2009… annata Nera…
… Nera perché, nel bene o nel male, pochi altri generi nel mondo della musica possono vantarsi di avere band all’attivo da ormai vent’anni e ancora pronte a mettersi in gioco…
… Nera perché il Verbo Estremo è ben lungi dall’aver esaurito i propri assi nella manica, come dimostra il proliferare multiforme ed inesorabile di nuove promettenti leve…
… Nera come la notte di questo dicembre, dove una pallida luna osserva e rischiara un mondo ancora dominato da forze occulte che s’impadroniscono degli esseri umani, possedendone alcuni al fine di tramutarli in artisti della morte, cavalieri dell’apocalisse, oscuri menestrelli delle tenebre…
L’odio, la rabbia, la morte, la magia nera: concetti, fedi o meri artifizi? Non si può dare una risposta certa se non generalizzando e banalizzando la questione. Non si può pretendere di posizionare paletti di confine -artistici o ideologici di sorta- al genere culturale e musicale nato negli ultimi anni ‘80 in Scandinavia che come un drappo mortuario ha occluso la luce all’intero globo…
… come se il mondo intero fosse una Norvegia immortalata nei suoi sei mesi notturni…
Ogni singolo componente delle band protagoniste di questo funesto presagio di morte ha le proprie idee e concezioni circa la natura della propria vocazione per le Arti Nere, ma certo è che non potrà svelarne completamente la verità, se non mostrandone la propria personale interpretazione: il malvagio contributo alla perdizione dell’umanità intera…
Marduk,
Immortal,
Gorgoroth e
Dark Funeral: un ritorno in massa delle potenze scandinave segnala immediatamente la perseveranza e la rivendicazione delle origini nordiche del Nero Verbo, ma con differenti risultati qualitativi.
Wormood dei
Marduk leva quella rassegnazione dal volto di chi li aveva dati per fallite fotcopie di se stessi anni or sono, mostrandoci nuovamente che la loro passione non è né sterile, né una banale riproposizione del già detto. Un album zeppo di influenze che pescano a piene mani dal doom, giocando con la teatralità degli screaming e le melodie delle chitarre, per consegnarci una perla di rara nerezza: un ottimo esempio di ciò che oggi significa black metal, e anche una buona partenza per chi ancora non conosce i
Marduk "nuova-era" e non sa da quale disco incominciare.
All Shall Fall degli
Immortal invece, dimostra la pochezza delle reunion strategiche tanto in voga odiernamente, regalandoci un piattume compositivo e una mancanza di attitudine che ferisce gli amanti legati alle radici del trio di Bergen, per soddisfare l’etichetta e le masse ormai abituate ad accontentarsi più di possedere l’album firmato da un moniker leggendario, che ad accertarsi della qualità intrinseca del prodotto. I
Gorgoroth, forti di una line up riesumata dal passato, incidono
Quantos Possunt ad Satanitatem Trahunt dimostrandosi nostalgici delle proprie origini, ma non convincendoci completamente: un platter sufficiente, ma che forse avrebbe potuto dare molto di più con una registrazione meno curata e una maggiore velocità a livello ritmico. Velocità che i
Dark Funeral mettono in primo piano nell’ultimo
Angelus Exuro Pro Eternus: nove canzoni di devastante compattezza sonora arricchita dalle classiche melodie ai quali gli svedesi ci hanno abituato con gli ultimi lavori in studio ed uno stupefacente lavoro dietro le pelli da parte di
Dominator. Rimanendo in suolo svedese non si possono non citare altri due mostri sacri che rispondono al nome di
Shining e
Arckanum: i primi implacabili autori di un black metal sperimentale e originale sfornano con
VI / Klagopsalmer il sesto stupendo capitolo della loro discografia caratterizzato da un’oscurità e un lavoro delle sei corde totalmente fuori dal comune: eccezionali come sempre. I secondi, one man band attiva dal 1993, dimostano con
ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ che l’old school è ben lungi dall’aver esalato l’ultimo respiro donandoci un’opera eccelsa di black\thrash pagano come da tempo non si sentiva. Altra perla di questo 2009 proveniente da Stoccolma che porta la firma della
Norma Evangelium Diaboli -da sempre sinonimo di qualità estrema- risponde al nome di
Maranatha dei
Funeral Mist che dipingono un sulfureo inferno dantesco, denso e nauseabondo; il disco è permeato da una sovrapposizione strumentale che è stata occasionalmente "sporcata" (rispetto a
Salvation) per creare un tripudio caotico che si allineasse al feeling del disco. Tornando in Norvegia bisogna prendere atto della decelerazione avvenuta tra gli spartiti dei
1349 nell’ultimo
Revelation Of The Black Flame, album veramente poco ispirato e caratterizzato da mid tempo innocui: la crisi d’identità della band, che appare voler seguire più le orme degli ultimi lavori dei
Satyricon che l’originale trade-mark immolato nel precedecessore
Hellfire, è oramai evidente. Ma ben tre membri dei
1349 militano in una band di ben differente qualità: i
Pantheon I dipingono con
Worlds I Create un affresco black\death particolare, furioso e convincente, dove le tonalità oscure del canonico black made in Norway si tingono di sfumature classiche (grazie alla presenza del violoncello), doom (mid tempos sostenuti da arpeggi) e thrash (stop and go della scuola ‘80s). Oslo continua a sfornare band dalle line up d’eccezione come testimoniano i
Den Saakaldte che con il loro
All Hail Pessimism propongono un bizzarro connubio tra depressive, thrash, doom e sperimentazioni sul filo della psichedelia grazie ad effetti orchestrali prodotti da una tastiera fuori dal comune. Il panorama nordico si distingue infine per gli inediti
Sarke: se c’è qualcuno che ha ben compreso la giusta commistione tra il thrash degli ’80s e il minimalismo decadente norvegese questi sono proprio gli artisti
Nocturno Culto e
Sarke che, unite le forze, non ci lasciano tregua con un’opera diretta, immediatamente assimilabile ma non per questo priva di profondità e spessore artistico:
Vorunah sfoggia uno stile originale che fa ben sperare per gli anni venturi.
