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Marillion - Brave
( 12359 letture )
PUNTI DI SVOLTA
Ci sono dei momenti, dei precisi momenti, nei quali la nostra vita prende una strada diversa da quella che ha seguito fino a quel punto. Una strada nuova e di cui non possiamo conoscere il percorso né l’arrivo. Momenti a volte cercati, anticipati e preparati addirittura, momenti che invece a volte ci travolgono e ci costringono a rincorrere la vita, per cercare di reggere il passo. Il 1992 per i Marillion è un anno difficile. L’abbandono del carismatico singer Fish nel 1988 e l’arrivo di Steve Hogarth, rappresentò uno di quei momenti di svolta inaspettati, che costrinsero la band a ragionare profondamente su se stessa, per trovare una nuova strada. Il percorso musicale seguito fino a quel punto, che l’aveva resa la band di maggior successo del movimento neo-prog e ne aveva fatto la più credibile erede dei Genesis, era arrivato alla fine con l’abbandono del cantato di Fish, così istrionico e particolare, tipicamente ispirato al Peter Gabriel degli anni 70. Cercare di riproporlo con un nuovo cantante sarebbe risultato assolutamente patetico e inadeguato. La scelta di Hogarth, quindi, nasceva consapevolmente con l’intento di superare l’esperienza passata e guardare avanti, alla nuova decade. Il tono baritonale e caldo del nuovo arrivato, capace comunque di una tecnica e di una estensione assolutamente rimarchevoli e la sua esperienza underground in band di orientamento pop elettronico e new wave, spinsero la musica del gruppo verso una nuova dimensione. Curiosamente, si potrebbe comunque dire che la band proseguì la propria evoluzione sempre seguendo le orme dei Genesis, approdando verso un pop raffinato proprio come fatto dai Maestri dell’era Collins. L’unica e non lieve differenza, fu che per i Genesis questo comportò all’interno della band un progressivo sfaldamento e all’esterno un sempre maggiore successo commerciale, per i Marillion invece accadde l’esatto opposto: la band ritrovò forza, stabilità e convinzione, che però non si tradussero in un ritrovato feeling con il mercato e con i fan, i quali abbandonarono progressivamente al suo destino il gruppo, accusandolo di tradimento, senza che questo comportasse la conquista di un pubblico più generalista e meno interessato al passato. Eccoci quindi al nuovo punto di svolta e al 1992. La EMI comincia a premere duramente sulla band perché il nuovo disco sia un successo commerciale, pena la rescissione del contratto e, probabilmente, la fine del gruppo. Dall’altro lato, i fan e la critica li hanno già dato per morti, non accettano il cambiamento in corso e, artisticamente, lo fanno a pezzi. Ce ne sarebbe abbastanza per mollare tutto e trovarsi un nuovo lavoro. Invece, arriva lo scatto in avanti di cui solo i campioni sono capaci, quell’insieme di orgoglio, pazzia, fiducia in se stessi, rabbia e voglia di imporsi su tutto e tutti facendo quello che più ami e che è la tua stessa vita, che sarà racchiuso nel disco che, alla fine, sarà intitolato non a caso Brave.

IL CONCEPT

Staring out over the bridge
A million photo flashes from the water down below
Dawn light bouncing through the mist
Roar of traffic and the crack of police radios

When they ask her name
Would she please explain
She simply chooses to say
Nothing


Tutto parte dall’ispirazione, quell’inafferrabile alito di infinito che si manifesta improvvisamente, nei momenti più inaspettati e perfino improbabili. Magari mentre stai pensando a tutt’altro e all’improvviso ti ricordi di quando un giorno alla guida hai sentito il giornale radio che annunciava che quella mattina la polizia stradale aveva trovato una ragazza che camminava sul Severn Bridge (il ponte che unisce l’Inghilterra al Galles) in evidente stato di confusione, tanto da non ricordare il proprio nome e il perché si trovasse lì in quelle condizioni, incapace in realtà di dire anche una sola parola. Basta questo e l’immaginazione scatta in avanti e Steve Hogarth ha la base per un concept splendido e indimenticabile: cosa ha portato quella ragazza lì? Quale è la sua storia? Da dove viene e cosa le è successo? Domande che danno vita ad un canovaccio al quale non resta che dare una forma. Hogarth si mette all’opera con il paroliere John Helmer: il plot prende corpo attorno ai testi che quest’ultimo aveva già composto per Runaway e The Great Escape e che Hogarth stava rielaborando quando l’ispirazione lo aveva raggiunto. In realtà, il testo offre anche una seconda chiave di lettura, legata a tematiche politico sociali alle quali Hogarth tiene molto e che rappresentano in maniera chiara una critica fortissima alla odierna società dei consumi e alla sua presunta democrazia. La ragazza protagonista della storia è infatti in fuga dagli eventi drammatici che si consumano all’interno della famiglia, quanto da una società e dai suoi rituali, nei quali non si riconosce più.

