
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Macca@ Guarda che Hop Hop Somarello del grande Paolo Barabani era una gran bella canzone se confrontata con la merda Sanremese di oggi. il testo aveva un bel significato |
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Io e i miei amici all'epoca spaziavamo dal thrash al glam Losangeleno, l'importante era che fosse buona musica. Mi ricordo anche i giapponesi Loudness e i Faster Pussycat definiti street rock'n'roll. In effetti nemmeno all'epoca ci facevano mancare denominazioni varie. Comunque i nomi che hanno citato Andy71 e Samba@ me li ricordo perfettamente. Da ricordare che il bassista dei Nuclear Assault fu l'ex Anthrax e fututo Brutal Truth Dan Lilker, e chi non ha mai ascoltato Hang the Pope non può definirsi metallaro ah ah ah. Proposta di articolo per questa band su metallized |
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...Justice, Seventh, New Order, Leprosy, South Of Heaven, Keeper,....che annata ragazzi!!!! e anche se allora avevo 5 anni e ascoltavo "Hop Hop somarello" per fortuna mi sono rifatto negli anni a seguire  |
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Sergio@Anch'io adoro A.O.R.e Hard Rock americano in egual maniera dell'HM e tutte le sue ramificazioni,però Hair metal non si può sentire,e soprattutto non è mai esistito!nel senso che all'epoca non si sà come,ma iniziarono dei giornalisti a chiamarlo Hair,però cazzo,mi rifiuto,da cultore del genere tale nome è veramente un insulto è una schifezza! non esiste,per il modo di portare capelli ecc dare un nome......Già ho sempre odiato etichette dei generi ecc.io ascolto da Burzum ai Toto,dagli Obscura agli House of Lords che sono uno dei miei gruppi preferiti ecc.se proprio devo dare un etichetta è Rock Americano!ben vengano per quanto mi riguarda Steelheart,Winger,Blue Murder,White Lion,Danger Danger,Little Angels ecc.Ma i Manowar sono i Manowar!Pancetta@perdendo qualcosa?Ti stai perdendo un mondo,Nuclear Assault una super mega band,con un capolavoro perfetto per quel che mi riguarda che è "Survive"e gli altri "Game Over"e "Handle With care"fantastici!Corri ai ripari!Arraya@Grande!Il mio preferito dei Manowar di tutti i tempi è l'inosidabile!"Into Glory Ride"CAPOLAVORO MONUMENTALE! |
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@Pancetta, mi sa allora che di pancetta non ne hai accumulata a birra & thrash....... |
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Perdonatemi ragazzi,non era mia intenzione scatenare flames,domando scusa per il mio commento sopra le righe...solo non mi è parso giusto sminuire il movimento AOR, Hard Rock e Hair Metal(di cui sono grande appassionato) tacciandoli di generi meno seri rispetto all'Heavy Metal e ai Manowar,gruppo che comunque apprezzo nonostante non mi siano mai andati giù certi loro atteggiamenti,come posso dire,piuttosto esagerati,per questo motivo li ho definiti alla mia maniera come tamarri,il che potrebbe anche venire inteso non necessariamente in senso negativo |
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Nuclear Assault mai sentiti , dai commenti qui sotto mi sa che mi sto perdendo qualcosa... |
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Si, i Nuclear mooolto sottovalutati, erano davvero una grande band Handle ai tempi l'ho fuso.....praticamente ho 2 vinili, uno fuso e l'altro immacolato, trovato incelofanato una decina di anni fa. |
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The@ ma dai, si che esistono, che piacciano o meno, ma esistono. ovviamente insieme a Kings of Metal metterei l'altro loro album migliore, Sign of the Hammer, la summa dei Manowar anni '80 |
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Uno dei gruppi piu sottovalutati e superdimenticati sono i Nuclear assault. Per quanto mi riguarda ll'epoca erano tra i miei preferiti; picchiavano duro ed erano marci abbastanza da ritenerli un crossover tra thrash e hardcore (altro che metal-core). Ho ancora la maglietta super stretta di Handle With Care, album uscito l'anno dopo nel 1989 (mi raccomando menzionatelo al prossimo articolo). Per quanto riguarda Seventh Son... mi ricordo di un libretto uscito con la rivista H/M che raccontava due date del tour americano della band, in cui Dickinson raccontava i retroscena della nascità dell'album (che anche io come Nerkio@ lo considero l'ultimo grande album della band), e in quelle pagine c'erano gia i segnali dei primi dissidi tra lui e Harris, spiegando il motivo per cui lui non aveva i tatuaggi e gli altri si, sul fatto che lui aveva studiato e gli altri erano di estrazione operaia, fatto che mi aveva un pò infastidito a dir la verità. |
