Nel film Ray, dedicato allo scomparso Ray Charles, lo strepitoso attore Jamie Foxx pronuncia una frase che resta impressa: Il pubblico vuole sentire delle storie, alludendo al fatto che il successo di un brano non nasce a caso e anche la sperimentazione più assurda o temeraria (in quel caso, un artista afroamericano che rilascia un disco di musica country) sarà apprezzata dal pubblico nella misura in cui riesce a comunicare alla persone una storia, a farle appassionare a essa, fino al punto di far vivere quelle emozioni a chi ascolta nel breve spazio di una canzone.
UNA BRUTTA STORIA Bath Township, Michigan; Columbine, Colorado; Blacksburg, Virginia; Newton, Connecticut; St. Louis, Missouri. Queste città hanno in comune una storia, una storia molto brutta: la storia di una strage, compiuta all’interno di un edificio scolastico. A questa tragedia dolosa, si aggiunge un doppio cortocircuito emotivo generato dal fatto che, tranne nel caso di Bath, la strage è compiuta da uno o più ragazzi adolescenti o comunque molto giovani. Persone che, con premeditazione e chiara volontà di uccidere, organizzano dei veri e propri piani per portare a termine la propria vendetta, per riscattare probabilmente una vita di umiliazione, condotta ai margini, schiacciata da un meccanismo competitivo e dalla feroce esclusione sociale di cui sono vittime da parte tanto della famiglia, quanto dell’istituto scolastico in sé, quanto dai propri compagni di scuola. E’ difficile, fin troppo difficile, accettare che un ragazzo possa già in quell’età arrivare a covare dentro di sé tanta rabbia, tanta frustrazione e una totale assenza di speranza per il futuro, da vedere come unica possibilità di riscatto quella di compiere un gesto del genere, per poi inevitabilmente suicidarsi o finire ucciso dalle forze dell’ordine. Queste ultime impotenti, come sempre più spesso accade, di fronte a fiammate di follia e violenza che si dicono imprevedibili o comunque non arginabili, se non con un doloroso epitaffio. Ovviamente, l’attenzione dei media si è più volte concentrata su questi fatti, fino a farne spesso un teatrino dell’orrore, nel quale il dolore e la tragedia diventano lo sfondo per trasmissioni di finto approfondimento, collegamenti esterni dal luogo del delitto, interviste continue a persone incredule o piene a loro volta di dolore e risentimento per un qualcosa di inaccettabile, a cui con una perfidia a sua volta violentissima e inaccettabile viene posta la fatidica e odiosa domanda come si sente, cosa prova? Come se poi la risposta interessasse davvero a livello umano e non solo per ragioni di audience. Un meccanismo che a sua volta si nutre di violenza, con telecamere e microfoni sbattuti in faccia a chiunque possa con la propria sofferenza strappare dieci secondi di attenzione all’onnivoro e annoiato pubblico televisivo. Un meccanismo che spesso non è servito a spiegare i perché, né a prevenire che il fatto si ripetesse, né a impedire che il fatto e tutta questa attenzione mediatica spingessero poi altri disperati e pericolosamente ignorati ragazzi a emulare le gesta di chi li ha preceduti. Il polverone non manca mai di concentrare la sua attenzione sull’incredibile facilità con cui queste persone sono riuscite a procurarsi delle armi, spesso sottratte ai genitori, o acquistate da rivenditori senza scrupoli, ma le reazioni finiscono sempre per scontrarsi contro gli interessi delle lobby delle armi; le quali, da parte loro, non si fanno problemi a rilanciare sempre spingendo ancora più all’assurdo la situazione, come avvenuto dopo la strage alla Sandy Hook Elementary School di Newtown (nella quale, ricordiamolo, hanno perso la vita 27 persone, 20 delle quali bambini tra i 6 e i 7 anni) ad opera di un ventenne, per la quale la soluzione adombrata da questi personaggi con più pelo sullo stomaco che cuore nel petto o cervello in testa, è stata quella di proporre l’armamento anche delle maestre. Come se un educatore, nella sua vita, si dovesse porre l’obbiettivo di far fuori uno studente per evitare che compia una strage. C’è un limite a questa follia?