L’ALBUM
La band ha già iniziato a lavorare sui brani e le idee sono tante, ma la forma definitiva dell’album è lontanissima ed è a questo punto che Miles Copeland consiglia ai Marillion di trasferirsi nel suo castello di Marouatte in Francia, con il produttore Dave Meegan: l’asso in più dell’album. L’idea di partenza è infatti di registrare velocemente il disco, visto il fiume di ispirazione che il concept elaborato da Hogarth sta smuovendo, ma Meegan che aveva lavorato con la band ai tempi di Fugazi la pensa diversamente. La strumentazione viene montata nel salone principale del castello, in modo da sfruttarne al massimo i riverberi e lo spazio; Meegan mette microfoni ovunque nella sala, perfino nel camino, con la precisa intenzione di catturare ciascuna onda sonora, ciascun alito e vibrazione prodotta dalla strumentazione e costringe la band ad una vera e propria maratona continua. I brani vengono provati e riprovati, suonati e registrati mille e mille volte, per nove lunghi mesi. La band capisce che il disco non sarà solo il “nuovo album” dei Marillion e accetta di buon grado il tour de force a cui viene costretta dal produttore. Le canzoni si trasformano, cambiano, nuovi spezzoni vengono aggiunti e nuovi brani nascono lì per lì, come la stessa titletrack, scritta da Hogarth in giorni e giorni di continuo lavoro, dopo che una sera dall’alto della torre dove ha la sua camera, vede la nebbia sottostante ricoprire la foresta attorno al castello e presa la tastiera ricrea via via un’atmosfera folk ed eroica nella quale risuonano cornamuse (Uilleann pipes, per la precisione) ed echi di battaglia, attorno alla storia moderna di questa ragazza che sfugge ad un triste destino ed a una società che detesta. Perfino gli echi dell’acqua sono stati registrati da Meegan e Kelly presso la cascata che si trova nelle vicinanze del castello e lungo il fiume Mersey, mentre la band ha registrato i rumori della stazione di Lambeth North e perfino il silenzio della notte attorno al castello, che apre il disco, piuttosto che un coro di monaci buddisti che si può sentire in sottofondo sotto The Opium Den o i ripetuti arrangiamenti orchestrali. Ennesime pennellate d’autore in quella che è stata una vera e propria opera di creazione di un sound stratificato e complesso, nel quale la musica galleggia e trova una sua ariosità e una dimensione unica, che si respira benissimo ascoltando l’album, il quale offre perfino nel formato CD una quantità di suoni, echi e reverberi immensa e ammaliante, che esalta splendidamente il concept e la musica del quintetto.

LA MUSICA
L’album che esce da queste premesse è, diciamolo subito a scanso di equivoci, un capolavoro assoluto. Una lunga ed intensa suite divisa in atti che si fondono tra loro quasi senza che esista un vero e proprio stacco tra una canzone e l’altra, proprio come in una cronistoria degli eventi che porteranno la protagonista dalla fuga da casa e dalla “grande bugia” della propria apparente felicità familiare al ritrovamento della polizia che apre il disco e lo conclude al tempo stesso. La band riprende in mano la propria essenza prog ma la eleva a un livello completamente nuovo e moderno, abbandonando quasi in toto l’esperienza neoprog barocca di stampo Genesis, che affiora qua e là nei soli di Rothery o nelle partiture ritmiche di Trewavas e Mosley, piuttosto che in alcuni suoni di tastiera, ma si ritrova in una dimensione assolutamente inedita, nella quale viene veicolata l’esperienza maturata con i due dischi precedenti. La volontà di andare comunque avanti e stravolgere ciò che fu resta fortissima nel gruppo, così come l’ambizione di dimostrare fino in fondo il proprio valore e la propria capacità di superare se stessi e la propria storia passata. Le undici canzoni che costituiscono la scaletta del disco offrono quindi un percorso che va concepito e ascoltato come opera unica, nel quale gli episodi godono di una propria luce e di una propria caratterizzazione, ma assumono un valore assoluto solo se messi in relazione con gli altri. In questo senso, i brani che più possono risultare estrapolabili dal contesto, sono quelli maggiormente orientati verso il rock o perfino verso l’hard rock, come le robuste Hard As Love e Paper Lies, che potrebbero quasi sembrare brani dei Deep