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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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24/10/2020
( 3728 letture )
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Seasons End è un disco difficile, estremamente difficile da trattare. Quando si ha tra le mani il classico punto di rottura, che sia per un cambiamento di formazione, di stile o quant’altro, non è mai in discesa parlarne nel modo più asettico possibile. Nel 1989 -l’anno di uscita di Seasons End- non solo la nostra musica preferita proponeva opere spiazzanti e travolgenti come in pochi altri generi, ma i Marillion erano proprio tra coloro su cui fare affidamento. Ecco quindi che il cambio da Fish a Hogarth si è sentito, almeno “spiritualmente” e nella dialettica storica, direbbe Hegel. Ciò che invece bisogna fare è qui comprendere fino a che punto questo cambio abbia intralciato o meno l’operato della band proprio in questa transizione musicale. In formazione ritroviamo un quartetto ancora oggi monolitico e conosciuto: Rothery, Kelly, Trewavas e Mosley. Come già detto, il buon vecchio Fish da quest’album in poi verrà però sostituito da Steve Hogarth, seppur la sua presenza sarà subdolamente presente lungo tutto il platter in questione, avendo egli composto già parte della musica di Seasons End e di altri brani che verranno ripresi più avanti dalla band. Immergendoci però nella musica vera e propria, eccoci in un tripudio di emozioni differenziate tra loro, idee che ancora oggi funzionano tanto quanto lo facevano all’epoca e soprattutto di romanticismo progressive su cui gruppi come i Dream Theater hanno costruito una discografia negli anni a venire.
Season's End inizia pacato con The King of Sunset Town, brano dedicato al massacro di Tienanmen avvenuto proprio nell’8 e continua poi con la romantica -soprattutto nel guitarwork solistico- Easter, dedicata alla situazione in Irlanda del Nord, e sviluppata musicalmente in un tempo in 4/4 sognante ma al contempo quadrato, con quel basso così calzante e coerente da voler subito farci immergere nella traccia successiva. Ecco allora una batteria dal groove di una marcia militare che ci porta per mano nelle linee di basso, di chitarra e infine proprio nelle linee vocali di Hogarth. Bisogna ammettere senza troppi rimorsi che sono proprio il suo timbro e la sua destrezza vocale a donare sfumature uniche ai pezzi, specialmente a questi brani più diretti e convinti in cui non ci si perde in fronzoli di sorta, se non per qualche bridge più soffice. Ancora più evidente la bravura tanto di Hogarth quanto di tutta la formazione quando si ascolterà la title track, da godersi secondo dopo secondo. Dall’accompagnamento di piano sino al solo di chitarra a dir poco magistrale per scrittura e per esecuzione, passando per l’ultimo terzo della composizione con le sue tonalità tribali che si incarnano in passaggi sofisticati richiedenti numerosi ascolti per un’esegesi quantomeno sufficiente dell’opera. Emozioni così sincere verranno riprese anch’esse in passaggi barocchi di grupponi tripla A negli anni ‘90, eppure i Marillion le inseriscono già qui senza troppi problemi: avanguardistici? Appassionanti è il termine più corretto, a mio avviso. Quando poi si è citato il basso di Trewavas in realtà non si era manifestato ancora nella prestazione mozzafiato in Holloway Girl, accompagnatore ufficiale delle note vitalistiche di questi brevi ma intensi minuti di musica pomposa e variopinta. Eppure è forse Berlin il pezzo più affascinante e completo sotto ogni punto di vista, quello insomma capace di far comprendere ancora nel 2020 di cosa è capace il progressive rock fatto con la testa e con il cuore nello stesso studio. La traccia è sorretta da potentissime esplosioni annunciate da lenti climax strumentali, da un Phil Todd al sassofono che dà quel tocco jazz fino alla pausa inaspettata che farà sussultare per un attimo. Il rullante terremotante e nuovamente bellico di Mosley passa il microfono a delle linee vocali delicate, sussurrate tanto quanto l’arpeggio chitarristico che richiamerà il leitmotiv. Poi ancora una grancassa chirurgica e un Hogarth che annichilisce ogni dubbio in una sezione di pura catarsi canora. Il brano migliore? Il più emotivamente d’impatto? Una cosa è certa, Berlin è una composizione completa e saprà soddisfare non solo ogni tipo di orecchio ma anche di ogni età. Senza considerare l’interesse politico e sociale sempre presente nei testi dei Marillion (in Berlin decisamente intuibile) che toccano proprio non solo nel concept stesso dell’album il riscaldamento globale, ma anche situazioni politiche da occidente fino a oriente, eventi di cronaca e chi più ne ha più ne metta. Una band insomma che ha sempre saputo il fatto suo. Un piccolo neo potrebbe sorgere con After Me, troppo mielosa forse, ma di sicuro non noiosa se considerata nell’intera offerta di Seasons End. Molto rock e ficcante Hooks in You, il lavoro di chitarra è l’antitesi della complessità ma, allo stesso tempo, della banalità. Il ritornello è corposo, ben registrato e di sicuro entrerà nella testa degli ascoltatori in poche riproduzioni. Inizio invece quasi da Queen quello della conclusiva e bellissima The Space, un brano pieno di pathos, intriso di pesantezza e di tempistiche che vengono trascinate avanti a fatica. Le armonie pesanti saranno quasi claustrofobiche per alcuni, fino al finale sentito, sensazionale e coerente con questo nichilismo armonico presentato da questa canzone superba capace di stringerci i polmoni a mani nude.
