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19/09/24
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ARCI BELLEZZA - MILANO
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Alice Cooper - Lace and Whiskey
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31/08/2024
( 525 letture )
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Alla data odierna, dopo quasi 50 anni da quei tempi, forse solo i fan più accaniti di Alice Cooper si ricordano bene delle sue produzioni degli ultimi anni’70. Probabilmente egli stesso ha ricordi piuttosto “annebbiati”, per così dire, di quegli anni e di quei lavori: a partire dal 1976 l’alcolismo, presente da anni nella vita del nostro, inizia a prendere una piega significativa. Non è più solo un vezzo da star decadente, ma diventa una parte purtroppo sempre più importante della sua vita. Il cantante non ha ancora raggiunto la piena consapevolezza di avere un grosso problema da gestire (lo maturerà solo anni dopo), ma la cosa inizia ad essere evidente per coloro che gli stanno vicino, sia dal punto di vista familiare sia da quello professionale. Alice Cooper cerca di superare il problema, seguendo chi gli suggerisce di concentrare le sue energie anche sulla sua arte invece che solo sul bere, e si mette dunque all’opera per dare vita al suo terzo album solista a tutti gli effetti. Se infatti gli restano accanto ancora alcuni dei suoi musicisti storici, è infatti indubbio che, a partire da Welcome To My Nightmare del 1975 la sua è una carriera da solista a tutti gli effetti. Per proseguirla, mantenendo la componente visuale e narrativa che per lui è, e sarà sempre, fondamentale, decide di creare un nuovo personaggio, Maurice Escargot, un detective privato alcolizzato –ma va?– che sembra uscito direttamente da un romanzo di Raymond Chandler. Come accennato, il nucleo della squadra di lavoro storica rimane invariato, con Bob Ezrin in consolle di regia, la coppia Wagner/Hunter alle chitarre e una sezione ritmica di session men composta da Bob Babbitt al basso e Allan Schwatzberg alla batteria, più altre collaborazioni di pregio fra cui spicca Tony Levin al basso in tre brani.
Lace And Whiskey è un disco strano e spiazzante, che risente in maniera evidente delle fluttuazioni umorali del nostro, dovute al suo problema e, ancora più del solito, sembra voler sparigliare le carte sul tavolo con una formula musicale totalmente anarchica, che unisce hard rock, musical, rockabilly anni ‘60 con le divagazioni sinfoniche tipiche di Ezrin, creando un risultato ibrido che lascia stupiti e non sempre in senso positivo. Intendiamoci, la classe cristallina del nostro non è scomparsa e ne sono esempio una manciata di brani sicuramente positivi, come la graffiante opener It’s Hot Tonight, la brillante Road Rats (dedicata ai suoi roadies), la valida title-track oppure la coinvolgente cover di Ubangi Stomp, originaria degli anni ’50 e interpretata, fra gli altri, anche da Jerry Lee Lewis. È indubbio, tuttavia, che altri pezzi siano ben lungi dal centrare il bersaglio voluto, a partire dalla smielata ballad You And Me, fino ad arrivare a (No More) Love At Your Convenience, brano che, nelle intenzioni, doveva essere una sorta di satira della musica disco di quegli anni, ma che, nei fatti, sembra niente altro che una copia non riuscita degli ABBA. Anche la produzione di Bob Ezrin risulta molto meno efficace delle precedenti opere: i suoi arrangiamenti, che avevano reso indimenticabile un disco come Welcome To My Nightmare, sembrano qui –non sempre, ma spesso– orchestrazioni tronfie e superflue, quasi a voler sottolineare il declino artistico di Alice Cooper. Esempio perfetto I Never Wrote This Song: ballad malinconica che con un arrangiamento meno barocco e prolisso sarebbe stata assai più godibile, ma che così stufa già a metà brano. In mezzo –anche se non si sa bene a cosa, tanto sono indefinibili– ecco i due pezzi più stravaganti del disco: possono essere capolavori per qualcuno, inascoltabili per altri, ma è indubbio che solo un artista assoluto e particolarissimo come Alice Cooper avrebbe potuto produrli. Da una parte abbiamo King of the Silver Screen, un brano dove sono contenute il rock, le sonorità da musical, la vena teatrale di Alice e il gusto speciale di Ezrin per gli arrangiamenti spiazzanti e scioccanti, trovando non si sa come un equilibrio tanto particolare quanto riuscito, pari a certi brani dei Queen più avanguardisti. Dall’altra abbiamo la conclusiva My God, un brano epico e corale, anch’esso dominato dagli arrangiamenti pomposi e classicheggianti, che nelle mani di chiunque altro –o quasi– sarebbe diventato una pacchianata colossale, ma che gestito dalla voce unica e inconfondibile di Alice riesce a rilasciare brividi ed emozioni.