Purple o ancora Alone Again in the Lap of Luxury: brani potenti e fortemente centrati su riff e sulla vigorosa interpretazione di Hogarth e che dimostrano, nel caso servisse, che i Marillion sanno anche graffiare e sanno comporre canzoni con la C maiuscola, all’interno di un’opera complessa e ambiziosa. Le sezioni dove invece è la matrice prog a dominare sono evidenti anche scorrendo la tracklist, con Goodbye to All That e The Great Escape (non a caso entrambe dedicate alla fase di “fuga” della protagonista), divise in più sezioni legate tra loro e travolgenti nella loro natura di “racconti in musica”, dal devastante impatto emotivo. Brave è infatti un disco crepuscolare ed intimista, fortemente malinconico ed enfatico, ricchissimo di atmosfere sospese, di vuoti e di pieni dalla potentissima carica empatica. Si potrebbe definire un album “romantico” in senso ottocentesco, nel quale i contrasti emotivi creati dalla musica e la strepitosa prova vocale ed interpretativa di Steve Hogarth creano continui cambi di atmosfera e l’ascoltatore “vive” letteralmente l’esperienza narrata nella storia. Non a caso, dal disco finito la band volle ricavare un cortometraggio della durata di 50 minuti curato dal regista Richard Stanley, che propone un finale diverso da quello dell’album, nel quale Made Again offre una chiusura felice e di rinascita che si distacca anche a livello di atmosfera in maniera netta dal resto dei brani (non a caso è l’unico brano non registrato in Francia, ma negli studi della band). Protagoniste assolute del disco, oltre alla meravigliosa voce di Hogarth, sono senza dubbio le tastiere di Mark Kelly, il quale qui riesce veramente in una opera titanica, con una ricerca di suoni incredibile e dall’elevatissima sensibilità musicale: Kelly non sarà mai ricordato ai posteri probabilmente come un virtuoso dello strumento e d’altra parte questo vale in generale per i membri dei Marillion, nonostante l’elevatissima qualità tecnica, ma quello che il tastierista compie in Brave è un lavoro immenso e di una raffinatezza rara. Ciascun brano viene infatti caratterizzato da numerosi cambi di suono e timbrica con organi, piano, synth che si fondono tra loro e danno colore e forma a tutto il costrutto sonoro. Non tributare la grandezza dell’opera compiuta dal musicista, a dire il vero sempre in ombra nei riconoscimenti, sarebbe non riconoscere il corpo e l’architettura di questo capolavoro. Al di sotto, nelle fondamenta e nelle architravi dell’intera costruzione, il lavoro di Trewavas e Mosley è tanto solido e prezioso quanto discreto e lontano dai riflettori. I due sono il motore nascosto dell’opera e offrono meravigliosamente il loro apporto, con una capacità dinamica nei molteplici diminuendo e crescendo di cui si nutre l’album che si può definire quasi perfetta. Per molti Mosley è in realtà un batterista limitato e ripetitivo, ordinato e niente più. Ebbene, questo è vero solo se si concepisce la musica unicamente come sfoggio di virtuosismi, perché se si presta ascolto a quanto fatto in questo album, è difficile negare la bravura dinamica, l’eleganza, la capacità di calarsi nei brani e l’essenzialità della sua prestazione al servizio delle composizioni. D’altra parte, il suo ruolo non vuole essere quello della prima donna, quanto quello della funzionalità ai brani, lasciando il proscenio al trio davanti, del quale l’eccellenza solistica non può che essere Steve Rothery. Imperioso e travolgente come suo consueto, il chitarrista conferma per l’ennesima volta la propria costante pretesa di ascendere al trono di David Gilmour. Il tocco splendido, la scelta dei suoni, il tempismo perfetto, la straordinaria emotività dei suoi assoli, la capacità di elevare l’intera dinamica dei brani e colorarne l’essenza in maniera netta e indimenticabile, fanno del chitarrista inglese uno dei massimi interpreti dello strumento in area prog. Riconoscibile tra mille, dotato di uno stile consolidato che ritroviamo in tutti i dischi dei Marillion, eppure ancora così capace di travolgere e colpire a fondo, dove solo i grandi arrivano, Steve Rothery non è un virtuoso, ma semplicemente uno splendido poeta della chitarra, uno di quelli che dallo strumento sanno trarre uno stato emotivo e sanno quando e come inserirsi per rendere unico un brano.