Passando ad esaminare i principali protagonisti del resto del mondo, bisogna ammettere che gli scandinavi non sono assolutamente gli unici che si sono dati da fare. La scena americana sta velocemente assorbendo l’attenzione dei blackster legati alle sonorità e all’attitudine proprie delle radici del black metal grazie a nuove leve che ben hanno imparato la lezione impartitagli dal vecchio continente. Spiccano tra tutti i
Wolves In The Throne Room che con il loro
Black Cascade riescono a dimostrarsi contemporaneamente degni eredi dell’old school e geniali sperimentatori, riuscendo a proporre un black minimale e furibondo in un’ancestrale atmosfera alienante grazie agli ottimi inserti drone\ambient in questo act di freschezza e maestria sia a livello tecnico che semantico, grazie ad una coerente e radicale filosofia ecologista. Anche l' EP
Malevolent Grain rilasciato prima del full-lenght è degno di nota: rivela per certi versi un lato molto più interessante, psichedelico, sperimentale e più compatto, mostrando la band come una sorta di
Black Mountain versione estrema. Sempre dagli States
Xasthur riconferma il suo modus operandi con un album non diversissimo dai precedenti se non per la sua monumentalità: nell’ultimo
All Reflections Drained abbraccia appieno la scuola burzumiana (di
Filosofem) per creare un enorme disco ambient suonato però con la classica strumentazione black metal. Tornando al nostro continente, in Germania vale la pena ricordare “l’incredibile”
Jahreszeiten di
Nargaroth (dove
Ash tenta rischiose sperimentazioni con il folk sfornando il disco più pacchiano dell’anno) e l’ottimo
Manifesto Futurista del geniale
Cornelius, artista norvegese ormai stabilitosi a Berlino, che con il suo progetto
Sturmgeist fotografa con spiccato talento il periodo artistico italiano dei primi anni del ‘900 in un’opera ispirata di black old school moderno. Altro combo tedesco distintosi per qualità e genialità compositiva sono i
Secrets Of The Moon: con il loro quarto full-lenght
Privilegivm le sonorità del black vengono ricamate in un drappo mortuario di arpeggi, riff thrash metal e graffianti chorus “alla
Satyricon” dimostrando quanto un attento studio melodico possa portare ad un ottimo black metal senza scadere in pacchianate black’n’roll. Micidiale il quinto platter degli inglesi
Anaal Nathrakh:
In The Constellation Of The Black Widow si presenta come una summa del loro stile brutale, velocissimo e violento: un assalto all’arma bianca per le orecchie dell’ascoltatore che si ritrova completamente annichilito dalle vocals filtrate di
V.I.T.R.I.O.L. e dalle claustrofobiche inserzioni elettroniche che ben sposano le partiture degli strumenti canonici. Inserti di elettronica che i leggendari mostri svizzeri
Samael hanno ridimensionato nell’ultimo monumentale ritorno sulla scena che va sotto il nome di
Above: un ottimo esempio di come si possano contaminare a vicenda generi quali il black e l’industrial senza scadere nel cattivo gusto, ma prendendo il meglio da entrambi per fonderli in un unico, convincente ed originale sound. Lavoro sorprendente, di magistrale qualità nonchè di inaspettate influenze ce lo regalano i francesi
Celeste:
Misanthrope(s) è una magnifica perla nera che, seppur proveniente da una band screamo, fonde i lati più oscuri del black metal e dell'hardcore, rimanendo esattamente sopra il confine fra i due generi. Degno di nota anche
White Tomb degli irlandesi
Altar of Plagues: tremende e sognanti emozioni sonore che provengono dalle viscere della terra; post-black metal romantico e decadente con influenze dai
Pelican, agli
Ulver, dallo sludge al post-hardcore. In Polonia invece, patria del death metal più oltranzista e convincente, troviamo come protagonista indiscusso della scena lo spiccato talento del batterista
Inferno impegnato a massacrare i nostri timpani con i suoi combo
Behemoth e
Azarath. Se i primi con il buon
Evangelion ripudiano le proprie origini blackster per confermarsi ottimi deathster, gli
Azarath di
Prise The Beast ci insegnano come deve suonare un album brutal death tecnico estremamente violento e travolgente, fortemente contaminato nei testi, nel riffing, nella copertina e nel groove, dal black metal più blasfemo e furioso che si possa concepire. Sempre la
Norma Evangelium Diaboli dei citati
Funeral Mist spara quest'anno altre due micidiali “cartucce europee” chiamate
Teitanblood e
Katharsis. Il gruppo spagnolo, con
Seven Chalices, estremizza i concetti di
Funeral Mist portandoli in un ottica death-black ancora più marcia e viscosa; il gruppo tedesco invece sforna
Fourth Reich, un album non ragguardevole quanto il precedente. ma più cadenzato e ritualistico.
Giunge il momento di volgere lo sguardo verso casa; il nostro paese negli ultimi anni si sta dimostrando all’altezza dei colleghi internazionali? Senza dubbio alcuno. Tra le numerose uscite discografiche di questo 2009 emergono incontrastate le fatiche dei
Malfeitor ed
Handful Of Hate.
Incubus, dei primi, conferma il talento dimostrato nel precedente
Unio Mystica Maxima con maggior oscurità anche se con minor mordente, non ci si può quindi dichiarare sostanzialmente delusi: qualità e devozione al Nero Verbo rimangono le indelebili coordinate stilistiche del combo capitolino. I toscani
Handful of Hate abortiscono invece un feto malsano, violento e letteralmente estremo:
You Will Bleed rimarrà nella storia della nostra nazione tra gli album più violenti mai scritti da una band italiana, summa della passione, dello stile e della genialità del combo che con il proprio black\death rade al suolo tutte le vane opinioni di coloro che reputano inesistente una scena convincente nella nostra patria.
