Ormai dovreste saperlo. Nonostante la nostra ragione sociale stessa rimandi al metal vissuto come manifestazione interiore e, almeno per alcuni, anche filosofia di vita, ci picchiamo pure di essere la rivista on line più specializzata meno specializzata che ci sia. Giochi di parole a parte, la nostra apertura verso forme espressive solo contigue al metal e, alcune volte, assolutamente lontane da questo, è un dato di fatto che la grandissima parte di voi ha dimostrato di apprezzare. La presenza della rubrica Low Gain ci ha consentito di inserire nel nostro database una gran quantità di dischi che è abbastanza inusuale trovare in quello di testate di settore e così, tra i vari album presenti, ci sono anche quelli di una band importante come i Supertramp. Proprio il gruppo originariamente di Rick Davies e Roger Hodgson (al quale viene in massima parte accreditata la canzone analizzata) ci fornisce la materia prima per la puntata numero 46 della rubrica Cryptic Writings.
LA LOGICA DELLA GIOVINEZZA Nella vita si cambia e questo è un dato di fatto. La giovinezza regala devastanti pulsioni, pressanti aspettative, velleità artistiche e sociali, curiosità verso il nuovo, ma anche voglia di integrità, felicità per ciò che è a prescindere da come potrebbe essere e la irremovibile, romantica, ingenua convinzione di poter fare e potere avere tutto ciò che si ha in mente, quasi sempre volto al bene comune. Poi, crescendo, inevitabilmente si matura e si diventa (o si dovrebbe diventare) naturalmente più concreti. Le aspirazioni diventano meno volte al bene dell’umanità e più a quello personale, le pulsioni meno astratte ed artistiche e più prosaiche, la ricerca di una stabilità più diretta verso quella economica e meno verso quella emotiva. In parte tutto ciò non solo è naturale e scontato, ma anche opportuno al fine di dare un indirizzo concreto alle vite di tutti noi; ma quanto di tutto questo è frutto di una scelta cosciente e quanto l’abbandono delle nostre passioni, dei nostri sogni più puri, è imposto con una violenza che il più delle volte è subdola e non palese, ma più che sufficiente a farci imboccare strade che molto raramente ci regalano vere soddisfazioni interiori? Di tutto ciò si sono occupati infiniti poeti, scrittori, pittori e, ovviamente, anche musicisti. Tra quelli che meglio lo hanno fatto durante gli anni 70, tanto da essere ancora oggetto di ascolto e, persino, di una rubrica come questa, sono stati i Supertramp di The Logical Song.
When I was young It seemed that life was so wonderful A miracle, oh it was beautiful, magical And all the birds in the trees Well, they’d be singing so happily Joyfully, oh playfully watching me But then they send me away To teach me how to be sensible Logical, responsible, practical And then they showed me a world Where I could be so dependable Clinical, intellectual, cynical
Quando ero giovane Sembrava che la vita fosse così meravigliosa Un miracolo, era così bella, magica E tutti gli uccelli sugli alberi Beh, cantavano così felicemente Gioiosamente, scherzosamente mi guardavano Poi loro mi mandarono via Per insegnarmi come essere sensato Logico, responsabile, pratico E poi mi mostrarono un mondo In cui potevo essere così affidabile Clinico, intellettuale, cinico
La forma adottata indica chiaramente come il protagonista del testo sia una persona adulta, vivente negli U.S.A., forse abbastanza avanti con gli anni, il quale, voltandosi indietro, traccia un amaro bilancio di come sono andate le cose nella sua vita. Il primo verso è già importante, dato che egli si qualifica come ex “giovane” e non come ex “bambino”, al fine di posizionare nel tempo il suo ricordo in un’epoca in cui, nonostante la parole usate possano rimandare ad una prima lettura distratta ad un’età verdissima, è in realtà in un momento da posizionare tra la pubertà ed il raggiungimento della maggiore età. Un passaggio della vita in cui tutto sembra essere da vivere, da scoprire, miracoloso e posto sul cammino di ognuno di noi solo per arricchire la nostra esistenza e per porci nelle condizioni di restituirlo al prossimo. Poi, “loro mi mandarono via”, come accade quando, terminato il college, si deve andare all’università che, non dimentichiamolo, in America costa incredibilmente più della nostra se effettivamente qualificata e, pertanto, deve essere affrontata in modo da non rendere la spesa vana. La necessità di cambiare, di diventare “sensato, logico, responsabile, pratico” diventa conditio sine qua non per affrontare una vita in cui non puoi emergere, non puoi soddisfare le aspettative che tutti hanno nei tuoi confronti, non puoi essere l’uomo che tutti si aspettano che tu sia, se nessuno ti insegna ad essere “affidabile, obiettivo, intellettuale, cinico”. In altre parole: maturo, almeno nell’accezione necessaria per la società americana, ma che, in questo caso, non differisce molto da quella di quasi tutto il resto del mondo.