BRAVE
L’album si apre con il rumore delle navi e i suoni del Severn Bridge, ricreati da Mark Kelly e col ritrovamento della ragazza da parte della polizia. Forse solo un gruppo inglese sarebbe capace di rendere così bene l’atmosfera di un’alba nebbiosa e carica di pioggia su un pontile d’autostrada che passa al di sopra di un fiume solcato dalle imbarcazioni. Basterebbero questi pochi secondi per rendersi conto che questo album è un capolavoro. Ma come si suol dire, siamo solo all’inizio. Con dolcezza, il gruppo ci introduce all’antefatto, alla vita della protagonista “prima” della fuga da casa, finché la consapevolezza dell’impossibilità di continuare ad accettare le cose e il finto tepore familiare, non risveglia la ribellione, per poi trovare uno sbocco: continuare a vivere la grande bugia è impossibile e scappare diventa l’unica soluzione. Il brano inizia dolcemente e diventa via via veemente e cadenzato, con echi dei Marillion che furono nel lavoro di Rothery, ma la consapevolezza del presente nelle liriche di Hogarth dal profondo e continuo rimando agli eventi internazionali e alla cronaca dell’epoca, segnata dalla fine della Guerra Fredda e dall’inizio di quella che diventerà lo ”scontro di civiltà”, che ancora oggi viviamo. Runaway ci parla invece del ritorno a casa della ragazza dopo il ritrovamento e del muro di silenzio e incomprensione che si trova davanti da parte della famiglia, che continua a fingere di non conoscere i motivi per i quali la ragazza è scappata, rifugiandosi nel quieto vivere borghese e chiudendola di nuovo tra quattro mura. E’ qui che inizia il racconto della fuga vera e propria e Hogarth introduce un nuovo spaccato della vita della ragazza: la verità è che dietro quelle mura qualcosa stava accadendo e piuttosto che tornarci, la ragazza sarebbe stata disposta a tutto, anche a dormire per strada con i senzatetto, senz’altro che la fame e la libertà a farle da compagna; finché di quella ragazza non resta che un lontano ricordo e anche l’aiuto di una nuova figura maschile appare come un tardivo e inutile tentativo di intromissione in una tragedia annunciata. Goodbye to all That è un pezzo straordinario, nervoso e carico di rabbia e deprivazione, nel quale lo stordimento della ragazza si combina con il delirio della sua nuova esistenza di randagia in cerca di un nascondiglio. Semplicemente splendidi gli assoli di Rothery, così come la ritmica di Mad, che poi si fonde nella pace e nella deprivazione sensoriale, come un abbandono, un fluviale trasporto nelle acque fino allo stordimento totale (The Opium Den), reso in maniera superba dalla band. Ecco poi la risalita dall’abisso (The Slide) che si chiude con un lunghissimo crescendo, mentre la ragazza incontra una persona che sembra finalmente porgerle il proprio aiuto, ricevendo però un rifiuto, l’ennesimo, con l’abbandono e la sensazione che niente ormai potrà cambiare un destino che sembra spezzato e rotto per sempre. Standing in the Swing è straziante e ancora splendida, voce e piano, con le parole di Hogarth che colpiscono come magli nel loro cinismo spietato e disperato allo stesso tempo. A questo punto apprendiamo che sono passati tre anni dalla fuga della ragazza che ha ora venti anni. La narrazione torna indietro e ci illustra il passato della protagonista, le violenze sessuali del padre e il silenzio della madre, che cercava disperatamente di far splendere esteriormente la casa, la prigione della ragazza, mentre il marcio dilagava dentro di loro. La sequenza dei brani alterna i momenti hard rock di Hard as Love (che presenta comunque una sezione centrale più pacata e semplicemente stupenda), alla incredibile ballata pianistica Hollow Man, una delle composizioni più emotivamente toccanti di tutto il decennio e oltre, fino Alone Again in the Lap of Luxury, ancora graziata da un approccio splendidamente a metà tra prog e hard rock, con un ritornello da presa immediata e la coda di Now Wash Your Hands a ricomporre l’atmosfera tragica del disco. Anche in questo brano si percepiscono distintamente le atmosfere dei primi Marillion, per via dell’accompagnamento della chitarra di Rothery, che rimanda a quello usato ad esempio in Kayleigh. Il flashback finisce con Paper Lies, nuovo brano di veemente hard rock, nel quale mal si percepisce il collegamento con il concept, dato che il testo si può interpretare come una dura invettiva contro la carta stampata, intesa ad occupare la mente dei lettori con un sacco di sciocchezze utili unicamente a distogliere l’attenzione dalla realtà. Arriviamo così alla chiave di volta conclusiva del racconto e del disco: la nostra protagonista è ormai spersa e lontana da casa, incapace di arrendersi all’orrore della sua vita precedente, ma del tutto impreparata ad affrontare i propri fantasmi interiori e la situazione attuale e senza nessuno a cui far riferimento, se non l’odio per chi avrebbe dovuto amarla e l’ha invece tradita e ferita a morte. Ecco quindi la decisione di farla finita e buttarsi dal ponte su cui invece la ritroverà la polizia. La sequenza parte con Brave, di cui abbiamo già parlato e che si configura come uno splendido affresco musicale e si conclude con la straordinaria suite The Great Escape, che riparte dalle battute iniziali di Goodbye to All That e narra ancora una volta la storia della ragazza, del suo senso di abbandono e tradimento da parte del padre, la cui immagine continua a tormentare la protagonista, incapace di accettare questa figura ambivalente, nei confronti della quale l’odio e l’amore sono fortissimi e strazianti. A questo punto, quando la fiducia è tradita e, metaforicamente, si è caduti dalla luna, cioè dal mondo delle fiabe e delle illusioni, non c’è caduta tanto alta e spaventosa. Sicuramente, non quella da un ponte.