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Grandissimo commento Arrraya , hail |
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i manowar non esistono proprio. |
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Ascoltare "Kings of Metal" a tutto volume mi fa dimenticare tutte le critiche esagerate rivolte a questa band. Se non vi piacciono non li ascoltate. Ok, saranno pacchiani, esagerati, certe volte irritanti, ma non bisogna dimenticare che la musica è anche intrattenimento e leggerezza. Non ci possiamo martellare sempre i coglioni con la seriosità (indispensabile per certi versi) forzata , ci vuole anche un pò di sano fancazzismo metallaro in salsa manowariana. Kings of Metal, voto 10 |
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Credo che le band sia legittimo criticarle......ma sfottere chi le ascolta è da vili.... |
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Credo che le band sia legittimo criticarle......ma sfottere chi le ascolta è da vili.... |
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Credo che le band sia legittimo criticarle.....ma sfottere chi li ascolta è da vili.... |
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!Cazzo i Manowar non si toccano!Io sono un grande appassionato di Journey,una delle mie band preferite,Def Leppard li adoro,ma cazzo i Manowar sono fede pura!Fin dai primi ottanta sempre nel cuore!Fino a "Triumph of Steel"solo dischi galattici,Punto."WE FIGHT TO THE DEATH.TO THE LAST MAN.TO THE LAST BREATH.DEATH TO FALSE METAL.INTO GLORY RIDE!" |
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Thor ci vendicherà tutti , odino è con lui.... |
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ed ecco che dal remoto nord, solcando distanti mari glaciali, giunse THOR cavalcando oscure nubi di guerra. Sergio te la sei cercata ahahahah |
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@Sergio: Guarda, persoonalmente non sono un fan dei Manowar e non apprezzo molto i loro dischi ma, nonostante ciò, grande rispetto per una band che ha fatto innamorare tante persone. Saranno tutto quello che vuoi, ma il rispetto viene sempre prima... Senza contare che si rischiano inutili flames con Thor ed altri utenti che amano questa band. |
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Sergio@ tu però lo sei ancora di più! Niente flames, e che cazzo. Ognuno ha vissuto il metal a modo suo, non puoi questionare le preferenze di altre persone. Ma poi ancora andate in giro con termini tipo "tamarri"!?!? State a cavallo, altro che comicità nei Manowar! |
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@THOR quei tamarri dei Manowar sarebbero un gruppo più serio di Journey e Def Leppard??? ah ah ah ah ma sei un comico nato XD |
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@Andy71: Wow! Che bei ricordi che hai! Erano proprio altri tempi, tutti alla buona e con una grande voglia voglia di fare musica divertendosi... Davvero fantastico! |
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Northcross1@Concordo,il Tour Slayer/Nuclear fù strepitoso,gran dischi e gran live,in particolare ricordo una data dei Nuclear da headliner credo fosse proprio il tour di Survive,a Milano,fercero una strage,e poi bevemmo una marea di birre sul marciapiedi io e un amico insieme al grandissimo Glenn Evans,serata memorabile!Gente alla mano e con voglia di divertirsi,anche Dan poco dopo arrivo,a malapena stava in piedi,ricordo che parlammo di dischi,aveva una busta con dentro un vinile che aveva appena preso dei grandissimi Incinerator mitica thrash band siciliana,gli piacevano molto le band thrash hard core italiane,che tempi,che ricordi fsntastici. |
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Rino: sei un grande, veramente! Che bell articolo hai sfornato! Che dischi, che band a quell'epoca. Slayer e Nuclear Assault insieme nel tour chissà che mazzate, anche perchè i primi 3 dischi degli NA sono capolavori imprescindibili per chi ama il Trash... Per il resto c'è da perdersi con tutti questi capolavori. |
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Articolo megagalattico superspettacolare!!!! specialmente la prima parte che è veramente il meglio del meglio!!!!!!! Se dovessi fare una graduatoria delle annate migliori metterei il 1984 al primo posto ma l'88 viene subito dopo e poi l'88 è l'anno a cui sono piu affezionato in maniera simbolica perche è sul finire di quell'anno che conobbi i Manowar e decisi di diventare un vero metallaro,un mio amico mi passò Kings of metal e fu un'illuminazione immediata decisi che era arrivata l'ora di lasciare da parte Scorpions,Def leppard,Journey o Survivor per passare a qualcosa di piu serio.Grazie al grande The thrasher per avermi ributtato nei ricordi di quegli anni e per l'ennesimo grandioso articolo come ci hai abituato!!!! |
