Ma una band con un nome del genere che tipo di musica poteva elargire a noi umili ascoltatori? Ovviamente hard rock, ma che domande… I “Duri” sono un gruppo multietnico, una vera e propria fusione di stili e origini diversissime tra loro, un combo assemblato da una forte base ungherese (?) e un cantante svedese; mix perlomeno bizzarro. In relazione all'uscita dell'album Traveller, avvenuta un biennio fa, il frontman Zoltan Batky-Valentin rappresentava un punto debole della catena produttiva, probabilmente il focus maggiore di discussione che esalava sensazioni musicali non proprio eccellenti. Fatto sta che in questo secondo lavoro da studio, le partiture vocali sono state avocate al singer originario e delegate allo storico singer dei Baltimoore, Björn Lodin, il quale non si è accontentato di divenire il nuovo punto di riferimento del quintetto ma ha registrato, mixato e prodotto questo Time Is Waiting For No One. Grazie al precedente album gli ungheresi hanno goduto di buonissime recensioni su vari magazine storici: Metal Hammer, Burrn!, Fireworks, Hardline, Powerplay, i quali li hanno incensati come band di sicuro avvenire fautrice di un hard permeato di melodia con sfumature AOR. Con il loro secondo debutto, invece, l’orizzonte è leggermente mutato, proponendo sempre una matrice hard che attinge con costanza a sonorità più volutamente bluesy senza scalfire la vena melodica già sciorinata in passato. Il tutto va ascritto, senza alcun velo di dubbio, al nuovo produttore chitarrista e cantante, che, dall’alto della sua veterana esperienza nel rock, ha guidato i mangiatori di gulash verso approdi più stabili e di prospettiva, almeno in teoria. La copertina, davvero brutta, non ispira nessun sentimento, ma un prodotto non può essere solo giudicato dalla sleeve, anche se per me è sempre importante, molto importante. Se arrivi da terra non esattamente celebre in ambiti metal, beh, cerca almeno di conquistare una fetta di pubblico anche grazie ad un po’ di estetica, invece nulla. Vabbè. Dopo un paio di album pubblicati solo in patria e cantati in lingua madre, qualche buon riscontro estero e la sponsorizzazione di Beau Hill, producer di fama mondiale e talent scout dal fiuto innato, (tra i suoi assistiti in passato gli ottimi Ratt) il gruppo magiaro ha deciso di far sul serio, confrontandosi con la realtà internazionale. E permettetemi di dire ahia.
Titletrack che sgomma, voce un po’ strozzata, chitarre che abbondano e si segnalano per un costante muro sonoro, citato tutto ciò, mi sarei atteso un inizio più esplosivo nonostante un buon solismo delle due asce. Nuvole nere sul secondo pezzo: sa di insalata russa buttata lì, e non è proprio un bel complimento, avanzi di Scorpions, Krokus, e metal nordico frullati alla rinfusa, nulla di che, già udito tante, troppe volte; Lonesome Loneliness è caratterizzata dalla voce matura e corposa ma che sa uscire dal tunnel e ogni tanto affrescare le partiture musicali. Spunta un hammond e io applaudo, cosiccome al solo lamentoso delle sei corde, tutto molto Deep Purple ma molto ben messo in pista. Finalmente un punto a favore del combo. Love Goes With Anything è acustica, quindi una ballad, che parte con una chitarra banalotta, come tutto il percorso dello scheletrato, si salvano i cori doppiati, l’intervento chitarristico e una voce pura e aperta senza forzature, il resto è rimandato agli esami di riparazione di fine estate. Canzone numero cinque: Magical Pretende. Non ci siamo proprio, qui non c’è nulla che valga la pena di essere ascoltato, non perdete 3 minuti e mezzo della vostra vita per star dietro a questo surplus, mentre una sorta di Volo del Calabrone, intenso ed efficace per stimolare la fantasia e il senso del ritmo, pervade sin da subito Into The Fire che ha in sé, nella chitarra ossessionante, gli Iron Maiden e il fantasma dei Deep Purple nello sgabuzzino delle scope: però una sagace composizione, la migliore del disco, in assoluto. Adrenalinica, tenace e arrogante, ma bella bella. Tutti i recensori europei si sono divertiti a definire la voce di Bjorn Lodin, spacciandola per un incrocio tra Rod Steward e Marc Storace dei Krokus, su Storace sono d’accordo ma associo anche qualche pennata di colore di Klaus Meine e Claus Lessman dei Bonfire. Emiballad, tempo di The Pace And The Flow che traccheggia a centrocampo per un minuto e poi spara schegge elettriche che trasformano anche le vocalità, andirivieni di ritmi e tempi e condizioni hard rock che però non fanno gridare Allelujah nonostante un palese gusto americano nell’uso delle armonie vocali e della chitarra che sa di praterie e di whisky, unto da minuterie Aor. Discreta, niente di più. My Kind Of Woman è bruttina forte, tipo figlia di Fantozzi, Nona, invece, sfoggia armonie western style e lievita bene durante il suo percorso, finalmente una bella riuscita in un album arido di sensazioni positive e di amore cosmico per questa musica. Attacco frontale per Shine On Me Now che avrei visto di buon occhio come track d’apertura giusto per dare un’oncia di verve ad un inizio fortemente anemico: non che questa traccia sia panacea di tutti i mali contenuti in T.I.W. F. N.O. ma almeno giochicchia con certi stilemi brasati dal tempo e ne ripesca qualcuno che si fa ascoltare; assolo bello con una chitarra che stuzzica al contrario dei cori particolarmente irritanti. Siamo alla fine e Four-Leaf Clover si spalma di nuovo su chitarre a dodici corde e sforna qualche minuto di discreto intrattenimento.
Si stoppa la musica e di certo non mi strappo gli anelli dalla dita dalla goduria, insomma un lavoro di Hard Rock che mi attendevo su standard qualitativi estremamente più alti, l’ennesima prova che il marketing delle label è sempre arma funzionante almeno per incuriosire l’ascoltatore. Per completezza devo aggiungere che Thomas Larsson - lead guitar e Orjan Fernkvist al Hammond completano il roster di musicisti presenti in studio: certo che con tante forze messe in campo era lecito pretendere molto di più. Le emozioni sono poche, i pezzi che fanno sobbalzare latitano, c’è tanto mestiere, qualche trovata, tanto già sentito, una produzione discreta, ma è proprio la band a non avere assi in mano, basterebbe anche una doppia coppia al jack per far tremolare un po’ le gambe, invece niente. Per usare una metafora, gli Hard stanno bene nella bill di un megafestival estivo al sesto-settimo posto, quelli che suonano con la luce del giorno e la maggior parte del pubblico è al bar a farsi una birra con coppie di metallari che amoreggiano appartate e qualcuno che dorme stanco per il viaggio alle spalle. A meno di clamorose inversioni di rotta questo connubio svedo-ungherese è destinato a star distante dalla luce dei grandi riflettori, perché non primeggeranno mai. Time Is Waiting For No One si propone come un disco con pochi sviluppi di qualità e spunti riusciti, a me personalmente spiace bastonare in sede di recensione ma questo lavoro ha ben poche cose degne di nota. Di hard c’è solo la barba che cresce ad ascoltarli…
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