La storia in realtà finisce qui, tanto che la band ha poi previsto due finali: uno felice, narrato in Made Again, nel quale la protagonista si apre ad una nuova vita e ritrova la propria felicità superando i fantasmi del passato e uno invece molto meno roseo e sereno, narrato nel cortometraggio di Stanley, che si conclude allusivamente con il solo rumore dell’acqua. In ogni caso, che si preferisca una versione tutto sommato più luminosa o una forse più coerente con quello che è stato lo sviluppo del racconto fino a quel punto, poco cambia. Il viaggio intrapreso si conferma splendido e grandioso, denso di atmosfere e momenti di pathos indescrivibili, che fanno letteralmente venire i brividi o le lacrime agli occhi, come solo i capolavori sanno creare.

CONCLUSIONI
La svolta nata dall’abbandono di Fish poteva rappresentare la fine per i Marillion. Seasons End, in realtà composto già in parte con il cantante scozzese, rappresentò comunque un distacco rispetto al passato che diventò ancora più forte e netto con Holidays in Eden, il quale finì per essere pietra dello scandalo e sembrò determinare un passo in avanti troppo forte, facendo perdere al gruppo numerosi fan, senza che questo significasse l’approdo ad un pubblico mainstream. Brave fu l’urlo di orgoglio dei Marillion, il disco nel quale la band mise tutta se stessa, per dimostrare a chiunque che questa line up aveva ancora molto da dare, che sapeva da dove proveniva ma non aveva paura di guardare oltre, mutando forma e riappropriandosi del proprio destino. Sarà l’ultimo disco della band a raggiungere la Top Ten inglese, ma da allora e grazie a Brave e al successivo e altrettanto splendido Afraid of Sunlight, il gruppo inglese cementò la propria base di irriducibili aficionados, trasformandosi in un cult, lontano dalle prime pagine, ma al contempo amato e venerato come mai prima. Per Hogarth il continuo confronto col passato e la consapevolezza di non poter riportare la band al grande successo sarà motivo di frustrazione e rabbia, eppure, la testardaggine e la consapevolezza del valore assoluto del proprio lavoro e del proprio talento restano cifra stilistica e misura della grandezza di uomo e artista. Brave è il disco della rinascita, uno dei concept più belli di tutti i tempi, degno di stare al fianco di colossi mondiali come Tommy e The Wall e, all’interno della discografia del gruppo, non ha niente da invidiare al ben più famoso Misplaced Childhood, affrancandosi in realtà in maniera definitiva dal fantasma dei Genesis. Non è da tutti vivere una seconda vita artistica, rimettendo in discussione tutti i cardini che hanno costruito il successo della prima: è un’operazione riuscita solo a pochi e i Marillion sono tra questi, con orgoglio e a prezzo del riconoscimento dei più.

NOTA DELL’AUTORE
Scusandomi per l’inusuale lunghezza di questa recensione e per l’uso di una forma diretta, approfitto infine della pazienza del lettore, per raccontare un fatto personale. Conoscevo già i Marillion nel 1994 e possedevo come da ordinanza una orgogliosa copia in vinile di Misplaced Childhood. Apprezzai moltissimo la voce di Hogarth la prima volta che la sentii e da cantante in erba quale ero assordai più volte i miei vicini con i vocalizzi di Cover My Eyes (Pain & Heaven), al pari di quelli sprecati per Iron Maiden, Black Sabbath, Deep Purple, Pearl Jam, Alice in Chains, The Doors, Whitesnake e infiniti altri. Comprai la musicassetta di Brave proprio in seguito alla breccia che i singoli di Seasons End e Holidays in Eden e l’acquisto della raccolta A Singles Collection avevano lentamente scavato nel mio muro di diffidenza e ne restai rapito totalmente. Ho ascoltato quella musicassetta migliaia di volte, fino ad assorbirne ogni istante, ogni sfumatura, ogni secondo e finché la sua musica è divenuta parte di me, assieme all’altro disco simbolo del mio 1994, Grace di Jeff Buckley. L’ascolto è proseguito per anni, instancabile, finché un maledetto giorno uno stereo portatile si è mangiato il nastro ormai consumato. Con pazienza certosina ho staccato la preziosa pellicola dal mostro di plastica che l’aveva inghiottita e l’ho recuperata, facendo andare avanti e indietro decine di volte le testine a velocità per distenderlo di nuovo e togliere il più possibile le ormai eterne piegature del nastro. Ma da allora, il sacro terrore che quella pellicola usurata si rompesse del tutto o che l’incidente orrendo accadesse di nuovo, mi aveva progressivamente distolto dall’ascolto dell’album. Brave è comunque rimasto con me, tutti questi anni, accompagnandomi fedelmente e divenendo parte inscindibile della mia identità, tanto che spezzoni dei brani e le parole dei testi continuano ad apparire alla mia memoria di continuo, giorno dopo giorno e tanto che Made Again è diventata una delle canzoni che da nove anni ormai mi legano alla mia compagna. Ebbene, preparandomi a questa recensione, che continuo a rileggere trovandola sempre più brutta, povera e inadeguata a raccontare questo disco e la sua immensa statura poetica e artistica, non ho potuto fare a meno di riprendere quella cassetta e riascoltarla, finché il suono deturpato e scricchiolante della musica nel punto in cui la pellicola si è irrimediabilmente danneggiata non ha fatto tornare tutti i ricordi di un tempo, ancora vivi e fortissimi, assolutamente incuranti dei venti anni esatti trascorsi da allora. Questa è la forza di Brave, il suo essere senza tempo, perfetto allora come adesso, definitivo. Così la storia non poteva che concludersi nel migliore dei modi: un giro sul sito della band e l’acquisto della versione rimasterizzata in doppio CD con le registrazioni delle versioni alternative dei brani, che mentre chiudo questo interminabile scritto, sto aspettando con la stessa impazienza e la stessa emozione di quando ero ragazzo e correvo a casa scartando le cassette appena comprate per scoprire la meraviglia che si celava al loro interno.