Cosa si può dire dunque, riassumendo, di un album come Seasons End? Che seppur non è un concept album dall’altissima caratura come ci hanno abituato proprio i Marillion, funziona e lo fa nel migliore dei modi nella sua componente più importante: la musica nuda e cruda. Oggi come allora Hogarth riesce a dire la sua, a portare il suo personale modo di cantare, le sue idee e la sua freschezza che per nulla sfigurano se confrontate con altri lavori del gruppo precedenti al cambio di formazione. Proprio per tale motivo, nonostante piccole sbavature come pezzi meno d’impatto e più quadrati rispetto ad altri quasi mozzafiato e 100% progressive, Seasons End può essere descritto come uno degli album di transizione meglio riusciti a cui ci si può approcciare ancora oggi, anche solo per capire quanto profondamente una band come i Marillion abbiano imposto la loro presenza nella storia della musica.
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22
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Il mio disco preferito dei Marillion, in assoluto, più di qualsiasi altro. Ogni nota trasuda di fine anni 80, cosa non darei per tornare al 1989.. |
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21
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Che dire? Album splendido, subito a parte qualche canzone non mi era entrato troppo, sarà stato per il periodo della mia vita quando ho iniziato ad ascoltarlo, però pian piano ho iniziato a rivalutarlo sempre di più nel corso del tempo e a prendere un valore sempre più grande. Per me questo disco ha assunto un valore speciale, per me rimarrà sempre un ricordo dei miei nonni che ora non ci sono più..
e questo è il potere della musica, del prog rock
The king of the sunset town meravigliosa, poi abbiamo Easter, uninvited guest è quella forse meno bella ma nemmeno brutta, Season End capolavoro.. da lacrime agli occhi…Holloway girl bellissima…Berlin stupenda…After Me che per me è splendida, con un finale spirituale…e infine che dire, forse la canzone che mi è entrata sempre di più nel corso del tempo, che trasmette sensazioni svariate, che conduce appunto alla fine del disco e chiude in bellezza, come molti dischi Prog rock… The Space, che per me forse rappresenta l’apice di questo grandissimo disco, una canzone stratosferica da ascoltare con attenzione e lasciarsi travolgere, una gemma dei Marillion. Grande esordio di Hogarth, grande disco, seppure a tratti possa risultare molto orecchiabile e leggermente calante. Si potrebbe dire altro ma in generale è un grande album, non un capolavoro, che sa trasmettere in canzoni come Season End, Easter,The Space qualcosa di profondo e unico. Con il periodo Fish ovvio che si era chiusa un era, e questo è stato proprio l’inizio di “qualcos’altro”. |
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20
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Ognuno ha diritto alle proprie verità, anche se valgono solo per se stessi. Si tratta di un ottimo disco, senz\'altro, difficilmente lonriterrei migliore dei dischi citatibda Rob. Poi vabbè... con Fish hanno fatto 4 album, più uno dal vivo, tutti splendidi e coronati dal successo mondiale e questo a mezzo. Con Hogarth ne hanno fatti credo 14, alcuni dei quali altrettanto splendidi, anche se diversi, altri molto meno. Credo sia stata la loro fortuna incontrare Hogarth, che ha permesso loro di cambiare e rinnovarsi. Certo il successo vero non lo hanno più visto e questo, credo, sia motivo di profonda frustrazione per H. Almeno, lo è stato. |
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19
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Per me è all\'altezza dell\'ultimo con Fish, che aveva già composto e registrato i testi per questo album. Poi è andato via ed è arrivato H. Non sarà come i primi tre ma è migliore di tutti quelli venuti dopo, compresi quelli imperdibili citati da Rob. |
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18
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@El Malparido: aggiungiamo pure Afraid, This strange e soprattutto l\'altro capolavoro Marbles. Non so se è malafede, ma anche con Hogarth hanno infilato una serie di perle assolute. Anzi, in un contesto sempre eccellente, per me, hanno cannato solo con Sounds That Can’t Be Made. |
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17
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@tomriddlelord31: sì ma dire che Brave è \"solo\" un buon disco, è essere un po\' in malafede.. |
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16
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Per quanto mi riguarda i Marillion senza Fish sono come i Doors senza Jim Morrison: dei bravi musicisti che incidono buoni dischi ma non capolavori.