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Rainbow in the dark@ beato te cazzo,io ad inzuppare.....Magari!Ahahahahahaha!Chi ce la dava?Cappelloni,puzzoni e beoni eheheh|Quante cose però abbiamo fatto....Concordo in pieno,siamo di un altra generazione.....Gran bella generazione,aggiungo!Vecchio paccatore@grandi dischi,Samba@che te lo dico a fare....io però,grazie alla passione di mio padre per la musica ed i vinili,ho iniziato nel 1981,Killers,e poi mai più nulla fù come |
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Rainbow in the dark@ beato te cazzo,io ad inzuppare.....Magari!Ahahahahahaha!Chi ce la dava?Cappelloni,puzzoni e beoni eheheh|Quante cose però abbiamo fatto....Concordo in pieno,siamo di un altra generazione.....Gran bella generazione,aggiungo!Vecchio paccatore@grandi dischi,Samba@che te lo dico a fare....io però,grazie alla passione di mio padre per la musica ed i vinili,ho iniziato nel 1981,Killers,e poi mai più nulla fù come |
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Bella annata, anche se preferisco la precedente e la successiva... C'è comunque il mio disco preferito dei Death, gli ultimi belli degli Iron Maiden e dei Manowar (anche se a mio modo di vedere non sono capolavori), c'è il capolavoro dei Queensryche... Ricordo con piacere anche "Thundersteel", tra i primi dischi Heavy che abbia mai ascoltato. Comunque a mio parere nell'88 il meglio è venuto dall'ambito extra-Metal, col più bel disco dei Sonic Youth ("Daydream nation") e il terzo dei Dinosaur Jr ("Bug") ad arricchire la scena Noise, senza dimenticarsi dell'inizio d'affermazione da parte del Grunge con gli esordi dei Mudhoney (mamma mia che canzone "Touch me I'm sick"!) e dei Soundgarden. Ma su tutti per me spicca l'eccezionale, inarrivabile "Nothing's shocking" dei grandissimi Jane's Addiction. |
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siete vecchi  |
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Ops twisted into form credo sia del 90! |
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Ricordo (con nostalgia) The new order, Survive e Twisted into form.....Era un' epoca di scorribande quella..... |
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Massimo rispetto per i Pantera, una delle mie band preferite di sempre, ma le foto dell'epoca non si possono guardare...stavano messi peggio di Bon Jovi. L'alcol e la droga spesso aiutano in ambito musicale, loro ne sono la prova. |
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è troppo è troppo...è troppo! |
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Non voglio fare l ' arrogante ma manca il debutto dei Sadus il fantastico illusions |
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io avevo iniziato a comprare dischi da uno soprannominato VINILE IL SELVAGGIO e soprattutto avevo iniziato a inzuppare qua e là...bei tempi! tempi d'oro..25 anni fa, siamo di un'altra generazione ;( |
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Ahahahahahahah mea culpa! avevo già cominciato a comprare qua e la dischi da almeno tre anni ma ancora non era diventata una mania come poi divenne qui! effettivamente da li a 4 anni le cose sarebbero peggiorate a livello esponenziale! Come dissero i Gamma Ray su una canzone "ive seen empires rise and blown away" I Maiden furono uno di quelli che capitolarono in maniera orrenda! |
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Praticamente il più "brutto" là in mezzo è Port Royal, uno dei miei preferiti dei RW; non c'è un genere che non sia espresso ai massimi livelli. Grande Rino come sempre, la prima parte sembra scritta da DeMaio (è un complimento per me ) mi immagino il piacere nell'andar a rispulciare vecchi album... Sambalzalzal hai scelto un anno di magra per cominciare, e pensa è pure l'ultimo anno in cui gli Iron Maiden hanno fatto un album decente  |