VOTO RECENSORE
94
VOTO LETTORI
90.87 su 65 voti [ VOTA]
Stagger Lee
Domenica 14 Marzo 2021, 17.59.13
30
Un gran bel disco, ma Misplaced Childhood gli mangia in testa.
Frank Frank
Giovedì 7 Novembre 2019, 23.28.43
29
Brave non è mai stato nelle mie corde, uno dei pochi cd che ho venduto, anche se ora ne sono pentito. Seasond end e Marbles sono i miei riferimenti da brivido del periodo Hogart. Ma ora immerso nel difficile e ammaliante FEAR tenterò di riascoltarlo a distanza di parecchi anni. Del periodo Fish amo alla follia i primi due album ma ritengo Hogart il giusto sostituto al predecessore Fish.
verginella superporcella
Domenica 27 Gennaio 2019, 9.39.16
28
Complimenti per la straordinaria recensione. classico disco da 100, clamoroso, stratificato, matura cresce e si attualizza con gli anni, ed anziche' perdere oncie di freschezza rimane affrancato ai classici imprescindibili del rock. Consiglio anzi straconsiglio la nuova limited edition 4cd + blue ray, nel primo cd c'e' l'opera rimasterizzata da wilson (che rende brave ancora piu' ricco, sfumato, sopraffino e vivo), nel secondo cd il master originale, terzo e quarto cd dovrebbero essere una versione ampliata e ripulita del meraviglioso live made again (suona eccezionalmente), il blue ray avra' i soliti 5.1 e cagatine varie, non l' ho ancora messo su.
Steelminded
Sabato 26 Gennaio 2019, 17.05.05
27
@nonchalance sì, ho ascoltato Seasons End - non mi piace moltissimo, ma qualcosa sì dai... A te immagino piacciano anche ne loro corso post Fish... io li trovo abbastanza noiosi, mentre sono semplicemente in adorazione dei primi 4 capolavori... Evviva!
nonchalance
Sabato 26 Gennaio 2019, 11.55.29
26
E chi si "offende"..?! Hai mai provato a sentire - senza fare paragoni - "Seasons End"? Lì ce li senti ancora i "vecchi" Marillion..non a caso, musicalmente era già quasi pronto! Steve aggiunse le sue liriche ed apportò "solo" delle modifiche alle linee vocali sulle idee che già aveva.
Steelminded
Sabato 26 Gennaio 2019, 11.31.18
25
Beh come posso dire senza offendere nessuno... a me i Marillion dopo Fish mi piacciono per nulla.
Saretta
Venerdì 17 Agosto 2018, 14.30.40
24
Ho avuto l'onore di leggere solo ieri questa recensione su "Brave" e in generale sui Marillion.... Davvero complimenti, bravissimo!! Averne di recensioni così!! Grazie mille per tutto ciò che hai scritto! Non so quanto sia il massimo del voto; se è 100, io darei 95 a "Brave" e 100/100 per "The Wall" dei Pink Floyd...
Saretta
Venerdì 17 Agosto 2018, 14.30.37
23
Ho avuto l'onore di leggere solo ieri questa recensione su "Brave" e in generale sui Marillion.... Davvero complimenti, bravissimo!! Averne di recensioni così!! Grazie mille per tutto ciò che hai scritto! Non so quanto sia il massimo del voto; se è 100, io darei 95 a "Brave" e 100/100 per "The Wall" dei Pink Floyd...
progster78
Mercoledì 18 Luglio 2018, 19.11.29
22
Non e' il mio preferito ma la qualita' secondo me c'e'. Hogarth fa un gran bel lavoro.
Ferruccio
Mercoledì 18 Luglio 2018, 18.09.32
21
Premettendo che i Marillion (sia con Fish che con "H"), mi piacciono molto, ho sempre trovato quest'album di una Noia Mortale........ Eppure l'ho ascoltato tante volte, ma proprio non riesco a digerirlo..... Secondo me, il miglior album con "H", rimane "Season End".....