È sufficiente tutto questo per fare di Lace And Whiskey un capolavoro? No: il calo rispetto alle prove precedenti c’è comunque e, viste le condizioni in cui fu composto e registrato, sarebbe potuto uscire anche peggio. Tuttavia, è sempre un disco complessivamente godibile, e accettabile rispetto alla fama e alle doti compositive di Alice Cooper. La critica e il pubblico, in ogni caso, si accorsero delle difficoltà, e non apprezzarono molto all’epoca della sua uscita. Alice inizia, con questo lavoro, la sua “traversata nel deserto” nei meandri dell’alcolismo e delle dipendenze, che non lo molleranno sino quasi alla metà del decennio successivo; non a caso, i brani di questo disco e di quelli immediatamente successivi, non sono praticamente mai stati riproposti dal vivo nel corso dell’ultimo trentennio, ad ulteriore conferma della volontà del cantante di cancellare ogni ricordo di questo periodo tumultuoso e caotico della sua vita e della sua carriera.
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4
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io trovo un richiamo netto tra questo e muscle of love. Strano che non fossero in sequenza. Welcome musicalmente mi sembra molto più il seguito di billion dollar babies e goes to hell il seguito del presente lace. comunque questi fino a form the inside ed eccetto i primi due (pretties for you e easy action) sono tutti il melgio che ha da offrire e offrià alice in carriera (con spunti di sicuro interesse tra trash e dirty diamonds) |
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3
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Mi permetto di dire che dei suoi dischi migliori degli anni 70 chiunque sia un suo fan li conosci e se li ricorda quindi non é roba solo per chi ne ha 70 o 60 altroché 50.... di sicuro questo non é tra i suoi album più famosi ma ha dei buonissimi pezzi. Quelli che travagliati e più dimenticati sono i primi anni 80.
Personalmente il suo periodo che preferisco é quello più tamarro e Glam Metal che va dal 1986 al 1992 anche se personalmente l\'ho scoperto (per motivi anagrafici) con Brutal Planet.
Uno dei miei artisti preferiti! |
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2
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A me questo è sempre piaciuto. Certo non è Welcome to my Nightmare o From the Inside, rispetto ai quali mancano gli spunti (o i brani) capaci di trasformare un album da buono a eccezionale. Inizia in maniera canonica poi si fa via via piu stravagante, forse un po’ troppo magari, ma alla fine Alice Cooper stravagante lo è sempre stato. Ciò non toglie che qua e là spuntino fuori ottimi pezzi, come l’opener It’s Hot Tonight, la conclusiva My God o la divertente Damned If You Do. Alzo il voto. 79 |
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1
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Un buon disco con alcuni grandi pezzi. Mi trovo d\'accordo con la recensione. Forse sotto Goes to hell, ma superiore a muscle. Un 70 ci sta. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. It’s Hot Tonight 2. Lace and Whiskey 3. Road Rats 4. Damned If You Do 5. You and Me 6. King of the Silver Screen 7. Ubangi Stomp 8. (No More) Love at Your Convenience 9. I Never Wrote Those Songs 10. My God
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Line Up
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Alice Cooper (Voce) Dick Wagner (Chitarra, Voce) Steve Hunter (Chitarra) Jozef Chirowski (Tastiera) Bob Babbitt (Basso) Tony Levin (Basso nelle tracce 2,4,7) John Prakash (Basso nella traccia 3) Allan Schwartzberg (Batteria) Jim Gordon (Batteria nelle tracce 3,4,5)
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