Tirando le somme dell’annata, tra alti e bassi, in sostanza la noia è lungi dal carpire gli animi dei blackster. Una situazione interessante (che è quella più sperimentale) ci mostra che il black metal ha piano piano smesso di prendere influenze da se stesso, carpendo frutti da altri alberi, alberi che qualche anno fa potevano anche essere impensabili ed inaccostabili; d'altro lato, i frangenti più estremi di altri generi musicali (come il drone, il post-hardcore) stanno prendendo dal black metal per espandere il proprio cosmo, creando piccole ma sostanziali realtà. Per quanto i famigerati combo scandinavi abbiano deluso molti di noi, questa perdita di fiducia nei “mostri sacri” la reputo una lezione di vita più che costruttiva: il nostro sguardo deve essere rivolto all’underground, alle nuove promettenti band che sole, immuni alle speculazioni delle grandi major, possono godere di quella libertà artistica propria delle origini del genere. Molti infatti tendono a dimenticare che il black metal -come vale per tutti i generi estremi- è nato dalla passione incondizionata e travolgente di pochi ragazzi che, con convinzione e perseveranza, hanno investito sulle proprie qualità, indifferenti alle richieste del mercato, creando loro stessi il proprio business, imponendosi sulla realtà delle cose che non apprezzavano per diventare i protagonisti di una scena estrema che prima nessuno avrebbe pensato capace di un’espansione planetaria delle dimensioni che oggi possiamo osservare. Poco importa dunque se alcuni degli stessi autori di questa sfida al mondo intero lanciata da adolescenti hanno dimenticato il valore, l’attitudine e la magia del black metal: l’attualità ci dimostra che l’old school continua ad insegnare, che sapendo muoversi con intelligenza e consapevolezza si possono individuare rare perle nere nel caos multiforme della scena contemporanea, farne tesoro e, mantenendosi sempre aperti a nuove sperimentazioni ed originali interpretazioni di ciò che è stato, scrivere ora, nel presente, la storia del futuro…
… la notte cala silente,
un altro anno è passato,
l’alba è ancora lontana a venire,
sapremo difenderci dalla luce,
perché l’oscurità permane nei nostri cuori…
DOOM
a cura di: Daniele Salvatelli “Born Too Late” e Gabriele Fagnani “Furio”
Ogni fine anno richiede immancabilmente un resoconto degli avvenimenti accorsi nelle nostre vite.
Indipendentemente dal fatto di poterlo considerare un periodo positivo o meno, ci mancherà sempre qualcosa; la vita è una continua ricerca di conoscenza che ha fine solamente con la morte.
La musica può essere una strada in questa ricerca, o semplicemente fungere da corollario; ad ogni modo il doom è il genere musicale che più rappresenta il tentativo di riconciliazione spirituale con sé stessi.
Un anno appena trascorso, un anno di doom; da qui parte la nostra analisi.
Il 2009 è stato certamente un’annata ricca dal mero lato numerico, tuttavia di pochi ed importantissimi ritorni, tra i quali trovano incontestabile collocazione i Candlemass ed i My Dying Bride. Se i primi con il loro Death Magic Doom hanno in parte deluso dal punto di vista del songwriting incentrando l’album su concetti troppo demagogici, i secondi hanno invece riaffermato il loro ruolo guida all’interno del genere con For Lies I Sire, che, seppure non ancora pienamente “carico”, segna un buon ritorno al passato re-introducendo vision dei tempi che furono (violino, ritmi alti su alcuni brani), purtroppo non pienamente sfruttate; le partiture troppo melodiche dei brani di punta ed un uso terribilmente elementare dell’archetto impediscono il perfezionamento dell’opera, che veleggia su risultati buoni ma non eccelsi. Diametralmente opposto il caso dei Candlemass la cui ridondanza nella fase creativa facilita una velocissima metabolizzazione dell’album che -in tal modo- pare meno inoffensivo di quello che realmente è, anche a causa dell’incomprensibile adiacenza al metal classico che ne alimenta le sonorità epiche e praticamente power: e questo è un peccato che difficilmente potranno riscattare.
Per fortuna che l’anno solare dei grandi vecchi non è passato invano:
Scott "Wino" Weinrich, con il progetto parallelo
Shrinebuilder (ma non solo), ha saputo nuovamente capitalizzare il proprio senso artistico con un platter (autotitolato) dalle caratteristiche eccezionali; un misto di doom classico, sludge e psichedelica che trova un significato sempre maggiore e sempre più intricato ogni ascolto vogliate dedicargli; è altresì chiaro che una brigata con
Al Cisneros,
Scott Kelly e
Dale Crover non poteva passare inosservata: il richiamo mediatico è comunque stato abbondantemente ripagato con un album tra i migliori degli ultimi 12 mesi. E se di mostri sacri si deve parlare, come astenersi dal ritornare, per l’ennesima volta sui 2 nomi più controversi del doom et similia,
Stephen O’Malley e
Greg Anderson, ovvero i
Sunn O))). Il loro
Monoliths & Dimensions è finalmente (molti direbbero “sfortunatamente”) un prodotto ordinato e vario che, pur senza essere canonico, dimostra la voglia del duo di superare (ed abbondantemente) il semplice drone; jazz libero, marzialità, atmosfera è ciò che offrono i
Sunn O))) del post-
Oracle: Dimenticatevi (per ora)
Figlht Of The Behemoth e date un nuovo significato al drone-doom.
Risultato assicurato.
