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L‘ARCHIVIO DELLA ‘ZINE - # 37 - Soilwork, Jinjer, Dirty Honey, Bleed From Within, Exhumed, La Janara, Cerebral Rot e tanti altri ascolti per la vostra estate metallica....
27/07/2021 (1108 letture)
Uscita numero 37 per il nostro Archivio della 'Zine, che stavolta si presenta decisamente variegato nelle proposte di "recupero" di album meritevoli o ben più che meritevoli a cui non eravamo riusciti a dare il giusto risalto. L'estate è ormai al suo culmine e quale migliore occasione per gettare uno sguardo alle nostre spalle e riscoprire magari qualche disco passato magari in sordina o che nel mezzo ai tanti era sfuggito dopo un ascolto affrettato? Ci auguriamo che il nostro lavoro possa aiutarvi in questa ricerca e offrirvi qualche spunto per i vostri momenti di svago. Nel frattempo i nostri bravi amanuensi, piegati sui loro scranni, sono già all'opera per andare a recuperare ulteriori album meritevoli che, come sempre, vi chiediamo di aiutarci a scovare. Ogni consiglio è più che benvenuto!! Nel frattempo, ecco a voi....

POWER

Iron Mask – Master of Masters
Master of Masters non è un disco che svolta gli equilibri del power metal, ma alla fine si rivela valido e godibile, specie considerando che si rivolge a un pubblico ben definito, che in esso troverà ottima musica, sulla scia di artisti più noti (la voce un po’ alla Rhapsody, le chitarre un po’ più su uno stile neoclassico alla Stratovarius o Malmsteen), sempre valida, senza troppi passi falsi (su un'ora di musica è ovvio che qualche canzone possa risultare di troppo, ma lo standard è tutto sommato alto) e con una produzione e dei suoni adeguati al contesto.

DOOM

Green Druid – At the Maw of Ruin
Basata su uno stoner/doom che ingloba varie altre influenze – dallo sludge al psych e quelli più estremi – la musica dei Green Druid riesce ad essere particolarmente efficace nonostante si basi su elementi noti e sviluppati da anni. Combinandoli oltretutto con criterio e con un certo gusto all’interno di ogni pezzo, che in tal modo risulta sempre vario e interessante a dispetto della lunghezza media elevata e mai inferiore agli otto minuti abbondanti.

High Priestess – Casting the Circle
Inutile ripercorrere l’infinita schiera di band, tra Coven, Black Sabbath, Black Widow, Jacula e seguaci che hanno cercato di evocare tramite la loro musica una dimensione maledetta e arcana, spirituale e materiale al tempo stesso, nella quale il nero signore delle Tenebre viene omaggiato nella sua forma più diabolica e satanica. Ebbene, il trio statunitense si inserisce in questa lunga e folta schiera con una propria forte identità, che evoca senz’altro le atmosfere care al doom settantiano, ma attinge fortemente anche dalla psichedelia, dallo stoner e dal prog, da melodie, strumenti e percussioni orientali e da tutto ciò che possa contribuire a creare un’atmosfera esoterica e rituale. L’aspetto che più colpisce infatti in Casting the Circle è che tutti e cinque i brani che compongono i quarantadue minuti dell’album si conformano attorno al tentativo, peraltro spesso riuscito, di creare dei veri e propri rituali evocativi in forma di canzone.

La Janara - Tenebra
Tenebra è un album che lascerà il segno nel panorama nazionale, per profondità di ispirazione e per realizzazione. Non siamo di fronte semplicemente a un ottimo album di genere, ma al cospetto di un’opera completa, stratificata, che unisce identità locale e grande musica, con una profondità e una capacità di emozionare rare. Questi sono gli album che dimostrano quanto la questione non è mai da porsi nei termini di tradizione/innovazione, ma solo in quelli di ispirazione/non ispirazione. Tenebra è un disco oscuro, triste e al contempo sognante, potente nelle immagini suscitate e forte di una identità che colpisce.

DEATH

Soilwork – A Whisp of the Atlantic
A Whisp Of The Atlantic di fatto corre velocissimo, ci ripropone una band che nonostante tutti questi anni di preziosissima carriera gode tutt’oggi di un songwriting fresco ed efficace e soprattutto di tantissima ispirazione. Matrice dei brani è la ricerca e l’ottimo gusto compositivo, si sente un continuo rechiamo alla appendice progressive, nonostante il suono non venga snaturato e rimanga ben riconoscibile. Probabilmente alcuni passaggi riportano alla mente in maniere troppo palese altre band del passato, ma la voglia di sperimentare e la qualità compositiva restano predominanti. I Soilwork oltre a ottima musica con questo EP ci regalano anche l’insegnamento che il valore di una band e della sua arte musicale prescinde da generi e catalogazioni che lasciano poi il tempo che trovano.

