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26/04/25
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Alice Cooper - Flush the Fashion
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16/11/2024
( 644 letture )
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Quando fa il suo ingresso negli anni ’80, Alice Cooper è, a tutti gli effetti, pericolosamente sull’orlo del baratro. Lo è in primo luogo dal punto di vista sanitario: il suo stato di salute, sia psichico sia strettamente fisico, è drammaticamente minato dal demone dell’alcolismo, nel quale purtroppo è pesantemente ricaduto, dopo la breve parentesi di disintossicazione nella quale aveva prodotto il validissimo From the Inside del 1978. Ma sembra a tutti gli effetti esserlo anche dal punto di vista musicale ed artistico: completamente abulico e svogliato, pare aver perso ogni barlume d’ispirazione. Alice però non è da solo: rimane conosciuto ed amato, da molti anche all’interno dello spietato music business e qualcuno si muove per cercare di aiutarlo a riprendere in mano la propria carriera. Fra questi, c’è un nome particolarmente importante: Roy Thomas Baker, produttore discografico britannico, che rimarrà per sempre legato alla sua collaborazione con i Queen, dagli esordi sino al masterpiece assoluto A Night at the Opera (e anche dopo). Completamente assorbito e conquistato dai "nuovi suoni" che stanno nascendo in quegli anni, figli della new wave, robotici, infarciti di sintetizzatori e spogliati degli orpelli barocchi della decade appena conclusa, Baker è convinto che questo stile, sebbene così distante da quanto da lui prodotto negli anni ’70, possa perfettamente legarsi al talento camaleontico di Alice Cooper, capace di adattarsi come pochi a qualsiasi influenza e ad ogni genere musicale; cosa peraltro appena dimostrata da Alice nella "svolta pop" che ha caratterizzato il precedente album. Con l’appoggio ed il sostegno della casa discografica, e il talento di alcuni musicisti già al fianco di Cooper, fra cui Davey Johnston e Fred Mandel, riesce a coinvolgere il nostro nella realizzazione di un nuovo album, caratterizzato proprio da uno stile tipicamente ’80.
Tuttavia, rispetto al recentissimo passato, c’è una differenza fondamentale: mentre il disco del 1978 vedeva un Alice Cooper rinvigorito, convinto e coinvolto al 110% nella svolta stilistica in corso e quindi capace di utilizzare al meglio il suo talento e le sue risorse per trasformarsi ed evolversi in modo efficace, il Vincent Damon Furnier del 1980 è a malapena in grado di portare a termine le giornate senza stramazzare al suolo ed è quindi abulico e assai meno partecipe del nuovo progetto. Detto in maniera semplice: Flush the Fashion è molto più un album di Roy Thomas Baker, con Alice Cooper alla voce, che un autentico disco del nostro, che pare quasi, in certi frangenti, una sorta di "cantante in prestito" su una band e una musica, che con lui c’entra fino ad un certo punto. Si tratta, a tutti gli effetti, di un album strano, dall’approccio "futurista", in cui le sonorità new wave volute da Baker cercano di fondersi con lo stile tipico di Alice; ma quasi mai ci riescono in pieno. Forse consapevole del rischio in corso, i pezzi scelti dal produttore come singoli di lancio sono due cover: la prima Talk Talk, è un brano dei The Music Machine, che però non riesce ad entusiasmare, mentre la seconda Clones (We’re All) è un ottimo esempio degli stilemi di questo progetto. Robotico, quadrato e sintetico, con un testo che parla di spersonalizzazione, si rivela un tentativo estremo di modernizzazione, paragonabile, nello "stacco" rispetto al passato, a quello che lo stesso cantante porterà a termine, con risultati enormemente più validi, venti anni dopo in Brutal Planet. Il resto del disco viaggia su binari altalenanti: ci sono alcuni pezzi riusciti (Pain, una ballad valida e ispirata, Grim Facts che presenta un ottimo lavoro di chitarra ad opera di Davey Johnstone, Dance Yourself To Death che risulta un brano solido e tutto sommato piacevole) ma non mancano passaggi a vuoto significativi (la spiazzante Leather Boots, le divertenti ma poco significative Aspirin Damage e Model Citizen e la scontata e banale Nuclear Infected).
Ciò che manca davvero a Flush the Fashion, non è la squadra di produttori ed esecutori o un progetto musicale definito; ciò che manca è, lo ripetiamo, lo stesso Alice. Che sia per le condizioni di salute precarie –probabile– o per una fiducia non completa nel nuovo corso artistico, il cantante, in questo lavoro, sembra essere poco più di un session man: si limita a cantare le sue parti, partecipa pochissimo al processo di scrittura (pur essendo accreditato come co-autore in tutti i brani inediti) e solo in alcuni momenti di ispirazione riesce ad apporre il proprio inconfondibile marchio di fabbrica su quanto prodotto dalle esperte mani di Baker. Aggiungiamo a questo un songwriting ben lontano dall’eccellenza raggiunta in molte altre occasioni, ed ecco che Flush the Fashion appare la classica occasione mancata; aspetto emerso fin da subito, con risultati di pubblico e di critica non esaltanti.