Ma diamo un ordine ai pensieri ed alle parole: per non perdersi in un discorso sconclusionato tra la miriade di titoli che il mercato (anche esageratamente) mette a disposizione degli appassionati, affronteremo la questione seguendo la logica dei pur labili confini stilistici.
In campo extreme doom, substrato espropriato dal precedente 2008 dei nomi di maggior blasone, un’attesissima conferma sono stati i
Mournful Congregation con il loro
The June Frost che sorge quale lavoro definitivo di un combo idolatrato dai fruitori del genere più che dalla critica e dai risultati di vendita, evidentemente condizionati dal radicalismo della proposta; la band australiana, che non ha oramai più nulla da dimostrare riguardo alle proprie capacità compositive, ascende a lineup guida nel panorama funeral, assieme ai
Colosseum di
Palomaki che con
Chapter II: Numquam bissano il successo del loro album d’esordio, galleggiando ancora una volta in quel confine tra funeral e death/doom che li rende più unici che rari: i ritmi lentissimi ma potenti e le atmosfere da teatro degli orrori assicurano un carattere esclusivo all’album, apprezzato tanto per l’originalità non sovversiva, quanto per l’indiscutibile perizia esecutiva. Ulteriore conferma dello stato di salute della frangia più estrema del genere viene dal bellissimo
The Divinity Of Oceans degli
Ahab, un mastodontico concentrato di funeral abbellito da melodie chitarristiche dal sapore fortemente atmosferico; se da un lato
Droste e soci sono dunque scivolati in un doom meno eccessivo e inintelligibile di quello degli esordi, dall’altro è impossibile non registrare l’accresciuto valore artistico della release, che arriva in una seconda metà dell’anno stanca e poco attiva. Cocente invece la delusione per il nuovo lavoro firmato
Until Death Overtakes Me, apparso decisamente sottotono rispetto ai suoi magnifici predecessori sia per l’evidente frenata creativa, sia per l’inconcepibile decisione da parte del mastermind
Stijn Van Cauter di inserire nella tracklist di
Days Without Hope il rifacimento di brani storici già presenti nei primi due
Symphony; al contrario un deciso plauso va alla nuova opera dei canadesi
Longing For Dawn che con
Beetween Elation And Despair sembrano far rivivere i seminali
Thergothon il cui ricordo è oggi più vivo che mai grazie anche all’incredibile operazione “tributo” voluta dalla
Solitude Productions attraverso la compilation
Rising Of Yog-Sothoth: 17 formazioni per un doppio platter comprendente tutta la discografia dei maestri finlandesi, riproposta con cura ed attenzione stilistica dai grandi miti del doom moderno (
Volume I), nonché con interessanti licenze poetiche dagli interpreti più giovani e sperimentali (
Volume II). Da non sottovalutare la buona prestazione degli esordienti
Abstract Spirits, distinguibili dalla massa grazie alla fusione -nel proprio
Tragedy And Weeds- di atmosfere horror nelle consuete fondamenta del ultra slow doom, e dal rientro degli americani
Ea forieri di maggiori novità nel lato contenutistico (le lyrics rileggono in lingua arcaica testi sacri) di quanto non lo siano nell’aspetto meramente strumentale, definitivamente abbandonate le derive drone a favore di un funeral dai lineamenti più melodici (alla
Shape Of Despair, per intenderci). Infine grande soddisfazione per
Mikko Aspa (
Deathspell Omega) che, dopo anni di nobile underground e collaborazioni tra le più disparate in ambito ultra-slow (anche con i nostrani
Malasangre), giunge all’omonimo full-lenght d’esordio con i suoi mortuari
Stabat Mater.
Altra categorizzazione piuttosto magra in questo 2009 è stata quella dello storico doom/death a cui né il ritorno dei
Novembers Doom che, assuefatti in una formula anacronistica rispetto alle moderne tendenze deludono nuovamente con il loro
Into Night’s Requiem Infernal, né
Into The Light dei
The Prophecy, troppo chiuso ed estemporaneo in una materia ai limiti del prog, né ancora la comparsata dei “padroni”
Officium Triste, impegnati con la discutibile operazione
Charcoal Hearts - 15 Years of Hurt (1 solo inedito dal titolo
No Hope), ha saputo conferire la dovuta dignità. E se i grandi nomi non hanno impressionato, men che meno lo hanno fatto i meno conosciuti
Frailty, che con l’
EP 2009 hanno deviato la strada in un sound più vigoroso ma meno coinvolgente di quanto fatto in passato, i “vecchi” e compassati
Syrach, ancora una volta incapaci del grande salto qualitativo (
A Dark Burial soffre di indigeste derive death/thrash) ed i debuttanti
My Lament, e
Grieving Age, con dischi ai limiti della sufficienza e dunque poco più che trascurabili. Altre piccole (grandi) delusioni si chiamano
Burden Of Grief -
The 11th Hour- e
Perdition Calls -
Tales Of Dark…-: entrambi, eccezionali nel lato tecnico, nell’utilizzo dell’ingegneria del suono e nella realizzazione del packaging (rispettivamente curato dalla
Napalm Records e dalla
Solitude Productions), sono album traditori dal punto di vista emozionale: le tracce dei noti
Ed Warby e
Rogga Johansson sono scariche di tensione, troppo poco tristi, arrovellate e poco dirette, quelle dei serbi eccessivamente leziose e goticheggianti. Degne di menzione (ma nulla di più) la discreta prova dei cileni
Poema Arcanus -un doom/death canonico ma comunque godibile- e
Temple Of Guilt della one man band messicana
Majestic Downfall, dal risultato decisamente più accessibile nonostante l’approccio pretenziosamente extreme. Sconfinando via via nei territori melodici, bisogna citare quale grande sorpresa gli
Autumnia con il loro
O’Funeralia, miscela irresistibile di doom/death, malinconia e melodie strappalacrime, con cui gli ucraini hanno siglato uno dei lavori più rappresentativi dell’intero anno. Importanti ritorni sulle scene anche quelli degli svedesi
Swallow The Sun e degli americani
While Heaven Wept, entrambi fautori di due buoni album che segnano un po’ il punto di riferimento per l’approccio melodico contemporaneo alla materia. A ruota (di scorta) i
Nox Aurea di
Via Gnosis che appagheranno solo i fan incalliti dei taciturni
Draconian (& Company), scontentando al contrario tutti coloro che rifuggono da un certo deja-vu gothic-style.