Cerebral Rot – Odious Descent Into Decay
Come intuibile dalla copertina parliamo di un bel death metal marcio e paludoso che tra il pestare senza sosta si concede dei rallentamenti in cui le atmosfere putride vengono enfatizzate. Si viene quindi a creare uno stile che colpisce perché pur nella sua forma così primitiva mostra degli spunti derivanti da gruppi come Demigod, Convulse, se non addirittura dai messicani Cenotaph con quindi degli innesti più melodici e sulfurei, che creano un piacevole e riuscito contrasto con altri momenti più bestiali; va loro incontro la scelta dei suoni, grezzi al punto giusto, con il basso sempre presente a rafforzare le ritmiche più massicce e il growl cavernoso ad accompagnare l’ascolto. Tutti elementi che sono in sostanza valori aggiunti a quello che è il primo punto di forza del lavoro, ovvero il songwriting, ispirato sì ai gruppi detti prima ma capace di non apparire come una semplicistica fotocopia.

Necrot - Mortal
Che i Necrot fossero considerabili come uno dei gruppi più promettenti e da seguire della scena death metal lo si era intuito con il più che buono esordio del 2017 intitolato Blood Offerings. I tre californiani non cambiano naturalmente nulla della loro proposta, restando fedelmente ancora ad un death metal estremamente vecchia scuola e che vede nei grandi nomi del genere tutta l’ispirazione di cui ha bisogno. Niente cambi di lineup e niente cambio di etichetta, tutto resta così come lo avevamo lasciato.

Exhumed - Horror
Presentandosi con una copertina chiaramente ispirata all’immaginario anni 80’, cosa che ormai avviene in tutti gli ambiti da qualche anno a questa parte, Horror è un disco che riprende uno stile più vicino agli esordi del progetto, concentrandosi su canzoni molto corte dalla durata di un minuto/due (arrivando anche a soli sei secondi su Utter Mutilation of Your Corpse) per un totale di soli ventisei minuti. Sarà la nostalgia, sarà che forse il capo del progetto, dopo album piuttosto corposi, ha deciso di riportare il songwriting ad una forma più primitiva e in linea con le gloriose uscite di scuola deathgrind o goregrind.

Eresia - Neocosmo
Disco che celebra i venticinque anni di esistenza del gruppo, Neocosmo è veloce, cattivo e monolitico. Insomma: mazzate su mazzate, ma con l’atout di testi profondi, che si basano su riferimenti "alti" e capaci di far riflettere. È questo il valore aggiunto di un prodotto di per se stesso buono, che trova quel quid capace di elevarlo di un gradino mediante la voglia di comunicare al proprio pubblico dei concetti importanti e scegliendo di farlo col nostro idioma. Confinandosi così in un recinto discografico ancora più angusto di quello dal raggio già ristretto offerto dal death underground, ma rendendo fieramente omaggio alla propria storia e qualificandosi come qualcosa in più di una band.

HARD ROCK

Dirty Honey – Dirty Honey
Adagiato egregiamente sulle coordinate di un hard rock settantiano misto ad echi southern e intriso di un’irresistibile vena blues, il sound dei Dirty Honey spicca per la sua capacità di risultare tanto maturo e convincente quanto di facile presa sull’ascoltatore. I quattro, nati sotto la buona stella del rock che ha da sempre lambito i cieli della gloriosa città natale, hanno talento ed intuizione nonché la stoffa per comporre canzoni che, pur condividendo la matrice comune, sanno aprirsi a variazioni sul tema, vantando solismi avvincenti e sezioni ritmiche da urlo.

Damn Freaks – Love in Stereo
Seconda fatica discografica per la compagine italiana dei Damn Freaks devota ad un hard rock roccioso e diretto che strizza inevitabilmente l’occhio alla fiorente stagione americana degli Eighties, non senza disdegnare accenni vagamente heavy e ritornelli azzeccatissimi che si stampano in testa sin dal primo ascolto. La band fiorentina, formatasi nel 2017, annovera fra le sue fila il talento dell’ugola di Iacopo Meille (attuale vocalist dei Tygers Pan Tang) il quale, assistito da compagni di viaggio altrettanto talentuosi e dall’irresistibile attitudine sfacciata e stradaiola tipica del genere proposto, offre una prestazione eccelsa che bissa l’interessante debut e, se possibile, fa ancora meglio.

PROG ROCK

Lunatic Soul – Through Shaded Woods
La genesi di Through Shaded Woods è singolare: l’ispirazione deriva dalla casa d’infanzia del polistrumentista, situata in una zona della Polonia celebre per i suoi laghi e boschi. Lì Duda ha compreso di voler includere nell’album atmosfere sciamaniche, richiami al folk scandinavo e vichingo. Ciò gli è perfettamente riuscito: l’esito non sono dei riff stereotipati facenti capo al folk più abusato e storpiato col solo intento di rendere orecchiabile i pezzi.