A peggiorare ulteriormente la situazione, ma su questo né Cooper né il produttore ci possono nulla, si aggiunga il fatto che, alle orecchie degli ascoltatori di oggi, proprio i suoni allora innovativi e dirompenti della new wave di inizio anni ’80 risultano essere drammaticamente obsoleti e superati, molto di più di quelli delle due decadi precedenti. Il risultato è che, oggi, Flush the Fashion appare, pur non essendo in senso stretto un album brutto o scadente, assai invecchiato, molto più e molto peggio, rispetto agli album che lo hanno temporalmente preceduto nella carriera di Alice Cooper. Carriera che, malgrado i tentativi di risollevarsi, è destinata a rimanere invischiata nei demoni dell’alcol e dell’autodistruzione ancora per alcuni anni, prima della ripresa della seconda metà degli anni ’80.
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10
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Me lo sono riascoltato oggi. Ok, la fase dei primi anni ottanta è in assoluto la più trascurabile di Alice Cooper, però è vero, come si dice nei commenti sottostanti, che non tutto è da buttare. Su quest’album per esempio c’è Pain che è molto bella, altri pezzi sono quantomeno divertenti, casomai sono proprio i pezzi più “classici” che non riescono a decollare. In generale credo che non sia la direzione stilistica il problema, quanto il non esser riuscito a supportarla con pezzi degni di nota (e d’altra parte, visto il periodo che stava passando, ci sta anche). Altre volte Alice Cooper ha cambiato stile, anche drasticamente, e ha tirato fuori capolavori. In questo caso decisamente no. Concordo anche sul fatto, come dice Galilee, che del periodo ‘80-‘83 Da-Da sia l’album più interessante. A Flush the Fashion voto 67 |
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9
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Personaggi come Alice Cooper trascendono i generi. Un po\' come Bowie. È sempre stato un trasformista. Il Cooper di killer non è quello di WTMN e nemmeno quello di Lace & Whisky. |
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8
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@Galilee, Proprio così... il problema é che dipende chi sei e che immagine hai, nel senso che comunque Alice Cooper così come Ozzy avevano / hanno un immagine e uno stile che si poteva prestare bene sia a fare il Glam Metal prima che tentare poi la via sonora di Rob Zombie o Marylin Manson.
Per esempio con David Coverdale funzionò il passaggio al Glam anche perché si trattava di un artista Hard Rock Bluesy, però assolutamente non avrei visto i Whitesnake mettersi a fare un Hellbilly Deluxe ecco... |
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7
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Vabbè Brutal Planet è un discone. Dragontown invece è un po\' meno a fuoco. Più che altro i pezzi sono meno belli. Comunque in generale sono ottimi. |
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6
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@Galilee hai ragione sai? In effetti DADA ce l\'ho e quello é ben fatto e perlomeno lui non rinnega quel periodo della sua discgrafia, nel senso che questi dischi non li hanno levati dal mercato come invece hanno fatto altri e la lista sarebbe lunga...
Io di mio disco che i dischi usciti da Constrisctor in poi sono realmente in continuazione con quelli Glam Rock dei 70 e io personalmente ho apprezzato anche i suoi due album Industrial a inizio 2000. |
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5
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Del periodo no di Alice Cooper l\'unico veramente da non evitare è il bellissimo DADA. Disco super criticato e invece bellissimo. Contiene 2 o 3 brani tra i migliori della sua carriera. Quando lessi una sua biografia, mi stupii del fatto che anche lo stesso Cooper e Ezrin lo considerino tutt\'ora un ottimo album che purtroppo la gente non capì.. E come dar loro torto.
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4
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Sempre evitati questi dischi del peridodo buio. Li ho tutti in un megacofanetto. Da qualche tempo li sto riscoprendo ed apprezzando molto. Potrei arrivare anche a 70 |
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3
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Album tra i peggiori di Alice, ma nell\'insieme non è tutto da buttare.
Il songwriting in alcune canzoni rimane vincente, come la sua interpretazione. Voto giusto direi. |
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2
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L\'Alice Cooper New Wave non mi piace, cioé apprezzo il tentativo di rinnovo e la sua discografia ha più di una curvatura, però qua per me non era più cosa, anche a livello di immagine, soprattutto nel periodo di Special Forces...
Secondo me la vera continuazione degli anni 70 é iniziata con Constrictor nel 1986 e la conseguente fase Glam Metal, purtroppo noto che non c\'è tra le recensioni.... |
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1
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Questo disco è l\' essenza della dipendenza da alcool di Alice....un disco segnato dalla dipendenza annebbiato, sconclusionato e caotico. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Talk Talk 2. Clones (We're All) 3. Pain 4. Leather Boots 5. Aspirin Damage 6. Nuclear Infected 7. Grim Facts 8. Model Citizen 9. Dance Yourself to Death
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Line Up
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Alice Cooper (voce) Davey Johnstone (chitarra) Fred Mandel (chitarra, tastiere) John Lopresti (basso) Dennis Conway (batteria)
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