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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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Metal Church - Masterpeace
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07/09/2018
( 2817 letture )
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Chi ha vissuto in prima persona l’epopea musicale novantiana ricorderà probabilmente che, con cadenza regolare, uno dei leit motiv più gettonati sulle riviste specializzate di musica metal, era quello che invariabilmente annunciava che l’anno in corso sarebbe stato “l’anno di ritorno del thrash”, con pronostici più o meno azzeccati e comunque mai pienamente realizzati. In realtà, la decade per il genere è stata senza dubbio la più dura e, con poche varianti, anche la meno prolifica. Questo non per sottovalutare band come Pantera, Machine Head o Grip Inc. che proprio in quegli anni hanno costruito la propria legittima ascesa tra le alte sfere metallizzate, ma per sottolineare quanto abbiano in realtà sofferto i nomi storici del genere e quanto le nuove leve fossero probabilmente più indirizzate verso generi più estremi o, al contrario, cercassero nell’alternative metal o nel “comodo” rifugio del power metal scandinavo/tedesco, la loro via per l’Olimpo. Qualcosa però continuava a covare sotto la cenere e, al di là di mostri sacri come gli Overkill, tutti si aspettavano che prima o poi anche gli altri giganti in attività avrebbero rialzato la testa, favorendo il rinascere di un genere che restava tra i preferiti in assoluto degli ascoltatori con appena qualche anno in più sulle spalle. Così, anno dopo anno, ci ritroviamo alla fine della decade, in un fatidico 1999 che forse non fu proprio “l’anno del ritorno”, ma che offrì alcune uscite davvero degne di nota, che sembravano confermare che poteva davvero essere la volta buona: basti citare, tra gli altri, The Gathering dei Testament, Dreaming Neon Black dei Nevermore, Necroshine dei già citati Overkill e l’album del ritorno degli Agent Steel, Omega Conspiracy. In mezzo a questi, con un livello di attesa che all’epoca sembrò spasmodico, trovò posto anche Masterpeace, album della reunion dei Metal Church. La band di Seattle aveva annunciato il proprio ritiro dalle scene in realtà pochi anni prima, tra il 1994 e il 1995, ma quello che faceva la differenza agli occhi di tanti non furono in realtà i pochi anni di silenzio che separarono Masterpeace dall’ultimo Hanging in the Balance, quanto il fatto che stavolta la formazione sarebbe tornata all’originale line up dei primi due album, col ritorno in pianta stabile di Kurdt Vanderhoof e, soprattutto, quello di David Wayne, indimenticato singer dei primi due capolavori del gruppo. Unico escluso, per problemi familiari, fu l’originario chitarrista Craig Wells, comunque sostituito da John Marshall, chitarrista che aveva a suo tempo preso il posto in formazione proprio di Vanderhoof. Una reunion che sembrava davvero promettere faville e che fu anticipata dalla pubblicazione dell’album Live, contenente registrazioni risalenti al 1986 che ben metteva in luce l’enorme carica e qualità dei brani quanto dei musicisti coinvolti. Si trattava di un gustoso antipasto con lo scopo di scaldare il pubblico per l’imminente pubblicazione dell’album del ritorno in studio.