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Vabè, annata magnifica, poche storie! I semi gettati negli anni precedenti dalla bands germogliano e danno frutti gustosissimi ed irripetibili!!! Anno inoltre in cui ho iniziato ad ascoltare l'hard n heavy "seriamente"! L'anno sarebbe potuto entrare nelle cronache del millennio solamente per un disco come And Justice For All ma invece la sorte ha voluto che uscissero anche capolavori immensi come Kings Of Metal, Operation Mindcrime, Age Of Consent, South Of Heaven, Seventh Son Of A Seventh Son... insomma: APOTEOSI! Sorte o congiunzioni astrali favorevoli, mai come in quell'anno, penso, il mondo fu scosso da vibrazioni simili!!! Aggiungo al bellissimo articolo (come sempre) di Rino che i Maiden nella stesura dell'album furono solo parzialmente ispirati dal romanzo di Card. Infatti per stessa ammissione di Dickinson a quanto pare dal periodo immediatamente precedente a Somewhere In Time, iniziò a ricevere delle lettere da parte di una paziente di una clinica psichiatrica che lo aveva visto in TV in un'intervista e che lo aveva reputato acculturato e sopra la media. In queste lettere lo metteva al corrente di questa faida tra le forze del bene e le forze del male che aspettavano la venuta del Settimo Figlio del Settimo Figlio per prendere il controllo sul pianeta. Insomma, da persona sopra la media Dickinson non si lasciò scappare una cosa simile e ne venne fuori un capolavoro  |
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Con quest'anno causa frantumazione della compagnia e motivi personali come si dice abbandono la retta via verso un lungo letargo musicale. Con questo stupendo articolo Rino mi fai rammaricare di tutto cio. Da adesso in poi vedrò cosa mi sono perso, tranne le uscite dei "mostri sacri". Ad esempio quest'anno segnalo come mio avvenimento la resurrezione dei Judas dopo la vergognosa parentesi di turbo , e gli Slayer con un disco capolavoro. |
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Grandissimo Rino un altro articolo stupendo,da lacrime!Che dire......Un altro strepitoso anno,e come l'anno prima oltre ad aver preso i vinili di tutti questi dischi meravigliosi,la maggior parte li ho visti live supportanto gli stessi,ricordi indelebili del secondo live degli Slayer,il secondo dei Maiden,la priva volta a vedere I Judas Priest,la seconda per i grandissimi Testament,la seconda dei Metallica,la prima volta dei Queensryche,e ancora la seconda per gli Helloween,i Manowar,Voivod per la prima volta,Overkill,Anthrax per la seconda volta,King Diamond,Megadeth ecc.....E ci aggiungo un bel Ted Nugent più Krokus da paura!Quanti concerti meravigliosiFortunatamente quasi tutti aggratis,che tempi cazzo che tempi! |
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Un'altra annata fenomenale, senza contare i dischi non citati come il grande Imaginos. Bravissimo! |
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Rada: è quanto so anche io, Hansen non gradiva affatto l'idea di abbandonare la noise per una Major. Ma torniamo a parlade dell'articolo.....perchè tra pochi giorni uscirà la nuova edizione di Maiden England!!! Che anno fantasticoooooooo!!! |
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Mhmm, lasciando perdere ciò che disse Grosskopf poichè potrebbe essere una dichiarazione di facciata per alleviare un pò il fatto che fosse Weki a discutere un pò con tutti a me risulta che fossero più che altro questioni legate alla casa discografica e problemi con l'avvento all'Emi mentre prorpio non mi risulta di Kiske, anzi...però magari mi sfugge sto passaggio anche se avendo avuto modo di approfondire in diversi modi l'argomento Helloween non mi risulta. Comuque rinnovo i complimenti per l'articolo! |
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Bien, buono a sapersi, d'altra parte ero conscio di sapere "quasi tutto" su di loro. So tutto solo dei Priest  |
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ho letto delle liti tra kiske e hansen in una vecchia intervista al bassista degli helloween, come riportato nell'articolo; in passato avevo anche letto qualche dichiarazione di hansen in cui il cantante dei gamma ray diceva di aver risolto tutte le questioni con kiske e di essere ora in ottimi rapporti con lui. |
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@Rino: effettivamente Rada ha sollevato una questione non da poco...ho sempre letto, da più parti, di screzi tra Michi e Weiki, tra Kai e Weiki, tra Weiki e Uli, tra Weiki e Roland. Insomma Weikath ha litigato un po' con tutti ma di screzi tra Kiske e Hansen non ne ho mai sentito parlare... |
