Molta era l’attesa per il secondo film di Robert Eggers, autore del celebratissimo The Witch – A New England’s Folktale del 2015, un horror atmosferico che era molto piaciuto anche a noi. Uscito quattro anni dopo l’esordio, sempre per conto dell’eccezionale A24, The Lighthouse batte sentieri orrorifici per certi versi affini a quelli della pellicola precedente, e ne riprende anche due temi portanti, intrecciati tra loro: la follia e l’isolamento. A questi viene affiancato un folto substrato di riferimenti e citazioni, oltre che una fortissima componente estetica.
TRAMA L’ambientazione e il cast sono ridotti ai minimi termini. Un’isola sassosa sperduta in mezzo al mare, una baracca, un faro e due personaggi bastano a Eggers per raccontare la sua storia. Siamo alla fine dell’Ottocento, da qualche parte al largo delle coste del New England. Il taciturno Ephraim Winslow sbarca in cerca di un lavoro ben pagato, assistere per le seguenti quattro settimane il vecchio guardiano del faro, Thomas Wake. Autoritario ed esigente, questi affibbia a Winslow i lavori più ingrati e faticosi, mentre lui si occupa di una sola mansione: montare sul faro per manovrare la lanterna. Il protagonista non tarda a rendersi conto che qualcosa di torbido accade ogni notte sulla torre, anche perché il vecchio gli vieta l’accesso alla cima. La luce diventa così oggetto di desiderio e ossessione per Winslow, progressivamente testimone di strani fenomeni allucinatori e presagi nefasti. L’arrivo di una forte tempesta gli impedisce di lasciare l’isola al termine del suo mandato e fa precipitare definitivamente la situazione, non senza qualche colpo di scena.
Una storia all’apparenza semplice, che trae da questa semplicità i suoi punti forti, su tutti la capacità di appassionare lo spettatore senza mostrare praticamente nulla. Bastano infatti pochi brevi spunti visivi per tessere un’atmosfera opprimente e allucinata. Il film si mantiene sul filo dell’ambiguità, alimentando il seme del dubbio fino ad affievolire la differenza tra le vicende reali e quello che succede nella mente del protagonista, come era anche il caso in The Witch. Siamo quindi di fronte a un’allucinazione paradossalmente poco “visiva”, ma cerebrale, indotta specialmente dall’atmosfera e dalla dimensione sonora. L’audio gioca infatti un ruolo fondamentale. Ancor più che la musica propriamente detta, discreta e spesso stridente, sono i suoni ambientali a fare la differenza: il rumore ripetitivo e continuo della sirena da nebbia, del vento, della pioggia e della risacca contribuiscono fortemente a instaurare un clima ossessivo e a comunicare un certo malessere allo spettatore. Citiamo anche la fotografia, algida ed estetica, e soprattutto la prestazione maiuscola degli attori. Nei panni del vecchio guardiano troviamo un ottimo Willem Dafoe, mentre il giovane aiutante è interpretato da un Robert Pattinson visibilmente intenzionato a togliersi di dosso l’ingombrante immagine di vampiro di Twilight a colpi di film impegnati. Un compito che, a giudicare dalla sua prova, gli riesce egregiamente. Meritevole anche la scrittura dei dialoghi in un registro piuttosto arcaico, che aggiunge fascino al film ma non ne facilita la visione in lingua originale.
Una marea di riferimenti Come anticipato, nel film sono presenti molti riferimenti. Se ignorarli non ne sminuisce in alcun modo la visione, identificarli aggiunge sicuramente qualcosa in più all’esperienza. Dal punto di vista formale, The Lighthouse pullula di richiami cinematografici: l’ambientazione insulare e bucolica, la curatissima fotografia e l’uso del bianco e nero fanno immediatamente pensare alle opere del regista svedese Ingmar Bergman. La dimensione cromatica, il particolare b/n tendente al seppia, richiama alla mente l’espressionismo tedesco degli anni ’20 e ‘30, una fonte d’ispirazione riscontrabile anche negli ambienti molto cupi e nelle inquadrature dei personaggi, spesso ripresi dal basso verso l’alto con un effetto deformante. Realizzato su pellicola, il film si avvale di un rapporto d’aspetto di 1.19:1, usato brevemente proprio durante quel periodo, e che rende l’immagine praticamente quadrata.
Per quanto riguarda il contenuto, il riferimento più diretto è quello alla mitologia greca. I richiami al mito di Prometeo e alla figura della sirena, il cui canto porta follia e morte, sono più che evidenti. Forse meno diretto, ma ugualmente presente, anche l’ammiccamento a Proteo, divinità dei mari, oracolo e mutaforma. Per non rovinare la visione del film, è meglio non scendere in ulteriori dettagli. A questi riferimenti mitologici, il regista aggiunge anche uno strato di leggende e superstizioni marinare, fatte di gabbiani, anime dei marinai morti e mostri marini evocate nei racconti e nelle credenze del vecchio Wake.
Rispetto al debutto, relativamente classico, Robert Eggers firma un film decisamente più ricercato e impostato. L’estetismo totalizzante di ogni inquadratura, così come la stessa vicenda raccontata, rendono il film cerebrale e impegnativo. Malgrado ciò, il regista riesce a evitare l’esercizio di stile fino a sé stesso, così come una vuota successione di citazioni saccentemente intellettuali. Si tratta comunque di film non per tutti i gusti, per di più volutamente lento e esigente. Vale però la pena metabolizzare questo linguaggio cinematografico così lontano da quello che domina oggigiorno. In cambio di una trama forse meno fluida, The Lighthouse ci regala delle immagini scultoree e impressionanti, al servizio di una storia torbida, appassionante e affascinante.
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