Per quanto riguarda la frangia più tradizionalista del genere, è bello sapere che band come i
Count Raven sono ancora tra noi;
Mammons War è li a dimostrarcelo. La vecchia scuola del genere ci fornisce invece le ennesime buone prove di
Against Nature e
Revelation, creature della semi leggenda
Joe Brenner, oltre all’album solista dell’attivissimo
Scott “Wino” Weinrich, intitolato Punctuated Equilibrium. Importantissimo è il ritorno di una band di culto come gli
Iron Man, che con
I Have Returned riportano alle viscere di quel sound sabbatthiano che tanta strada ha fatto fino ai giorni nostri. Legate più all’epic e all’heavy metal classico sono invece le mezze delusioni di quest’anno: il prolisso e poco focalizzato
Silent Ruins degli
Isole, gli eterni incompiuti
Forsaken e gli onesti ma senza gloria
The Gates Of Slumber e
Spiritus Mortis.
Spostandosi invece su coordinate più stoner molti sono i lavori significativi usciti quest’anno, così come per lo sludge. Notevoli i nuovi di
Pombagira,
Ocean Chief,
Kongh e dei giapponesi
Church Of Misery; la vera sorpresa è però
Of Sound Mine dei giovani
Ancestors, band dedita ad uno stoner/doom sfociante in atmosfere pinkfloydiane e psichedeliche in chiave fresca ed originale: probabilmente il miglior album dell’anno. Altro lavoro interessante è
The Great Cessation degli
Yob, mentre passando allo sludge segnalerei le buone prove di
Minsk, con le loro colate psichedeliche di
With Echoes In The Movement Of Stone, e di
Ol’Scratch, con il benvoluto ed acclamato
The Sunless Citadel; detto ciò questa è stata decisamente l’annata dei
Baroness, che con il loro
Blue Record hanno imboccato la strada di un eclettismo sonoro invidiabile.
Per quanto riguarda il drone il 2009 è stato parco di uscite realmente indimenticabili, anche se buone notizie ci sono giunte da
Summon dei
Bloody Panda e dall’omonimo
Switchblade. Come già anticipato in apertura i seminali
Sunn O))), con
Monolith & Dimension sembrano aprirsi ad influenze esterne alla loro base rigidamente rumorista, mentre gli
Om di
Al Cisneros proseguono il loro personalissimo viaggio spirituale con un
God Is Good ai limiti della psichedelia. Ennesima delusione per la creatura di
Craig Pillard (
Methadrone) oramai nemmeno più ascrivibile nella sezione drone: il nuovo
Better Living (Through Chemistry) è un concentrato di sludge, atmospheric e darkwave ottantina che connota il risultato su geografie più soporifere che depressive.
In conclusione debbono necessariamente essere dedicate alcune righe alle uscite nostrane; in primis il 2009 è stato l’anno della definitiva consacrazione dei
Doomraiser, che con il loro
Erasing The Remembrance hanno realizzato un lavoro ultra competitivo e professionale; nel campo più estremo da segnalare le grandiose prove dei “cugini”
Arcana Coelestia (
Le Mirage De L’Ideal è uno dei dischi più interessanti del periodo) e
Urna, ancora un po’ criptici e molto vicini al depressive black; non di meno gli outsider
Black Oath, fautori di un EP horror/doom che ci riporta decisamente indietro nel tempo.
Il nostro resoconto è concluso; manca ancora qualcosa?
Rilassatevi, sarà sempre così…
… godetevi la musica.
Godetevi il doom!
GOTHIC
a cura di: Stefano Asti "Autumn"
Oramai siamo in una nuova era barocca, ne sono convinto. Le affinità tra la cultura del XVII secolo e la sensibilità del nostro tempo sono sotto i nostri occhi: gusto per la sperimentazione, stilismo sfrenato, necessità di profanare i templi consolidati, tripudio della fantasia come superamento delle frontiere della logica. Come il barocco con le sue ridondanze, i suoi moti sfrenati, le sue ricchezze compositive, intese di superare (solo superficialmente) i conflitti del Rinascimento, così oggi con la nostra realtà dominata dalle trasgressioni, dall'eccentricità, dalla predilizione per l'artificio cerchiamo, invano, di superare le inquietudini che ci lacerano, tormentati dalla consapevolezza che i drammi permarranno comunque nel mondo. Quale migliore espressione della musica se non il cosiddetto gothic potrebbe perciò farsi portavoce di quest'epoca neoseicentesca?
Il 2009 gotico si potrebbe dire che abbia sfoderato l'artiglieria pesante in quanto a nomi coinvolti nello scout delle uscite discografiche: un'annata importante, senza dubbio, che ha visto dissipare le mie preoccupazioni di cui al report dell'anno scorso (tendenza alla superficialità e ad un appiattimento generale verso la commercialità) grazie per l'appunto ai ritorni su disco dei mostri sacri del genere. Mostri sacri che se da una parte non hanno tradito il proprio nome, dall'altra hanno lasciato dietro di sé qualche strascico di critiche dovute non tanto alla bontà del prodotto quanto piuttosto alle scelte stilistiche intraprese. Non è comunque stato il caso dei The Gathering, i quali, grazie ad un delizioso disco (The West Pole) di delicato amalgama tra gothic ed alternative, hanno dimostrato l'emancipazione dall'illustre ex Anneke Van Giersbergen (la quale non può dire la stessa cosa visto lo scialbo solista In Your Room, segno di quanto fosse più lei a dipendere dagli ex compagni che non viceversa).