There are times when all the world’s asleep The questions run too deep For such a simple man Won’t you please, please tell me what we’ve learned? I know it sounds absurd, but please tell me who I am
Ci sono volte in cui tutto il mondo dorme Le domande sono troppo profonde Per un uomo così semplice Non vuoi per favore, dirmi cosa abbiamo imparato? So che può sembrare assurdo, ma per favore, dimmi chi sono
Il ritornello è basato su un’apertura musicale apparentemente molto dolce, sognante, ma le parole comunicano invece una malinconia ed un rimpianto squassanti. Riflettendo su ciò che è stato e sulla semplicità d’animo di un uomo che nel profondo ha conservato un nocciolo duro di innocenza primigenia, quando il mondo dorme, quando nessuno ascolta, si chiede a cosa sono servite quelle lezioni di cinismo, se adesso non c’è niente di soddisfacente per l’anima da stringere in mano? E se qualcuno può farlo, se qualcuno è capace di dare un senso a questo cammino, può spiegare e dare una logica all’attraversamento di questo sentiero ad un uomo che lo ha percorso solo perché trascinato dalla corrente, solo perché costretto dagli eventi e da una procella cui non ha saputo o potuto opporsi? Un uomo ormai così diverso da quello che era, da non riconoscersi più.
I say, Now what would you say For they calling you a radical Liberal, fanatical, criminal? Won’t you sign up your name? We’d like to feel you’re acceptable Respectable, presentable, a vegetable Oh, check it out, yeah
E dico, cosa ne diresti ora Se ti chiamassero radicale Liberale, fanatico, criminale? Potresti sottoscriverlo? Ci piacerebbe sapere che sei gradevole Rispettabile, presentabile, un vegetale O scopriamolo, sì.
Sostenuto da un cambio di tempo deciso, sottolineato dall’entrata della tastiera, il testo prende improvvisamente una piega rabbiosa. Ma perché doversi vergognare di come e di cosa si è? Ma perché dover nascondere opinioni, aspirazioni, punti di vista, convinzioni e quant’altro, solo perché diverse da quelle della massa di bigotti figli del sartiame della Mayflower che tiene in pugno gli Stati Uniti? E come ti sentiresti tu, caro americano medio obeso, W.A.S.P., armato, agiato, assicurato, bypassato (con by pass), se per il tuo stile di vita e per le tue idee venissi bollato come “radicale” (in America praticamente un sinonimo di estremista), “liberale, fanatico, criminale"? Lo accetteresti? Ed il tuo essere rispettabile e presentabile che ti rende un vegetale a tua insaputa in un mondo di vegetali inconsapevoli è davvero l’unico modo in cui si può essere? Perché non proviamo invece a gettare le maschere sociali ed a guardarci per come siamo davvero? Saresti disposto? L’intervento del sassofono di John A. Helliwell è quasi uno spezzare una catena, un rivendicare il diritto ad essere ciò che si è, od almeno a non soffocarlo del tutto.
