Il tempo passa, questo è un dato di fatto. Passa per tutti e per tutto, producendo inevitabilmente lo sbiadirsi più o meno rapido del ricordo, della percezione di cose e persone. Spesso e volentieri rispondiamo tendendo psicologicamente a compensare, costruendoci ricordi ornati di finte realtà che si adattano più a quanto avremmo voluto vivere che al vissuto reale. Per fortuna, nel caso delle opere d’arte, “scripta manent”. Tutto dovrebbe quindi restare intatto nella sua grandezza o nella sua miseria ed il tempo dovrebbe determinare la loro giusta dimensione. Purtroppo talvolta non è così, perché il mutare del contesto storico-culturale può falsare la percezione dell’importanza di alcune di queste, portando erroneamente a considerarle superate nella loro cifra stilistica e comunicativa. Oggi vi parliamo di un’altra coppia d’assi la quale, per ragioni diverse, ma collegate, costituisce uno snodo importantissimo, pur temporalmente un po’ sfalsato, che collega due lavori e due gruppi apparentemente molto diversi. Uno dei due dischi è un capolavoro per il mondo della musica in generale, l’altro -almeno- per una singola area geografica.
VAN HALEN: VAN HALEN Non che nel 1978 i chitarristi di alto livello fossero improvvisamente venuti a mancare, ma quando l’album d’esordio dei Van Halen irruppe sul mercato, qualcosa cambiò per sempre nel mondo del rock e, a posteriori, in particolare in quello del metal. Quello che Eddie portò in dote, non era solo un breve lotto di pezzi connotato da una freschezza compositiva ed esecutiva particolare, ma un universo tecnico-stilistico che avrebbe cambiato le cose per sempre. La tecnica del tapping da lui introdotta alle masse e perfezionata (non inventata, quello si deve ad altri), portò l’assolo di chitarra su un altro livello di impatto e di gusto. In tal modo, egli aprì le porte sia ad una velocità esecutiva che avrebbe prodotto frutti a iosa tra i gruppi rock/metal del futuro e influenzato pesantemente una gran parte di ciò che ascoltammo negli anni 80, sia un gusto per il riff ancora di derivazione rock/hard rock anni 60-70, con gruppi come i Cream sullo sfondo. Gusto debitamente modernizzato per essere reso immediatamente fruibile da una fascia di pubblico enormemente eterogenea. In realtà non si trattava semplicemente di un fatto tecnico. Il tutto, infatti, non si riduceva alle innovazioni sciorinate sulla sua leggendaria Frankenstrat con la quale tentò di ibridare una Stratocaster con una Gibson (le modifiche riguardavano principalmente l’innesto del tremolo Floyd Rose al ponte e dei microfoni Humbucker, oltre a quelle estetiche), ma sconfinava in qualcosa di difficilmente definibile, qualcosa che riguardava la parte magica della musica. La capacità di trovare riff incredibili, bridges fantastici capaci di legare il tema principale ad assoli i quali, oltre a presentare contenuti tecnici stratosferici, semplicemente funzionavano alla grande, è solo una parte della sua leggenda. Il motivo principale per il quale Van Halen è passato alla storia, è la capacità di Eddie di far sembrare tutto facile, tutto semplice. L’immagine del chitarrista che i più hanno in mente è sempre quella del suo viso sorridente mentre esegue un passaggio incredibilmente difficile, quel mezzo ghigno da bambino che sembra dirti: “Cazzo, quanto mi sto divertendo per fare ‘sta stupidata. E in più mi pagano”. Ecco: il far sembrare normale qualcosa di tremendamente difficile, fondendo il tutto con l’attitudine dell’intera band, comunicando la gioia di suonare mantenendo la forma-canzone al massimo della fruibilità per tutti, anche per chi non ha alcuna preparazione specifica, ma vuole solo divertirsi con una bella canzone, è roba da pochi. Nel campo dello shredding, poi, non è difficile imbattersi in chitarristi ultra dotati, che però sono onanisti strumentali, troppo occupati a trarre piacere da sé stessi per preoccuparsi di comunicare qualcosa. Nel caso di Eddie tutto questo non avveniva mai e Van Halen, pur non essendo forse l’album organicamente più strutturato della band omonima, rimane il più immediato, fresco, irruente prodotto di un gruppo il quale, proprio a causa dell’operato del suo chitarrista, rimane da studiare a futura memoria.