I
Lacrimosa rientrano invece nella definizione precedente in quanto con
Sehnsucht, una release un po' troppo avara di sentimento improntata sulla veemenza chitarristica e vocale, hanno dato alle stampe un disco noiosetto destinato a non rimanere negli annali del gruppo svizzero (pur nella consueta perfezione formale).
C'è poi stata la questione
Amorphis, una questione delicata:
Skyforger è un highlight di questo 2009, inutile negarlo; entrando nel soggettivo (e quando si parla di gothic non vi si può prescindere) la sua tendenza all'immediatezza e l'ammorbidimento generale dell'
Amorphis sound non mi hanno però convinto fino in fondo. De gustibus...
Su livelli di assoluta eccellenza si sono invece attestati i
Paradise Lost che con
Faith Divides Us – Death Unites Us hanno tirato fuori il loro disco migliore dai tempi di
Draconian Times: melodie, arrangiamenti e attitudine (a partire dal titolo...) veramente ai massimi livelli. Peccato che in ambito live non convincano ancora come converrebbe ad un gruppo della loro portata ma a questo giro ci accontentiamo.
L'autunno inoltrato ha portato il disco più atteso dai crepuscolari di mezzo mondo:
Night Is The New Day dei
Katatonia (dei quali è recente la notizia dell'abbandono da parte dei fratelli
Norrman) è stata la release che ha scatenato le discussioni più accese. Col senno di parecchi ascolti mi sento di dire che l'ultimo nato degli svedesi sia fondamentalmente un disco di transizione, di conseguenza disomogeneo ed in precario equilibrio tra ciò che sono stati e ciò che vorranno essere. Non eccelso ma comunque pregevole, da avere insomma.
Passando alle uscite non di cartello la tendenza qualitativa si è attestata su livelli medio/bassi:
Sirenia,
Silentium,
Dark The Suns,
69 Eyes, e la “sfida” a distanza
Theatre Of Tragedy/
Leaves' Eyes (dalla quale esce vincitore il discreto
Njord) hanno dimostrato quanto sia difficile emergere, senza idee ed un briciolo di personalità, in un genere oramai saturo di mediocrità.
Stessa cosa per quanto riguarda il mercato nazionale, dall'underground sì particolarmente florido ma incapace, fatte alcune eccezioni, di uscire dai lidi del qualunquismo goth. Un grande plauso va comunque alle etichette indipendenti nostrane: gli ottimi lavori di
In Tormentata Quiete,
Having Thin Moonshine,
Alight e
En Declin sono proprio il frutto della loro attenta ricerca.
Il 2009 è stato un anno mai così ricco di uscite importanti che ha dimostrato quanto il genere, a discapito di tutto (persino dei miei stessi presentimenti), abbia ancora parecchio da dire. Mi concedo perciò un “timido” ottimismo per il 2010.
Permettetemi però una tirata d'orecchie agli
Anathema, ossia un enigma non più silenzioso come una volta, che tra proclami e smentite sull'uscita del nuovo disco si sono meritati il titolo di gruppo “tante parole e niente fatti” dell'anno.
Ma dopotutto il gothic è anche questo. Per ritornare in metafora artistica, è un po' come alcune opere di
Cattelan: non è una bufala, ma una sofisticata squisitezza!
L'importante è capirlo.
ELETTRONICA
a cura di: Massimiliano Giaresti “Giasse”
Parlare di elettronica in uno spazio principalmente dedicato al metal non è certo facile o scontato; tuttavia, come è stato anticipato nell’introduzione, tutto ciò che serve a rendere migliore l’integrazione tra i generi, tra le persone, tra ciò che ruota attorno al mondo dell’estremo è benvenuto all’interno della Slow Blackness. È questo il motivo per cui, con grande tatto, circospezione e rispetto, anche noi di Metallized abbiamo iniziato ad esplorare il mondo più cupo ed ostracizzato della dancefloor. Tra l’altro, di esempi di contaminazione tra il rock/metal e l’EMB, la noise, l’industrial e perfino la dance ce ne sono (stati) a bizzeffe, anche in questo 2009: facilissimo segnalare gli Ad Inferna -che con il loro Trance ‘N Dance mischiano il black sinfonico all’harsh EBM più atmosferico-, i T3cn0ph0b1A (leggasi Grave New World) -la cui anima elettro-industrial pare prendere via via il sopravvento sul “quartetto base”, i Samael -che pure con l’ultimo e cattivissimo Above non si depurano dai contributi artificiali (sia percussivi sia armonici) ingegnerizzati da Xy- ed i Rammstein -la cui gloriosa storia non può prescindere dalla danzereccia malvagità di episodi alla Du Hast (tanto per fare l’esempio più evidente)-.