Senza rubare spazio alla suspense, diremo subito che le aspettative non furono pienamente soddisfatte, né dal punto di vista della band, né per quanto riguarda l’apprezzamento del pubblico. Masterpeace non ottenne infatti gli sperati riscontri in termini di vendite e di critica e, in generale, non sembrò capace di capitalizzare il forte richiamo che la reunion aveva creato attorno ai Metal Church. Certo è che quanti si aspettavano un ritorno diretto alle sonorità dei primi due album, dovettero presto riporre le loro speranze e mandar giù il fatto che Vanderhoof in particolare non aveva alcuna intenzione di rinnegare quanto fatto negli anni con Mike Howe alla voce, che costituiscono invece il punto di partenza anche per il nuovo album. Ecco quindi un disco che senza dubbio recupera una maggiore dinamicità rispetto agli ultimi episodi, in particolare The Human Factor e Hanging in the Balance, con una propulsione sui tempi medi più spinta, ma non perde assolutamente il vizio per brani lunghi, articolati, centrati su riff monumentali, oscuri e pesanti, nei quali fanno spesso capolino passaggi in acustico piuttosto che affatto celate concessioni a tappeti di tastiera e mellotron. La differenza rispetto a quanto proposto sul primo omonimo album, rispetto a quanto invece presente su Blessing in Disguise è evidente, ma non per questo dobbiamo dimenticare che pur della stessa band si parla e quindi appare del tutto naturale che il percorso fosse coerente col passato, ma non a questo asservito. Chi avesse avuto occasione anche di ascoltare A Blur in Time dell’omonimo progetto di Kurdt Vanderhoof rilasciato nel 1997, riconoscerà anche da dove provengono alcune soluzioni di arrangiamento, in particolare per quanto riguarda proprio l’uso delle tastiere, a conferma del fatto che il chitarrista/compositore stesse seguendo una linea compositiva ben precisa, pur differenziando in maniera netta la proposta della propria band rispetto a quella dei Metal Church. A fare le spese, se vogliamo, di questa strada compositiva sarà proprio David Wayne: il cantante non nasconderà infatti il proprio disappunto per le scelte stilistiche e compositive portate avanti da Vanderhoof ritrovandosi a cantare su brani che probabilmente non sono proprio quelli che possono metterlo maggiormente in risalto, né tanto meno a proprio agio, seppure il suo nome compaia nei credits a fianco di quello del chitarrista nella quasi totalità dei titoli. A conferma di questo, basti ascoltare l’album solista rilasciato poco dopo, dal non fantasioso e assai polemico titolo Metal Church, nel quale il cantante recupera appieno le atmosfere classiche del repertorio della band madre, risultando decisamente più convincente che su questo Masterpeace, nel quale i limiti del cantante risultano evidenziati da canzoni che richiedono un livello di interpretazione che Wayne non era in grado di offrire nel 1999, né tecnicamente né come estensione. L’urlo graffiante che tanti brividi aveva fatto scendere lungo la spina dorsale di chiunque amasse l’heavy metal dieci anni prima è ora ridotto al ruggito acido di un gattino e non è improbabile che, all’oscuro di ogni informazione su questo disco, un ascoltatore distratto non possa equivocare la timbrica di Wayne per quella di Biff Byfford, con tutto il giusto rispetto per entrambi. Naturalmente, questo non deve andare a detrimento di una prestazione comunque sincera e sentita da parte del singer, per quelle che erano le potenzialità che la sua voce gli consentiva all’epoca. La prova di Wayne, infatti, perde in maniera netta ogni confronto con la Storia scritta dieci anni prima, ma offre linee melodiche decisamente azzeccate le quali, ascolto dopo ascolto, mostrano quanto lavoro fu fatto per essere almeno versatili e degne del ritorno nei Metal Church. Purtroppo, semplicemente questo non era il suo terreno di gioco e da qui nasce tutto il suo comprensibile dispiacere e, soprattutto, quello di Vanderhoof. Tornando al disco, è corretto sottolineare che ci troviamo di fronte ad un album tra i più ricchi e complessi offerti dalla formazione statunitense, con continui cambi di atmosfera che tra un brano e l’altro offrono un ventaglio molto ampio andando a toccare praticamente tutto il repertorio di ispirazione offerto dalla band. Pur rimanendo saldamente ancorati ad una matrice US Power, che quindi spazia da ritmiche al limite del thrash a mid tempo granitici e potentissimi, fino a veri pezzi di pathos carichissimi da un punto di vista emozionale e di tensione espressa, senza rinunciare a qualche momento vicino all’hard rock, come già esplorato a fondo in The Human Factor, il gruppo riesce a non risultare nostalgico o autocelebrativo. Anche se forieri di uno stile che in quegli anni sembrava ormai fuori dal tempo, i Metal Church avevano dalla loro una capacità di scrittura di livello davvero superiore e pur non pubblicando il loro miglior album, è davvero difficile trovare dei punti deboli in Masterpeace, che contiene invece alcune delle migliori composizioni offerte da Vanderhoof da anni. Se si considerano infatti tracce come la grintosa opener Sleeps With Thunder, piuttosto che la thrashy Faster Than Life, l’irrefrenabile All Your Sorrows con un Arrington sugli scudi o le carichissime Falldown e Sand Kings, capaci di unire hard rock e thrash, è difficile non riconoscere che la qualità media risulti piuttosto alta. Se poi sulla bilancia piazziamo due pezzi da cardiopalma puro come Kiss for the Dead e, ancor di più, la splendida They Signed In Blood, entrambi caratterizzati da una atmosfera acustica che evolve poi in un tripudio metallico spettacolare, che novella le classiche Gods of Wrath e Watch the Children Prey, risultando ancora più articolati e comunque interpretati al meglio delle possibilità da David Wayne, si capisce che i cinque avevano per le mani un disco potenzialmente grandioso. Nota a parte per la riuscitissima cover del classico Toys in the Attic degli Aerosmith: anche in questo caso, come fu per la celeberrima Highway Star, la mano dei Metal Church risulta piuttosto pesante e ipervitaminizzata, ma il risultato è decisamente da pollice in su, per uno degli episodi più divertenti e rinfrescanti del disco.
