Le raccolte di brani provenienti da band diverse che testimoniano però una comune ascendenza, che sia essa territoriale o di genere, sono da sempre uno dei termometri e delle vetrine più importanti di una scena musicale. Esempi celebri ce ne sono a bizzeffe, a partire da alcune che sono diventate delle vere e proprie serie leggendarie, come Metal for Muthas per la scena NWOBHM, Metal Massacre per quella heavy statunitense o episodi singoli, ma seminali, come Deep Six e le raccolte della Sub Pop per la scena di Seattle. Perfino in Italia abbiamo avuto più tentativi di accreditare la scena nazionale sin dagli anni Ottanta e in molti verseranno una lacrimuccia nostalgica sentendo ad esempio il titolo delle Nightpieces promosse dalla sfortunata Dracma Records di Torino. Nel caso specifico di Dark Passages occorre fare un piccolo sforzo di inquadramento: il doom è un genere che, nato negli anni Settanta a opera dei mai troppo lodati Maestri Black Sabbath e di loro più sfortunati discepoli, conobbe una rinnovata via negli Ottanta a opera di band ormai leggendarie come Pentagram (in realtà già attivi dalla decade precedente), Trouble, Saint Vitus, Candlemass e via elencando. In quel decennio edonista e patinato, nel quale glam e AOR dominavano le classifiche e nel quale l’heavy metal oggi detto “classico” trovava la propria affermazione come genere a se stante, lanciando subito anche le proprie derive più estreme, il doom ha sempre fatto la figura del fratello “sfigato” e deriso. L’immaginario cupo, pessimista, gotico e il look settantiano di gran parte delle band erano oggetto di scherno, come i tempi rallentati e opprimenti tipici del genere. Ma il doom, proprio per questo, per questa sua natura fieramente underground, sempre lontana dalle prime pagine e forte di una subcultura radicata in un immaginario vasto e pervasivo, aveva ormai gettato i propri semi e si trattava solo di aspettare che germogliassero. Furono gli anni Novanta a raccogliere le messi di questo sforzo e, finalmente, il ritorno prepotente degli anni Settanta e l’ibridazione con altri generi, portarono alla ribalta in maniera prepotente il genere: doom, gothic, stoner esplosero ovunque e quasi in contemporanea, uscendo finalmente dalle cripte e dalle cantine. Protagonisti assoluti di questa vera e propria rivincita furono senza dubbio i Cathedral, il cui debutto Forest of Equilibrium compì una vera e propria deflagrazione a livello underground. Il leader e cantante Lee Dorrian aveva però ambizioni anche più ampie e con la sua sincera mentalità hardcore del Do It Yourself non perse tempo e fondò la propria etichetta, la Rise Above, con la quale svolse l’ancor più fondamentale ruolo di cassa di risonanza e propagazione del genere, raccogliendo e pubblicando numerosi debutti fondamentali di nuove band e contribuendo a scrivere la Storia del genere, andando quindi non solo a promuovere i nuovi arrivati, ma rendendo omaggio ai Maestri e all’intera scena, allo scopo di dargli lustro e nobiltà, radicandola per sempre. Dark Passages è, appunto, uno dei passaggi fondamentali di questa opera, iniziata già nel 1991 col primo storico Volume (quinta pubblicazione dell’etichetta), che raccoglieva brani di Cathedral, saint Vitus, Stillborn, Penance, Count Raven, Revelation e Solitude Aeturnus. Per quanto a livello underground, il successo della raccolta fu molto importante e anche se occorreranno altri cinque anni per il secondo capitolo, ormai la strada era segnata e il genere, grazie anche all’esplosione del death/doom e del gothic, aveva ritrovato la propria nobiltà e il proprio pubblico.
Fedele nell’impostazione alla prima seminale uscita, ma inevitabilmente dotata di maggiori mezzi ed esperienza, la seconda pubblicazione della serie continua nell’opera di riscoperta delle radici e lancio di nuove realtà. Così a fianco dei Maestri Pentagram e Trouble, qua omaggiati con due vere e proprie perle della loro produzione, che testimoniano da un lato la natura profondamente settantiana dei primi e le palesi ibridazioni con l’heavy metal dei secondi, troviamo un vero e proprio ventaglio di rampanti nuovi eroi pronti ad esplodere. Ma prima di arrivare a loro, è giusto riconoscere, come d’altra parte fa lo stesso Dorrian nelle note del disco, il doveroso tributo a un altro eroe, Paul Chain, anch’egli riconosciuto come Maestro dal cantante dei Cathedral il quale, d’altra parte, aveva appena partecipato alla registrazione del capolavoro Alkahest e che finalmente con la superba opera d’arte a titolo Sand Glass, proprio tratta da quel disco, riceve il meritato riconoscimento internazionale. Forte di una serie di tracce allora ancora inedite, Dark Passages Vol. II offre quindi uno spaccato gustoso e ricchissimo della scena dell’epoca e qualche primizia di alcuni dei protagonisti degli anni futuri, pronti ad esplodere. E’ infatti il contagioso riff di Saruman’s Wish ad aprire le danze e qua gli Orange Goblin, che arriveranno di lì a pochi giorni al proprio debutto dopo il cambio di monicker da Our Haunted Kingdom, tirano fuori il primo dei loro classici, una traccia di gran presa e perfettamente bilanciata che ne certificava la padronanza e il già rodato livello di scrittura. Dopo la strepitosa Sand Glass tocca al primo dei viaggi oltreoceano e gli Eyehategod ci caricano con la loro furia ibridata dall’hardcore, per un genere che aveva appena iniziato a rantolare il proprio nome, ma che con le urla straziate di Mike Williams IX e i soffocanti riff carichi di blues sapeva già lasciare ferite e contusioni, tra vetri rotti e