Ed addentrandosi in questo lucente (ed intermittente) vaso di Pandora si è ben presto scoperto che la nostalgia per gli anni passati è un vero must anche per quei generi che fanno della ricerca tecnologica la loro massima vocazione. Ciò mi convince sempre più che la sperimentazione è tale e vincente quando le possibilità sono limitate e dunque riservate a quei pochi talenti che ne sanno anticipare lo sviluppo e dunque la mercificazione. Con l’avvento della massima fruibilità tecnologica (e semantica) sono cresciute realtà di basso profilo che hanno affollato, deprimendola, tutta la scena; la riflessione si conclude verificando che anche i mostri sacri hanno perso lo smalto di un tempo, annegati in un mercato che crea cloni sterili a più non posso. È il caso dell’elettronica “leggera” in cui le uscite di
Depeche Mode,
Pet Shop Boys,
Clan Of Ximox e
VNV Nation oscillano tra la mediocrità e la sufficienza senza emozionare profondamente: e pensare che da una sfilza di nomi così ci si aspettava un terremoto mai concretizzatosi; il risultato più modesto è poi arrivato proprio da quel
Sounds Of The Universe che è piaciuto ai ciechi sostenitori di
Dave Gahan e compagni, scontentando tutti coloro che auspicavano un rientro dei
Depeche Mode in stile
Playing The Angel, ovvero ordinario ma pur sempre elegante e poco artificioso: in realtà
Sounds Of The Universe, tributo ad una space-view vecchia di oramai 20 anni e dunque repressa nello skyline contemporaneo, è servito solo a rendere possibile la programmazione di un tour mondiale che ha rivisitato (come spesso accade quando si è in parabola discendente) la lucente carriera della band britannica alimentando la grande nostalgia dei fan più lucidi. Sorte simile, sicuramente meglio gestita, per i fenomeni
Pet Shop Boys che con
Yes tornano a sentirsi (e a farsi sentire) grandi: un 10 tracce coinvolgente in cui i nostri non disdegnano di includere nella propria perfezione metrica (e sintetica) elementi “caldi” tratti dal pop inglese (non per forza “elettro”); è proprio in questo atteggiamento il triste destino che vede implodere anche loro: la spersonificazione! Come considerare compiuto (non dico perfetto) un disco della coppia
Tennant &
Lowe che non suona pienamente
Pet Shop Boys? Differente l’impatto di
In Love We Trust dei goticheggianti
Clan Of Ximox, per nulla disposti ad abbandonare quelle sonorità oniriche che li fecero grandi nei ‘90s; giocato sulle atmosfere care alla darkwave addizionate con una fitta presenza di elementi rock, il full è molto meno “sornione” di quanto non lo sia
Emily, singolo d’apertura e specchietto per le allodole rivolto ai meno avvezzi al genere; la carica creativa del combo olandese rimane soffocata sotto i molti autocitazionismi che producono un buon elettro-goth, soprattutto se confrontato con le fallimentari release di
Gothika e
Blutengel (con l’inutile EP
Soultaker), tuttavia facilmente “doppiato” da
Dream, Tiresias! dei
Project Pitchfork e soprattutto dall’ottimo
The Art Of Breaking Apart dei
Velvet Acid Christ la cui vena industrial si è mitigata per interiorizzare melodie e sensazioni tipiche della wave ottantiana, anche acustiche; album decisamente interessante, quest’ultimo. Chiudono la playlist dei nomi altisonanti i
VNV Nation che forgiano il loro settimo platter in un’ottica policroma:
Of Faith, Power And Glory si mostra commerciale, melodico e perfino dolce, alternando raramente elementi raviani e votati al mero body moving… anche la marzialità di alcuni brani non trova seguito nell’intera tracklist che dunque resta inoffensiva ed esageratamente eclettica. Esperimento appena sufficiente che sottende un fallimento per uno dei nomi più importanti del future-pop.
A questo punto citarli o non citarli? Far finta che non esistano oppure inserirli di merito nella classifica delle top-release elettroniche del 2009? Parliamo dei
The Prodigy, naturalmente, il trio che al termine degli anni ‘90 spopolò con il grandioso
The Fat Of The Land e che dopo 12 anni ed un solo altro lavoro (peraltro criticatissimo) torna a far musica eccelsa con il nuovo
Invaders Must Die, miscela di tecno, big-beat e rock che rilancia la band di
Howlet nel campo in cui è sempre stata padrona: la dance psichedelica. Originale? Per nulla! Spedito? Di brutto! Sincero? Pure!
Null’altro da dire: un buon ritorno.
Rimanendo nello spettro meno cupo e traslucido dell’arcobaleno, il 2009 ha marcato alcuni voti abbondantemente positivi: davanti a tutti i
Mesh che confezionano, forti di una carriera inossidabile, l’ennesimo faro synth-pop.
A Perfect Solution, seppur valido nei singoli episodi, convince nel continuum grazie all’alternanza tra il nuovo ed il vecchio modo di comporre del duo
Hockings/Silverthorn; emozionalità, tormento e vigore vengono filtrati nei canali energici e talvolta grezzi dei vecchi tempi. L’album necessita di pochissimi ascolti per prendere cervello e cuore e consegnarci una band che da anni rimane su livelli di costante eccellenza. A (non brevissima) distanza, con prodotti comunque superiori alla media, ruotano i
Liquid Divine, nome noto anche ai più intransigenti che con la maturazione inietta ossigeno e melodia nell’ultimo
Autophobia -solo sporadicamente orientato alle atmosfere soffocanti dei vari predecessori- ed i
Patenbrigade:Wolff di
Baustoff [Popmusik Für Rohrleger] il cui sound secco, minimale e robotico -perfettamente allineato all’iconografia che li vede “intutati” e tutti arancioni- confligge più volte con la vorticosa tranquillità dei tanti passaggi femminini; qualche brano che sa di filler rovina una tracklist altrimenti impareggiabile. Un cenno di favore anche nei confronti dei nostrani
Halo Effect che, nonostante l’autoproduzione, sfornano un
The Fourth Zone sincero ed apprezzatissimo, e verso gli svedesi
Spark! che, firmatari del nuovo
Ett Lejon I Dig, danno una sferzata di spensierata allegria alla scena. Tra le bocciature gli immortali
Die Form, che stavolta deludono con l’indigesto e pacchiano
Noir Magnetique, i giovani industrialer
Combichrist, alle prese con il noiosissimo
Today We Are All Demons il cui unico pregio è stato quello di aver permesso al combo americano di accompagnare i
Rammstein nell’appena concluso European Tour 2009, ed i
[:SITD:], incapaci con l’inoffensivo
Rot di prodigarsi nella grande svolta ed -anzi- peggiorati per mano dei synth altisonanti ma ripetitivi e della voce piatta ed innocua di
Jacek. Da collocare ad un livello ancora inferiore l’inconcepibile
Rocket Science dei maestri (che furono)
Apoptigma Berzerk il cui giudizio non può che essere “rassegnato”: stretto tra episodi simil
Green Day (
Asleep or Awake?) e
The Killers (
Green Queen) remixati, il platter sconfina risolutivamente in un sound rock-based -condito con sgradevoli sintetizzatori- in luogo di quell’atteggiamento elettro-style (anche dal lato compositivo) da sempre perpetrato. Pessima l’idea e pessimo il risultato, anche per l’evidente incapacità di gestire la materia: null’altro che l’ombra della grande band generò il movimento EBM negli anni ’80 e che successivamente dominò il future-pop assieme ai colleghi
Covenant e
VNV Nation.