JEREMY Lasciamo in sospeso la precedente domanda ed entriamo nel vivo del tema di questo articolo. Jeremy è un famosissimo brano dei Pearl Jam, band nota in tutto il mondo e una delle principali del cosiddetto filone grunge. Si tratta di una canzone presente nel loro primo album Ten, uscito il 27 agosto 1991. Jeremy è il terzo singolo estratto da quel fortunato album che ha venduto oltre dieci milioni di copie, ed è stato pubblicato il 2 gennaio del 1992, proponendo un video che ha fatto Storia, dalla potenza visiva enorme, che già puntava decisamente il dito verso questo grave problema, raccontandoci una brutta storia. In effetti, si tratta senza dubbio di uno dei video più intensi ed emotivamente riusciti di tutti gli anni 90 e non a caso, per una volta, vinse 4 MTV Music Awards nel 1993. La musica venne composta quasi interamente da Jeff Ament, bassista del gruppo, che decise di sfruttare a tale scopo un basso Hamer a 12 corde che aveva appena comprato, creando l’intro, la coda strumentale e l’outro del brano grazie alle particolari sonorità offerte dallo strumento. Il Jeremy protagonista della canzone è in tutto e per tutto un triste anticipatore dei suoi più tardi omologhi: un adolescente, forse addirittura più piccolo, ignorato da genitori che non nutrono alcun affetto per lui e ne sono anzi addirittura lievemente infastiditi e intimoriti; palesemente incapace di stabilire delle relazioni sociali anche con i compagni di scuola, che lo ignorano a loro volta o più facilmente lo dileggiano con continui soprusi. Una storia “normale” se vogliamo, dato che tutti ricordiamo un ragazzo del genere in una nostra classe di scuola, che diventa però il terreno fertile per la tragedia imminente. Eddie Vedder, autore del testo della canzone, in particolare in Ten rivela una fortissima sensibilità nei confronti del mondo adolescenziale, al quale dedicherà molti dei suoi brani: nel disco ricordiamo anche la stessa Alive, principalmente autobiografica, e Why Go? dedicata al tema delle violenze sui minori, mentre sul successivo VS, citiamo almeno la celeberrima Daughter. Senza dimenticare che uno dei primi e forse il più famoso simbolo legato agli stessi Pearl Jam è proprio il disegno abbozzato di un ragazzo adolescente che urla, dalla copertina del singolo di Alive. L’abilità e la sensibilità di songwriter di Vedder è riconosciuta e ormai quasi proverbiale, ma quando Jeremy è stata composta, il cantante è solo un surfista di San Diego venuto a cercare fortuna a Seattle un attimo prima che l’uragano si abbattesse. Eppure, la capacità di tratteggiare con poche e nervose parole un mondo così complesso come quello descritto nella canzone, rivela già una profondità notevolissima. Prendiamo ad esempio la prima strofa, nella quale il personaggio e il suo enorme disagio, ci vengono descritti brutalmente e in maniera eclatante, con pochissime parole, partendo dalla più classica delle immagini legate all’infanzia e all’adolescenza: un bambino –o ragazzo- che disegna,
At home Drawing pictures Of mountaintops With him on the top Lemon yellow Sun Arms raised in a V The dead lay In pools of maroon below
A casa Disegnando immagini Di cime montane Con se stesso al vertice Il sole giallo limone Le braccia alzate a formare una V I morti giacciono Al di sotto, in pozze marroni
Il contrasto sensoriale tra l’immagine rassicurante del ragazzo che disegna e il soggetto delle sue immagini è già enorme, ma ecco che Vedder introduce l’elemento se vogliamo esplicativo di una situazione che appare già chiaramente compromessa,
Daddy didn’t give attention To the fact that Mommy didn’t care King Jeremy the Wicked Ruled his world
Papà non fece caso Al fatto che Alla mamma non importasse Re Jeremy il Malvagio Dominava il suo mondo
Anche qui, pochissime parole, ma un universo di significati: la disattenzione dei genitori, a loro volta probabilmente poco attenti l’un l’altro, l’isolamento e la mancanza di comunicazione, e la violenza che si insinua nel ragazzo come fonte di riscatto, come pretesa di attenzione che non viene raccolta e finisce abbandonata sul foglio. E’ a questo punto che Vedder introduce la svolta e lo fa ancora in maniera velata, normale, quotidiana:
Jeremy spoke in class today Jeremy spoke in class today
Jeremy ha parlato in classe oggi Jeremy ha parlato in classe oggi
Una cosa normalissima, si direbbe. Il piccolo Jeremy parla in classe. Forse un’interrogazione, forse una relazione, forse una battuta, uno scambio di parole con un compagno. Forse, purtroppo, qualcos’altro. E qui, irrompe, furiosa, la tragedia. Ancora una volta inaspettata, furente, imprevedibile (?), senza ritorno. Stavolta non è un osservatore esterno a parlare, ma uno dei compagni di classe di Jeremy, uno dei tanti che tormentavano quel ragazzo timido e taciturno, rendendo giorno dopo giorno la sua vita un inferno e facendolo sentire ancora di più disprezzato e solo. Un testimone sconvolto e del tutto incredulo, ma al tempo stesso incapace di comprendere quello che sta avvenendo e le ragioni scatenanti di tutta quella violenza:
Clearly I remember Picking on the boy Seemed a harmless little fuck But we unleashed the lion Gnashed his teeth Bit the recess ladie’s breast How could I forget
Certo che mi ricordo, Sfottevamo quel ragazzo Sembrava un piccolo coglione inoffensivo Ma scatenammo il leone (una belva) Digrignò i denti Morse il seno dell’insegnante di turno durante l’intervallo Come posso dimenticare?