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Bravo Rino, da vero King of Metal visto il tuo trasporto nel commentarlo. Concordo con Painkiller sul fatto che sia stato un anno sensazionale. Vado a memoria su altri dischi per me molto significativi: sul versante degli storici da ricordare, sempre che non mi sia sfuggito dallo scritto di Rino, Ozzy con 'No Rest...' e i Blue Oyster Cult con 'Imagines'. Per il Metal classico sorto in quel periodo: assolutamente i Crimson Glory di 'Trascendence' primi, poi i sempre ottimi Candlemass di 'Ancient dreams'; letteralmente impossibile ricordare tutti gli albums da culto ( mi vengono in mente gli Artch 'Another return'). Poi come dice Roberto ci sono tutti i dischi class/glam/aor e in quest'epoca siamo davvero ai massimi splendori: i miei due preferiti tra quelli non ancora segnalati, gli omonimi di House Of Lords e Only Child. Non sono mai stato un grande estimatore di Bon Jovi, al quale nel solo '88 rispondono i Prophet di 'cycle of the moon' e Jimmy Barnes di 'Freight train heart'. Menzione particolare anche per i King's X con 'out of the silent planet'' tra le nuove tendenze. Saluti a tutti |
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Una sola cosa Rino: ma da dove ti risulerebbe delle furenti liti tra Kiske e Hansen? No perchè proprio non ci siamo...(non per polemicizzare, sai che adoro i tuoi articoli, questo stupendo "correva l'anno", il tuo modo di scrivere ecc., ma qui proprio non ci siamo...) |
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Stavolta non commento neanche...basta ascoltare i capolavori di questo glorioso anno. Il resto è superfluo! |
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And Justice For All rappresenta per me il più grande album metal di tutti i tempi, un disco immenso che non mi stancherò mai di ascoltare, un vero tesoro della musica rock. Ascoltare To live is To Die mi mette i brividi, un brano colossale veramente. Volevo solo ricordare al bravissimo Rino Gissi, che la poesia recitata nel suddetto brano, è attribuibile a Burton solo per metà, in quanto i versi "when a man lies, he murders some part of the world. These are the pale deaths which men miscall their lives" sono in realtà del poeta tedesco Paul Gerhardt, resi in seguito popolari dal film Excalibur del 1981 (e probabilmente fu proprio dal film che Burton li prese in prestito), mentre la parte ""All this I cannot bear to witness any longer. Cannot the kingdom of salvation take me home?" fu scritta da Burton, così come il titolo della canzone. |
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vedendo l'accenno ai Cinderella e a New Jersey di Bon Jovi (a mio parere suo album migliore insieme a Slippery e al primo omonimo) volevo citare ancora un paio di album targati 88..dopotutto la fine degli 80s fu anche l'apice per il movimento hard rock/glam. Il debutto omonimo degli L.A.Guns, album street davvero notevole, il buon OU812 dei Van Halen, Il glammoso Open up and say ahhh dei Poison, Skyscraper di David Lee Roth con Steve Vai e i fratelli Bissonette, buon proseguimento di Eat 'em ASnd Smile anche se non allo stesso livello,l'omonimo Winger, l'omonimo Warrant, l'omonimo Vixen. Come dischi shred/strumentali, indimenticabili Odissey di Malmsteen, capitolo più Aor-eggiante della produzione dello svedese, con un ottimo J.L. Turner e il grandissimon Flying in a blue dream del maestro Joe Satriani |
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Probabilmente il miglior articolo di Rino, tra i "correva l'anno", per quello che credo di poter definire il miglior anno per l'hard & heavy. Bravo Rino!! E' stato un anno molto "thrash" ma anche l'anno del mio album preferito dei Maiden, Seventh Son. Hai citato New Jersey...per me resta un capolavoro, molto duro e tirato per essere rock/metal patinato, una vetta compositiva che i Bon Jovi non hanno più raggiunto. Nel genere ricordo anche open up and say...aaah! dei Poison. Ma il resto non lo commento...sono tutti album che si commentano da soli...Kings of metal il mio preferito dei Manowar...justice...che anno...solo il 1990 per me riuscirà a pareggiare tanta magnificenza!!! |
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mi vengono le lacrime agli occhi.. ho cominciato ad ascoltare metal l'anno dopo e mi ricordo che volevo comprarmi praticamente tutti gli album qui citati... |
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uuhhhh oh yeah, non ricordavo che l' 88 fosse un anno cosi pieno di grandi uscite, bene !! |
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Stessa cosa di Cobray!  |
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Ma quant'è lungo?! Non vedo l'ora di leggerlo stasera! Faccio già i complimenti in anticipo a Rino  |
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ARTICOLI |
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