Prima di passare oltre va isolato un contributo alla scena molto importante, per merito passato e presente: quello degli italo-teutonici
Kirlian Camera. Geniali per anni, con
Shadow Mission Held V faticano a colpire pur rimanendo assolutamente riconoscibili e personali; l’album, che prescinde dalle ignoranti programmazioni del sequencer presenti nei mediocri sottoprodotti mitteleuropei, si basa su ritmiche incalzanti e synth acidi a costruire le ambientazioni (anche melodiche) su cui la splendida voce di
Elena Alice Fossi può performarsi. Non siamo all’apice della carriera tuttavia, volendosi liberare della monotonia di un certo elettro-industrial,
Shadow Mission Held V può fare la sua parte.
Volgiamo ora lo sguardo verso la fetta dura della torta elettronica. Puntuali come sempre, ma oramai svuotati della cattiveria dei grandi successi, troviamo i
:Wumpscut:.
Fuckit abbandona infatti la furia cieca dei vari
Bunkertor 7 ed
Embryodead per interpretare un sound orrorifico, dardeggiante e quasi vampirico; vocoder non eccessivo e ritmi pacati si mischiano ai suoni cristallini e marcatamente elettronici che mantengono invariato il fitto clima “germanico” da sempre marchio di fabbrica dei
:Wumpscut:. La stessa forma canzone diventa meno ripetitiva ed i loop si inseriscono in un’architettura leggibile dalla massa e non solo dai grandi appassionati. Album che ha fatto storcere il naso ai puristi dell’EBM ma che si propone come ottima via mediana tra il synth-pop atmosferico e l’harsh più violento. Da un album atteso ma controverso all’altro: i
Grendel dell’EP
Chemicals + Circuitry sfornano un concentrato di invidiabile “equilibrio”; EBM intelligente, incalzante ed allo stesso tempo melodico che buca le orecchie in un istante grazie a giri pungenti e vocalism acido ma non rovinato dalle distorsioni; l’evoluzione del trio è evidente e meritevole di concorrere alla palma d’oro dell’anno: i
Grendel si allontanano dalle centinaia di gruppi harsh di cui sono stati comunque parte e la cui distanza è giustificata dalla sperimentazione. Se con i
:Wumpscut: è lecita qualche riserva, con i
Grendel ogni dubbio va sciolto:
Chemicals + Circuitry è una delle uscite dell’anno. Altra top release è certamente
Anonymous dei
Tyske Ludder. Tutt’altro che “anonimo”, il lavoro degli ennesimi tedeschi esplode in una cattiveria intrinseca e personale, generata dalle ricerche metriche -mai banali-, dalle tonalità extra-basse su cui sono registrati i generatori e da un cantato impostato su di un registro al contempo profondo e liquido che lo rende claustrofobico ma ascoltabile. Il disco propone anche una contaminazione con la musica tradizionale (leggasi cornamuse) che destabilizza la tracklist senza snaturarla completamente: l’esperimento, tutt’altro che esclusivo in terra germanica, si avvicina a quanto già proposto dai conterranei
Tanzwut (derivazione elettronica della medieval band
Corvus Corax) e si configura quale simpatico valore aggiunto. Molto meno clamoroso il terzo album dei
Chaos/Order intitolato
Significance Of Blood, ancora forzatamente intasato in una sperimentazione che oscilla tra la trance, la techno e l’EBM e che fatica a divenire spontanea, immediata; peccato perché la ricerca dei romani è evidente e molto profonda: si va dal ritualismo ai suoni futuristici; l’approccio vocale, sia timbrico sia metrico, è allucinante e direttamente proveniente da mondi lontani, alieni, trascendenti.
Significance Of Blood è un intreccio di fisicità e metafisica -difficile ed esclusivo- e dunque non pienamente ficcante. Rimanendo (in parte) nel belpaese impossibile non provare la furia degli
Alien Vampires, fautori di un harsh impareggiabile dal lato della mera spietatezza:
Fuck Off And Die è un album perfido, morboso e velocissimo; perfetto per comprendere quanto “metallico” possa suonare un lavoro elettronico. Gli italo-britannici sono una certezza che non fallisce, nemmeno in un 2009 avido di picchi. Meno riuscite le release dei
Rabia Sorda (da nominare quantomeno per l’importanza del moniker) e dei promettenti
[x] di
Rx, entrambi episodi che -senza peculiari qualità- confermano solo la grande stanca che avvolge il mondo dell’elettronica estrema.
In verità, in verità vi dico che di nomi sentiti, letti e ascoltati in un battibaleno ce ne sarebbero a bizzeffe. Ma la nostra tappa termina qui, contestualmente ai limiti “genetici” e culturali di cui siamo consapevoli; il viaggio continuerà invece nel 2010: nuove esplorazioni, nuove cognizioni, nuovi convincimenti. Il tutto per capire come e quanto la musica sia universale. Classica, metal, pop…
… e perché no…
elettronica!