E una volta che la violenza prende il via, non c’è niente che possa fermarla:
He hit me with a surprise left My jaw left hurting Droppep wide open Just like the day Like the day I heard
Mì colpì a sorpresa con un sinistro La mia mascella sinistra dolorante Spalancata Proprio come il giorno Il giorno un cui ho sentito…
Come in un flashback, la macchina torna indietro e mentre l’ultimo atto di violenza sta per compiersi, le immagini ci riportano nuovamente alla casa di Jeremy, culla colpevole di quanto sta arrivando alla sua tragica catarsi a scuola,
Daddy didn’t give affection And the boy was something That mummy wouldn’t wear King Jeremy the Wicked Ruled his world
Jeremy spoke in class today Jeremy spoke in class today
Papà non gli diede affetto E il ragazzo era qualcosa Che la madre non sopportava Re Jeremy il Malvagio Dominava il suo Mondo
Jeremy ha parlato in classe oggi Jeremy ha parlato in classe oggi
Chi ha visto il video della canzone, sa già cosa sta per succedere e qual è l’inevitabile fine di questa brutta storia e cosa Vedder abbia inteso dicendo che Jeremy ha parlato in classe. Purtroppo, lo sfogo di violenza che apparentemente senza motivo ha avuto inizio con una scena normale e quotidiana di “baruffa tra ragazzi” si conclude nel modo peggiore e Jeremy si suicida in classe. La canzone si chiude con un vortice musicale stupendo e terribile, che i Pearl Jam di inizio carriera sapevano creare come poche altre band al mondo, finché le parole ci ricordano ancora che quanto successo non potrà mai passare o essere dimenticato,
Try to forget this Try to erase this Try to forget this Try to erase this From the blackboard
Prova a dimenticare tutto questo Prova a cancellare tutto questo Prova a dimenticare tutto questo Prova a cancellare tutto questo Dalla lavagna
Come ultima terribile simbologia, nei frammenti finali del video, vediamo i compagni di classe di Jeremy inchiodati ai loro banchi, i visi contorti dalla paura e congelati in un attimo eterno, mentre il sangue del ragazzo ricade, non a caso, su tutti loro.
LA NASCITA DELLA CANZONE Stando a quanto dichiarato da Eddie Vedder, il testo di Jeremy nasce da due fatti realmente accaduti: l’8 gennaio del 1991 uno studente di 16 anni Jeremy Wade Delle di Richardson, Texas uscì dalla sua classe di inglese dicendo di aver ricevuto un pacco e poi rientrò con una Magnum 357, si diresse verso il banco dell’insegnante annunciando di aver ricevuto quello di cui aveva bisogno, infilò la canna della pistola in bocca e si uccise, prima che chiunque potesse intervenire. I compagni di classe lo descrissero come un ragazzo timido e tranquillo, conosciuto per apparire sempre un po’ triste. L’altra storia da cui Vedder fu ispirato è invece autobiografica: nella sua scuola di San Diego, un ragazzo di nome Brian che Vedder stesso diceva di conoscere e con il quale aveva litigato più di una volta, azzuffandosi con lui, si chiuse in una stanza di scienze e cominciò a sparare all’impazzata contro le pareti, spari che furono sentiti in tutta la scuola e dallo stesso Eddie. Il cantante ha quindi dichiarato che questi due episodi si sono legati dentro di lui, come due facce della stessa storia ed è da entrambi che nasce la canzone. Riportiamo la sua dichiarazione in merito alla prima storia, con la quale chiudiamo questo articolo:
It came from a small paragraph in a paper which means you kill yourself and you make a big old sacrifice and try to get your revenge. That all you're gonna end up with is a paragraph in a newspaper. Sixty-four degrees and cloudy in a suburban neighborhood. That's the beginning of the video and that's the same thing is that in the end, it does nothing … nothing changes. The world goes on and you're gone. The best revenge is to live on and prove yourself. Be stronger than those people. And then you can come back.
E’ nata da un piccolo paragrafo su un giornale, il che significa che uccidi te stesso e fai questo grosso sacrificio per cercare di avere la tua vendetta. E quello che ottieni alla fine è un articoletto di un paragrafo su un giornale. 64 gradi Farhenheit e nuvoloso in un quartiere suburbano. Questo è l’inizio del video ed è proprio così alla fine, non succede nulla. Nulla cambia. Il mondo va avanti e tu sei morto. La miglior vendetta è continuare a vivere e metterti alla prova. Essere più forte di queste persone. E allora ce l’avrai fatta. (Eddie Vedder, da una intervista apparsa sulla rivista Rockline, il 18 ottobre 1993)
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