At night when all the world’s asleep The questions run so deep For such a simple man Won’t you please, please tell me what we’ve learned? I know it sounds absurd please tell me who I am Who I am, who I am, who I am
Di notte, quando tutto il mondo dorme Le domande sono troppo profonde Per un uomo così semplice Vi dispiacerebbe, per favore dirmi cosa abbiamo imparato? So che può suonare assurdo Ma per favore ditemi chi sono, Chi sono, chi sono, chi sono
La ripetizione finale del chorus sembra tale ad un ascolto distratto, ma c’è qualche differenza nelle parole; e la ripetizione angosciante della domanda finale suona non solo come un artifizio per legarla alla musica, ma come un vuoto interiore che, ormai, non è più possibile colmare. Ancora una volta, è Helliwell a dare al tutto un senso di rabbia, smarrimento e nevroticità col suo sassofono che sfuma su una serie di effetti presi da due popolari giochi elettronici dell’epoca.
ANNI 70: DIVENTARE RADICALE E FANATICO TRAMITE L’EUROPHON Il testo di cui abbiamo appena parlato, oltre a suonare benissimo anche in senso lato (famosissime le sequenze Clinical, intellectual, cynical e acceptable, Respectable, presentable, vegetable con le desinenze uguali, parole davvero incisive e non certo scelte a caso) risente in parte dell’ambientazione statunitense cui si riferisce nelle intenzioni iniziali ed in parte anche dell’epoca in cui fu scritto. Il trasferimento definitivo del gruppo negli States era ancora recente e la necessità di adattarsi al mercato principale di riferimento produsse un album come Breakfast in America, certamente più popular -ed uso volutamente la definizione “popular” invece di “pop”- dei lavori precedenti, ma ugualmente eccellente ed ancora una volta connotato da liriche di alto livello, una costante dei Supertramp. L’uso di parole quali “radical”, “liberal” e l’utilizzo di una scansione temporale dei fatti, tipicamente riferita ad una società bacchettona all’epoca affidata ad un coltivatore di noccioline e che tale è rimasta nonostante i cambi al timone, sono forse la dimostrazione di un preciso intento, quello di parlare in prima battuta agli acquirenti principali dei propri dischi, ma, al di là di questa sottigliezza peraltro tutta da dimostrare e del tempo trascorso dal 1979 ad oggi, la forza poetica di questo testo è rimasta assolutamente intatta e lo è rimasta per una ragione precisa. Perché ancora oggi, anzi, forse ancora di più oggi, la necessità di lasciare bruscamente la vita adolescenziale, la sua romantica spensieratezza, l’incapacità di osservare quanto le cose non siano solo “uccelli sugli alberi” che “cantavano così felicemente”, ma anche la voglia gioiosa di restare puri, di essere sempre portati a fare la cosa giusta, di non perdere di umanità a favore di una responsabilizzazione che, pur necessaria, non deve portare con sé anche la perdita della propria umanità, costringendo ognuno a diventare “rispettabile, presentabile, un vegetale”. Perché se qualcuno tende a deviare, a conservare in sé una scintilla, un anelito insopprimibile di giustizia, di verità, di umanità, non deve per forza essere considerato “radicale, liberale, fanatico, criminale”, comunque diverso ed inferiore perché non ha capito cosa si deve fare e come si deve essere. In questo, la società del 1979 non era diversa da quella del 1959 o da quella del 2015, così come da quella di qualsivoglia altro periodo storico, perché la praticità ed un pizzico di sano cinismo sono probabilmente non solo utili, ma essenziali per assicurare la nostra sopravvivenza come individui e come specie, ma è e sempre sarà necessario disconoscere quella parte di noi che non lo è, additarla come diversa e da deridere e relegarla nell’angolo in cui si confinano quei disadattati che talvolta chiamiamo artisti? È questo, alla fine, ciò che questo testo che io ascoltavo insieme a mia madre all’età di 12 anni da una iconica radio lampada Europhon durante la classica “Hit Parade”, comunicava e comunica ancora: non uccidiamo ciò che abbiamo dentro, perché prima o poi ci troveremo soli, da qualche parte, a chiedere ed a chiederci “chi sono io?”.
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