Aceshigh
Sabato 11 Novembre 2017, 20.40.55
20
Capolavoro immenso! Il migliore dell'era Hogarth. La recensione non poteva che essere così lunga, tante sono le cose da dire su questo album che reputo una delle cose più affascinanti che il progrock ha potuto sfornare nell'intero decennio, tanto che alla fine anche io ho speso qualche soldino e mi sono procurato il vinile del 2013 col double groove: merita! Non posso che concordare col voto del recensore. Come riportato nelle note : Play it Loud with Lights off !
SimonFenix
Mercoledì 5 Aprile 2017, 21.57.32
19
Fosse durato una ventina di minuti in meno sarebbe stato un disco perfetto; preferisco di più il successivo Afraid Of Sunlight.
Steelminded
Martedì 6 Settembre 2016, 19.47.47
18
Misplaced childhood tutta la vita e oltre...
Rob Fleming
Sabato 30 Gennaio 2016, 18.36.36
17
Un vero capolavoro
blackinmind
Mercoledì 3 Dicembre 2014, 13.54.30
16
Capolavoro assoluto... mi mancano le parole per descriverlo, ma il recensore è riuscito a farlo al posto mio. Complimenti. A tratti inascoltabile per quanto sia emozionante.
nonchalance
Mercoledì 3 Dicembre 2014, 12.57.59
15
Segnalo l'uscita del Blu-ray (risalente ormai a un anno fa..) in cui l'Album é stato eseguito interamente dal vivo il 09/03/2013!
FUGAZI86
Sabato 25 Ottobre 2014, 2.10.57
14
recensione prolissa??? ce ne fossero di recensioni che ti fanno lacrimare come il disco stesso. oggi l'ho ascoltato. per l'esattezza nel tardo pomeriggio; il vinile, e ci mancherebbe altro formato, la ristampa EMI del 2013 dal master originale (qualità eccelsa) ed è stata come sempre un'esperienza trascendetale. tutti quei suoni, la voce di Hogarth naturale come non mai, l'inizio che eguaglia persino una genialata come "pseudo silk-kimono" (non diversissimi), un Rothery che trattiene virtuosisimi dei primi tempi, ma si evolve in assolii o splendidi dialoghi in delay, Kelly come detto magistrale, e gli altri due membri possenti come sempre, a mio avviso un mosley perfetto nei fill-in delle parti più silenziose (come lo fu bitter-suite). non manca niente a questo disco per essere ritenuto ai limiti dell'irripetibile, e questa recensione, finalmente viste le rece spesso troppo brevi viste on-line gli ha dato gloria. sei riuscito a entrarmi dentro con le tue osservazioni e parole. accuratissimo tutto dalla premessa, alle descrizioni minuziose della lavorazione dell'album, la descrizione di esso, e la tua nota finale molto sentimentale. anche io ho in "misplaced childhood" l'album del mio amore, ma è un amore perduto e non corrisposto! "Brave" invece rappresenta il bisogno di fuggire da tutto.. la follia, il distacco, la tristezza più cupa, è stato un disco che mi ha catturato fin dal primo ascolto (ora sono solo al quarto) dandomi sensazioni che forse nessun altro disco ha saputo darmi. complimenti per essere riuscito ad esprimere tutto questo nella tua magistrale recensione. non è da tutti. ah un consiglio, evita la remaster su CD se riesci. sono bombatissime, e se eri abituato alla cassetta te ne accorgerai. se hai il giradischi la versione 2013 della citata ristampa è superlativa. LP silenziosissimo e voce di Hogarth pulitissima, grande scena sonora. c'è pure il double groove sulla side 4, quindi il doppio finale, che verrà suonato a seconda delle volte made again, o spiral remake e l'affogo nell'acqua. oggi è toccato al finale triste. chiedo scusa per la lunghezza, ma è raro ascotlare dischi del genere e leggere recensioni persino alla pari! ps Marillion band migliore degli ultimi 30 anni questo LP mette a tacere ogni accostamento col passato.
armadillo
Martedì 9 Settembre 2014, 20.36.54
13
L'album è ottimo ma non merita 94 come nessun album progressive post 1974/1975. Recensione prolissa.
Luigi
Giovedì 14 Agosto 2014, 18.35.59
12
Complimenti per la recensione, sull'album in questione poco da dire. Band troppo sottovalutata sopratutto nella fase H , con qualche calo ma che mai ha deluso totalmente, tante band di fine anni 90 come radiohead i primi coldplay devono tanto a loro eppure loro hanno raccolto molto mentre i marillion in confronto quasi nulla, ma forse tutto ciò è un bene! Lunga vita a questa band!!