disperazione urbana. Si torna nel Regno Unito con gli allora lanciatissimi Acrimony, forti del primo album pubblicato due anni prima e pronti a colpire col definitivo Tumuli Shroommaroom l’anno dopo e che qui regalano una prova tipica nel loro stile, col divertente riff surf rock portante di Earthchild Inferno e il loro stoner psichedelico fresco e pesantissimo. Dei Pentagram e di Sinister non si finirebbe mai di parlare, anche solo per rendere loro merito e colmare l’incolmabile ingiustizia patita dalla più grande doom band dopo i Sabbath, che ha dovuto attendere troppi anni prima di veder finalmente un contratto e la pubblicazione del proprio primo capolavoro. Basta ascoltare questa traccia per capire l’immensa levatura di questa straordinaria band. Restiamo negli States per gli Iron Man di Al Morris III, con una traccia dal loro debutto Black Night del 1993, quella Leaving Town che dopo la corsa a rotta di collo della prima parte, testimonia lo splendido uso dello wah-wah da parte del band leader con il bellissimo assolo centrale e l’evocativa parte finale, pur con i noti limiti del cantato. Altra band al debutto e con la peculiarità allora piuttosto rara di una frontwoman, i Mourn di Caroline Wilson e Will Palmer erano freschi della pubblicazione del loro unico album omonimo e si presentavano con un brano inedito dal flavour rock’n’roll nella ritmica, unito al doom e caratterizzato dalla vocalità un po’ limitata, ma senz’altro peculiare, della Wilson, per una traccia complessivamente di buon livello, con un buon refrain. Tempo per uno dei capolavori senza tempo del genere: Victim of the Insane è raggelante ancora oggi e l’abisso dolente aperto dalla straziante voce del compianto Eric Wagner e dalle sue toccanti parole non conosce pace né serenità. Qua signori e signore, ci si toglie il cappello e si rende omaggio a degli sfortunati quanto incompresi giganti del doom. Altra spettacolare quanto misconosciuta band, i Solstice, sono qui rappresentati da un ennesimo brano capolavoro: tratto dal loro imperdibile debutto Lamentations, un must per gli amanti dell'epic doom, Wintermoon Rapture è uno di quei brani capaci di rapire l’ascoltatore per sempre. Classe, capacità evocativa, talento compositivo, identità. Non manca niente agli inglesi e la loro traccia è uno dei punti più alti dell’intera raccolta, di gran lunga. Tra i futuri Signori del genere, gli Electric Wizard che si presentano con l’inedito Return to the Sun of Nothingness, sono qua ancora una band acerba e affascinante. Arrivata al debutto due anni prima, con un disco omonimo dalla copertina fuorviante del grande Dave Patchett, che sembrava testimoniare l’ascendente dei Cathedral, la band di Jus Oborn stava in realtà per rilasciare il primo dei propri dischi fondamentali, Come My Fanatics…. Il talento e la morbosità sono evidenti, tanto da sapersi scavare un posto nell’attenzione dell’ascoltatore, ma certo il meglio doveva proprio arrivare. Ultima scappata negli States per il supergruppo Down, anche loro freschi del capolavoro di debutto a titolo Nola, dal quale è tratta una delle spettacolari perle del collier, la splendida Bury Me in Smoke, qua presentata in una ruvidissima e grandiosa demo version, che arricchisce ulteriormente il già ricco piatto della compilation. Anche qua c’è poco da commentare, pezzo monumentale, imperdibile, uno dei veri e intramontabili classici del gruppo. Chiude il lavoro una traccia dei Cathedral che troverà solo in questa pubblicazione la propria casa: Schizoid Puppeteer è un lungo brano di oltre dodici minuti, nel perfetto stile della band. Un ibrido tra doom e prog, con l’istrione Dorrian a narrare le sue folli storie e l’enorme Gary Jennings a cucirgli addosso un brano in continua evoluzione, pieno di cambi di tempo e atmosfera, con sezioni diverse tra loro collegate e un filotto di assoli di alto livello, corroborate dal gran lavoro di Leo Smee col suo basso instancabile. Una ennesima gemma dal cappello di questa meravigliosa band, ben superiore per ispirazione di quanto contemporaneamente pubblicato in quello stesso anno, quel Supernatural Birth Machine che sembrò meno convincente dei suoi predecessori.
Un po’ vetrina per i gruppi dell’etichetta, un po’ spaccato a volo radente sulla scena dell’epoca, un po’ doveroso omaggio alle storiche e ispiratrici band del genere, Dark Passages Vol. II colpisce ancora, a distanza di quasi trent’anni, per la notevole qualità complessiva e per la piacevolezza di ascolto. Il livello generale è davvero alto e tutto sommato rappresentativo di un genere che conosceva in quegli anni il proprio trionfale approdo all’attenzione generale. Mancano del tutto, è vero, alcuni dei protagonisti di quell’epoca felice: Paradise Lost, My Dying Bride, Anathema, Tiamat e tutto il filone gothic, ma è pur vero che con qualche divagazione sullo sludge e sullo stoner, l’uscita fu davvero un colpo a segno. Meno importante storicamente del primo capitolo, che aveva davvero raccontato l’uscita dall’underground del genere, Dark Passages Vol. II risulta meglio assortita, più ricca e inevitabilmente meglio realizzata, fin dalla copertina. Potendo poi contare su alcuni brani inediti presentati in esclusiva al suo interno. Un passaggio importante e un gran bell’ascolto, oggi come allora da avere e non solo per gli amanti del genere, proprio per il ventaglio ampio dell’offerta che consente anche a chi non fosse addentro al doom, di godere di diverse sfaccettature e di una serie di ottimi e rappresentativi brani.
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