Il risultato dello stato di cose descritto fu piuttosto deludente sotto tutti i punti di vista: l’album ottenne recensioni piuttosto “cariche”, probabilmente proprio a causa dell’interesse suscitato dalla reunion e del periodo storico che “premeva” per un ritorno di certe sonorità. Questo però non si tradusse affatto in un successo commerciale, che ancora una volta sfuggì clamorosamente dalle mani della band che, oltretutto, si ritrovò in tour anche senza Erickson e Arrington e con un David Wayne che evidenziò ancora di più sul palco tutti i propri limiti, finendo per provocare le ire di Vanderhoof. Ira che in seguito il chitarrista espliciterà senza mezzi termini, definendo l’intero periodo come un vero e proprio incubo, smarcandosi del tutto dalla decisione stessa di portare avanti la reunion che, a suo dire, gli fu praticamente imposta dalla casa discografica e ribattezzando l’album Disasterpeace, a voler ulteriormente sottolineare tutto il suo disappunto nei confronti di un’avventura partita con i migliori auspici e che si concluse invece nel peggiore dei modi, con la rottura definitiva dei rapporti artistici e personali tra i due protagonisti. Probabilmente, come è inevitabile che fosse, è proprio la delusione per quanto accaduto a parlare, più di quello che in realtà si percepisce valutando a distanza di quasi vent’anni questo Masterpeace: il disco è infatti tutt’altro che fallimentare e pur rappresentando un’occasione mancata e mai più recuperabile per portare il nome dei Metal Church di nuovo in alto, non può e non deve essere lasciato alla polvere del tempo, marcato come il peggiore tra quelli rilasciati dal gruppo. Un posto che lasceremmo piuttosto agli album successivi, con poche eccezioni. Qua le canzoni ci sono eccome e sono grandi canzoni. Il che porta in conclusione a definire Masterpeace come uno dei più classici esempi di album da rispolverare e rivalutare con urgenza.