Jimi The Ghost
Lunedì 11 Agosto 2014, 22.02.50
11
Molti ricordi sono riemersi dopo che ho letto con estremo piacere questa tua sentita recensione. Null'altro da aggiungere se non accodarmi ai tanti commenti che qui, prima di me, hanno dato un giusto valore ai Marillion, a questo disco e alla splendida, quanto inequivocabile, voce di Hogarth. Trovo la sua timbrica unica e sorprendente da sempre, che emerge ogni volta, proprio anche nel duo progetto Richard Barbieri & Steve Hogarth nel disco "Not The Weapon But The Hand". Quest'ultimo, insieme a Brave e Seasons End mi hanno tenuto compagnia proprio in queste settimane. Jimi TG
Le Marquis de Fremont
Lunedì 11 Agosto 2014, 12.31.38
10
Alla fine, riascoltandoli (e lo faccio spesso), tutti gli album dei Marillion sono dei grandi album. Alcuni un po' di più, altri un po' di meno. Si sente, è ovvio, la differenza tra l'era Fish e l'era Hogarth ma nessuna è superiore all'altra. Sono diverse. Ultimamente, hanno sfornato vari "live" che ho ascoltato con riproposizioni anche di canzoni da Brave (Bridge, per esempio) e si sente la qualità delle composizioni che non stancano mai. Recensione splendida. Complimenti. Au revoir.
Carlo
Lunedì 11 Agosto 2014, 11.02.08
9
Grazie per la splendida recensione. Mi hai fatto ricordare che DEVO acquistare la versione 2cd perchè la mia musicassetta, acquistata per 4900lire alla Sweet Music, ha il tuo stsso problema. Voto dei lettori totalmente inadeguato.
ayreon
Domenica 10 Agosto 2014, 12.04.39
8
spendessero per loro il 10% di quello che spendono i critici per Muse,Coldplay,Radiohead ,ma forse è meglio cosi',tanto la loro grossa fetta di fans ce l'hanno .Ho visto un po del loro live al festival di Loreley a luglio e hanno riproposto qualcosa dell'era Fish,come sempre impeccabili
krendur
Domenica 10 Agosto 2014, 0.43.22
7
una GRANDISSIMA BAND mai troppo lodata e ricordata. I primi tre album dell'era Fish con "seasons end" più "brave" e "marbles" sono davvero degli ottimi gioielli! Invece soltanto mooolto buoni i restanti album (compresi gli ultimi) fa eccezione il trittico di album composti dal 1998 al 2001 ("radiation"/"marillion.com"/"anoraknophobia") che appaiono solo sufficienti e non del tutto riusciti (ma qui c'è da capire anche il periodo NON facile che la band viveva in quei anni)
CYNIC
Sabato 9 Agosto 2014, 18.24.38
6
P.S.: Saverio Comellini "Lizard" FOR PRESIDENT altro che il cavaliere ''berlusca'' o il toscanaccio ''renzi''
ayreon
Sabato 9 Agosto 2014, 17.33.47
5
disco da 100,se riuscite guardatevi anche il film,assieme a marbles (nella versione con "ocean cloud") il migliore dell'era Hogarth,un pelo più in basso "Afraid of sunlight" e "The strange engine",io comunque continuo a non sopportare il fatto di paragonarli ai genesis :a parte un simil plagio a "supper's ready" in "grendel",anche con fish si distanziavano molto da loro
CYNIC
Sabato 9 Agosto 2014, 17.29.21
4
Seasons End 1989, è il Capolavoro!! Brave (1994) un album praticamente PERFETTO, 100/100. Ma anche gli altri album dell' era Steve Hogarth non scherzano ha fatto ne cito qualcuno Holidays in Eden (1991) Afraid of Sunlight (1995) This Strange Engine (1997) Steve Hogarth come cantante è migliore di fish senza nulla togliere a fish che di per se è un grandissimo cantante.
entropy
Sabato 9 Agosto 2014, 11.53.47
3
Ottimo album tra i migliori prodotti dalla band dal 90 in poi. Secondo me tra i capolavori post fish, va inserito anche season's end (il mio preferito).
Awake
Sabato 9 Agosto 2014, 10.57.50
2
Ottima recensione per un disco ispiratissimo.che al pari di Marbles è da considerarsi il primo dei due capolavori dell'era Hogarth.
Hellion
Sabato 9 Agosto 2014, 10.48.01
1
Disco da 100 e recensione stupenda. Grazie per averlo recensito. Aggiungere altro sarebbe inutile.
INFORMAZIONI
1994
EMI
Prog Rock
Tracklist
1. Bridge
2. Living with the Big Lie
3. Runaway
4. Goodbye to All That
i. Wave
ii. Mad
iii. The Opium Den
iv. The Slide
v. Standing in the Swing
5. Hard as Love
6. The Hollow Man
7. Alone Again in the Lap of Luxury
i. Now Wash Your Hands
8. Paper Lies
9. Brave
10. The Great Escape
i. The Last of You
ii. Falling from the Moon
11. Made Again
Line Up
Steve Hogarth (Voce, Tastiera, Percussioni)
Steve Rothery (Chitarra)
Mark Kelly (Tastiera)
Pete Trewavas (Basso)
Ian Mosley (Batteria)

Musicisti Ospiti
Tony Halligan (Uillean Pipes)
The Liverpool Philarmonic (Archi, Flauti)
Darryl Way (Orchestrazioni, Arrangiamenti orchestrali)
 
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