LOUDNESS: DISILLUSION Durante quello stesso 1978 che vide l’uscita del primo album dei Van Halen, in Giappone uscì anche il poco significativo esordio dei Lazy, un gruppo apparentemente pop/rock. Cosa c’entra? Semplice: i Lazy volevano in realtà fare hard rock, come il nome mutuato da un pezzo dei Deep Purple dimostra, ma un management contrario li costrinse inizialmente ad essere più morbidi. In seguito i Lazy riuscirono ad imporsi proprio come band hard rock, ma ciò che più importa è che nella band militavano il batterista Munetaka Higuchi ed il chitarrista Akira Takasaki, poi nucleo principale dei Loudness. Oltre a loro, il cantante Hironobu Kageyama, successivamente noto come autore di sigle per cartoni animati di successo, come Dragon Ball Z, I Cavalieri dello Zodiaco e svariati altri. Il loro Disillusion del 1984 costituisce la miglior sintesi tra la lezione di Van Halen adeguata ad una tradizione più orientale ed un gusto tipicamente nipponico che costituisce valore aggiunto del disco. Disillusion uscì -primo disco della carriera dei Loudness a poter vantare questa prerogativa- sia in versione originale che in lingua inglese. È però quella cantata in giapponese a risultare più interessante, contrariamente a quanto comunemente si suppone. Disillusion, infatti, sdoganò per la prima volta l’immagine del metal del Sol Levante sui mercati internazionali, imponendo massicciamente una band dagli occhi a mandorla al mondo. Per farlo però, i nostri riuscirono comunque (e per l’ultima volta) a conservare la loro integrità nazionale, fondendo la pronuncia nasale fortemente giapponese di Minoru Niihara (la sua difficoltà con l’inglese sarà di forte detrimento per la carriera dell’ex Earthshaker) con il chitarrismo modernissimo e dal respiro internazionale di Takasaki, realmente in grado di rivaleggiare con Van Halen sia nel tapping che in altre tecniche, com’anche nella ricerca di riff ed arrangiamenti di livello, ma molto più prettamente metal. Il chitarrismo stupefacente di Takasaki, ancora integro e non al servizio di una successiva banalizzazione delle canzoni che produrrà sì alcuni album più che buoni, ma non così fieri delle proprie radici, qui si fa portavoce e portatore di un verbo musicale in un certo senso fusion rispetto alle influenze occidentali, ma ancorato al Giappone in maniera viscerale e, proprio per questo, di confine rispetto a ciò che verrà dopo, molto più americano, quindi più commerciale. Disillusion, insieme al doppio dal vivo Live Loud Alive, è una finestra panoramica sul metal giapponese d’elite anni 80, unito alla dimostrazione che in fatto di tecnica i sudditi del trono del crisantemo non hanno mai avuto nulla da imparare da nessuno.
PIATTO CON COPPIA D’ASSI Due gruppi distanti, molto distanti l’uno dall’altro, anche geograficamente, almeno all’origine. Due dischi diversi, per importanza storica e per epoca d’uscita, dato che in questo caso e visto quanto accaduto in mezzo, cinque anni valgono molto di più di quanto avrebbero pesato in condizioni normali. Eppure, pur considerando quanto sopra e facendo comunque le doverose proporzioni, anche dischi con qualcosa in comune. Due chitarristi stratosferici, uno riconosciuto come tale in ogni angolo del globo appena uscito Van Halen e, successivamente, in contesti musicali molto diversi. L’altro più di nicchia, più legato ad un contesto metal in quanto tale (anche questo successivamente impostosi “fuori confine”), ma anch’egli tecnicamente di un’altra categoria. Sicuramente Eddie è venuto prima ed ha meriti che la storia ha sancito, ma, al di là di questo, Van Halen e Disillusion sono ambedue basilari. Il primo ha tracciato un’autostrada dove altri avevano appena abbozzato un sentiero, il secondo ha mostrato forse per la prima ed ultima volta al mondo un Giappone metallico fiero di esserlo, pur non chiuso in sé stesso in ambito heavy, con un equilibrio che nessun altro avrebbe più ritrovato. Due album che hanno raccontato delle storie ancora capaci di farsi ascoltare anche dopo decenni, eccome.
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