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13
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Gran bella recensione, sto ascoltando l'album in questo momento. |
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12
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Prezzo da collezionisti per il cd! Anche 40-50€... mi sa che aspetto una eventuale ristampa. |
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11
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Un David Wayne che non mi piace affatto su questo disco. per me complessivamente un 6+. Poi forse un giorno capirò perchè gli Overkill vengono sempre menzionati come quelli che hanno mantenuta alta la bandiera del thrash, quando gli album tra Killing Kind e Immortalis non sono affatto thrash classico, ma un groove panterizzato che può piacere o meno, per carità, ma che li vede adattarsi alla tendenza del momento per sopravvivere. |
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10
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No e che tu pensi quello che vuoi riguardo alle bands confrontate, io ho espresso una mia impressione che per te può anche essere totalmente sbagliata, io rispondo a quello che scrivo, sugli altri quasi sempre mi sbaglio |
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9
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Perché a lui ho già risposto e tu sei entrato nella conversazione? o perché ti sei sentito in diritto di dire che io non ho in chiaro alcune cose e quindi di esporre una teoria piuttosto sbilenca le cui conclusioni sono alquanto fallaci e per di più slegate dagli argomenti stessi? Chissà... ma io la chiuderei qui, hai ragione. |
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8
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Allora perché ti sei sentito in dovere di rispondere e me e non a lui? Sul fatto che ci conosciamo o no, non credo che e te interessi molto, giusto? Ho scritto quello che penso dei Megadeth, cioè che mi piacciono la prima versione thrash, diciamo che qui la voce di Wayne e alcune timbriche della chitarre secondo me invece sono molto simili. Ma tu ti fai il tuo giudizio senza il mio ci mancherebbe |
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7
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American Graffiti: Il problema mio è sempre quello di avere a che fare con chi non riesce a mettere in fila una frase sensata e però pensa di dover insegnare agli altri qualcosa. Visto che ho risposto a Renna e non a te, sarà lui se vuole ad esplicitare il suo discorso. Le tue considerazioni non aggiungono niente al discorso: i Metal Church non hanno nulla a che vedere con i Megadeth, tanto meno quelli dei dischi “pacchiani” (che poi cosa vuol dire? Countdown è uno dei dischi pacchiani? Lo è Youthanasia? O si parla di Risk, Supercollider et similia?). L’album più vicino allo US Power dei Megadeth è senz’altro Youthanasia. Se poi lo vuoi avvicinare per questo ad un qualunque album dei Metal Church forse conviene che te li riascolti con calma. Magari assieme a Renna, che mi sa che vi conoscete bene. Vedrete che vi farà parecchio bene e magari eviterete di scrivere cose insensate. |
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6
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Non per prendere le difese di Renna, ma non ha detto una cazzata. Eagle Nest invece non ha chiaro alcune cose, ma sono fatti suoi. 1 - i MC per qualcuno sono stati catalogati thrash, non è vero è power US 2- i veri Megadeth facevano thrash e terminano con So What, volendo 3- dopo hanno fatto di tutto tranne che rimanere se stessi 5- un blog italiano che è in antitesi al modo di proporre rock metal rispetto a Metallized, dice che non si possono sviscerare argomenti su una lunghezza di un tweet, quindi semmai abituati a leggere le recensioni, sempre che siano degne, in mio commento ed tu tuo? contano un cazzo, volendo. Visto che molti vengono eleminati |
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5
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Io personalmente ho sempre considerato tutti gli album dei metal church più' che buoni...i primi ottimi...il problema di queste tipo di band e' il mercato discografico metal che tirava in quel dato momento...inflazionato dal nu metal....praticamente le band anni 80 come questa non se le filava nessuno...ne le case discografiche...ne tanti meno i metallari dell' epoca...se dovesse essere uscito nel 2017 o 18...adesso che va il revaival su tutto avrebbe preso maggiori consensi....voto 80 |
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4
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Peccato che con i Megadeth non c’entri nulla neanche a volerlo.... |
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3
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Buon album, adatto a chi ascolta gli albums tamarri dei Megadeth |
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2
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Concordo con l'ultima frase della recensione (ma anche con tutto il resto): da rivalutare con urgenza! Ricordo anch'io l'insuccesso di quest'album e le critiche ricevute e... onestamente non me lo spiego ancora oggi. Probabilmente molti - vista la line up - si attendevano il seguito di The Dark e le aspettative sono state disilluse. Ma per me questo è un grande album, meglio di quelli con Munroe. A parte Falldown e Into Dust che non mi hanno mai convinto (poste praticamente all'inizio del disco - come darsi la zappa sui piedi), da Kiss for the Dead in poi l'album va alla grande. Voto 85 |
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io ce l’ho originale ed è bellissimo, voto: 87/100. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Sleeps With Thunder 2. Falldown 3. Into Dust 4. Kiss for the Dead 5. Lb. of Cure 6. Faster Than Life 7. Masterpeace 8. All Your Sorrows 9. They Signed in Blood 10. Toys in the Attic 11. Sand Kings
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Line Up
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David Wayne (Voce) Kurdt Vanderhoof (Chitarra) John Marshall (Chitarra) Duke Erickson (Basso) Kirk Arrington (Batteria)
Musicisti Ospiti Jeff Wade (Batteria)
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