Detto questo il disco non è male ma concordo con il commento #14 quando dice che la magia è andata completamente persa. |
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15
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Disco bellissimo, c'è Easter, quindi. |
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14
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Qualche pezzo decente si trova...mA La magia è andata completamente persa.. Da Marillion a Merdillion é stato un attimo... |
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12
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Album splendido... e pensate che a distanza di 31 anni H riesce ancora a cantare The Space nella stessa tonalità... |
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11
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Un album che avevo ascoltato all'epoca con una grandissima curiosità dopo l'epocale cambio Fish/Hogarth. E mi ricordo di averlo letteralmente consumato, tanta la bellezza dei brani con Easter e la title track, a mio avviso, su tutte. Ma anche il resto è di altissimo livello. Ma appunto, di "altissimo livello" è tutta la discografia dei Marillion. Qui Hogarth tira fuori una prestazione eccellente e soprattutto su pezzi, come detto nella recensione, in parte scritti da Fish. Non si può non avere questo disco. Au revoir. |
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10
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Per me è un bel disco.. la delusione vera fu quello successivo. |
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9
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Sono uno di quelli che rimasero spiazzati (eufemismo) dall'allontanamento di fish. Però non si può negare che questo sia un superdisco. 80 |
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8
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Contiene dei capolavori quindi concordo con la recensione |
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7
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Disco grandioso. Non sfigura affatto con i precedenti, anche se diverso; ma segni di cambiamento a mio parere si intravedevano già nel bellissimo Clutching at Straws. Comunque a tutt’oggi rimane uno dei miei preferiti con Hogarth, insieme a Brave e Afraid of Sunlight. Ad avercene di pezzi come Holloway Girl, The King of Sunset Town o Seasons End. E poi c’è Easter: che meraviglia! Una delle loro canzoni più belle di sempre. Voto 89 |
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6
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iTunes me lo ha messo il t9 dell’iPad  |
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5
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Bello ma indipendentemente dall’abbandono di Fish questo è iTunes genere diverso dai Marillion precedenti. Voto 75 |
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4
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Bellissimo disco, nel quale comincia a far capolino la vena pop di Hogarth. All’epoca fu uno shock per molti e certo si capisce il perché. È appunto un album di transizione...ma averne di album così, con canzoni così. Hanno fatto e faranno di meglio, ma l’ammirazione per un gruppo che ha saputo fin da subito prendere una strada diversa dalla precedente con una qualità così alta, è immensa. |
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3
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Ricordo distintamente la recensione che lessi a suo tempo: "Seasons End sta a Fugazi come Abacab sta a Selling England". Corsi ad acquistare Fugazi amando Selling England alla follia. Poi intorno al '92 il video di Sympathy girava ovunque e il nuovo cantante dei Marillion non mi sembrava male. E così, avendo scoperto con Brave e Afraid of Sunlight che il gruppo mi piaceva (volendo anche di più di quello di Fugazi), trovandolo a poche lire lo comprai. Quel giornalista possa avere 37.3 tutta la vita! Seasons End è un album bellissimo, altro che Abacab. Seasons End, Space, Easter sono pezzi eccellenti. 80 |
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2
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Per me è splendido, e regge benissimo il confronto con i suoi predecessori. |
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1
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'uno degli album di transizione meglio riusciti' in una frase si riassume la validità di questo lavoro, da cui scaturiranno capolavori come Brave e Marbles.
Un gruppo che ha mantenuto , pur mutando, livelli altissimi sia con Fish, che personalmente non ho mai amato troppo per il suo scimmiottare Gabriel, sia con Hogart forse molto più sincero e genuino del predecessore. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. The King of Sunset Town 2. Easter 3. The Uninvited Guest 4. Seasons End 5. Holloway Girl 6. Berlin 7. After Me 8. Hooks in You 9. The Space
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Line Up
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Steve Hogarth (Voce) Steve Rothery (Chitarra) Mark Kelly (Tastiera) Pete Trewavas (Basso) Ian Mosley (Batteria)
Musicisti ospiti Jean-Pierre Rasler (Ottoni nella traccia 2) Phil Todd (Sassofono nella traccia 6)
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RECENSIONI |
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