METALCORE / DJENT

Bleed From Within - Fracture
Questo quinto full-length si presenta come la continuazione del percorso iniziato con Era, dando ancora più spazio alle influenze thrash/death e -allo stesso tempo- introduce nuovi elementi nel sound del quintetto. Influenze riconducibili ai Lamb Of God di Sacrament e Wrath, con riff molto groovy che ben si intersecano col substrato -core del gruppo, composto dalle ormai classiche alternanze tra strofe ad alta velocità e breakdown spaccaossa.

Jinjer – King of Everything
Seguito dell’acerbo debutto Inhale, Do Not Breathe (penalizzato da una produzione alquanto grezza) e di Cloud Factory, il terzo album in studio segna un ulteriore passo avanti nell’individualizzazione della proposta sonora, fattasi ulteriormente abrasiva, tecnica e in grado di incanalare in maniera più strutturata le numerose e composite influenze stilistiche, dal groove escoriato di metalcore dei Lamb Of God al melodeath degli Arch Enemy passando per i tempi dispari e la poliritmia djent dei Meshuggah e dei Periphery fino ad arrivare al prog death degli Opeth, al prog(death)-core dei Born Of Osiris e persino all’alternative/nu metal della band di Otep Shamaya, la cantante che più ha ispirato Tatiana a cimentarsi negli switch tra clean vocals e growl.

HARDCORE

Hatebreed – Weight of the False Self
Come lo scultore raffigurato nell’artwork, gli Hatebreed scolpiscono nella dura pietra un altro disco convincente e ispirato che martella senza sosta dall’inizio alla fine: è il “solito” lavoro di Jasta e soci? Ormai possono essere considerati gli AC/DC dell’hardcore? Forse la risposta ad entrambe le domande è sì, ma queste eventuali critiche dei detrattori lasciano il tempo che trovano e non scalfiranno minimamente né la band né i suoi supporters. Weight of the False Self infatti contiene tutti gli elementi distintivi che hanno fatto la fortuna del gruppo e li ripropone con tenacia e solidità, per un risultato finale che soddisferà appieno gli aficionados storici e perché no, anche qualche volenteroso neofita.

The Ghost Inside – The Ghost Inside
A livello compositivo, il disco presenta un lotto di canzoni come Still Alive, The Outcast, Overexposure e Make Or Break che strutturalmente sono il riassunto dello stile a cui la band ci ha abituato negli ultimi anni, in particolare con il precedente Dear Youth. Parliamo infatti di un hardcore melodico moderno, veloce ed energico nelle strofe, intervallato da ritornelli melodici da stadio cantati in pulito, con un parziale ritorno in fase di riffing, sia distorto che pulito, al secondo disco The Returner. Struttura che - a differenza del già citato Dear Youth - non si ripete in maniera omogenea per tutta la durata del lavoro.

AVANTGARDE

White Nights - Solanaceae
Delle pomposissime tastiere della miglior tradizione gotica di una certa raffinatezza esaltano l'orecchio, mentre un basso sempre vivo e pulsante come nella migliore tradizione post-punk che si rispetti fa sussultare e squassare il cuore agli amanti delle sonorità profonde mantenendo l'emozione sul filo del rasoio per la maggior parte dell'ascolto. Nella seconda parte dell' EP invece la componente psichedelica si fa decisamente sentire, tanto che Solanaceae che occupa quasi metà dell' EP sembra riportare alla memoria persino Echoes dei Pink Floyd, unito a un tappeto ritmico tipicamente post-punk ottantiano che da un certo punto in poi sfocia in un accenno non troppo velato di black metal che magari ad un primo e distratto ascolto può non venire colto dato la presenza di davvero tante influenze musicali, come anche l'accenno di chitarra doom iniziale.

POST GRUNGE

Seether – Poison the Parish
Poison the Parish spazza via le incertezze dei dischi precedenti e riconsegna una band in salute, più che mai determinata a non farsi condizionare dai vincoli del music business e sicura nel percorrere con coerenza la propria strada: vero che lo stile proposto non si discosta poi tanto dai lavori passati, però la verve e la consapevolezza insite nelle dodici tracce fanno sì che l’album possa essere considerato il più riuscito dai tempi di Finding Beauty In Negative Spaces, inaugurando in tal modo un nuovo favorevole ciclo proseguito con l’ottimo Si Vis Pacem, Para Bellum.



Rob Fleming
Mercoledì 4 Agosto 2021, 8.26.37
1
La foto di copertina è bellissima. Da dove è stata tratta?
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